Il futuro roseo e il Paradiso di Cantor di P. Pagliani
D’altra parte l’andamento dei cicli di monocentrismo-policentismo testimonia di tale riduzione. Se all’inizio, come per altro metteva in rilievo Marx, c’era stata Venezia, una città-stato, poi si passò alle Province Unite, una via di mezzo tra città-stato e stato-nazionale, per arrivare alla Gran Bretagna, uno stato-nazionale, per finire con gli USA, un continente-stato-nazionale. In altri termini, ogni nuovo ciclo pretendeva un attore di maggiori dimensioni fisiche (oltre che con determinate proprietà economiche, militari e geostrategiche). Gli attuali contendenti sono: una nazione che occupa due continenti, la Russia, un subcontinente, l’India, e un "impero continentale" smisurato, la Cina, i paesi più popolati del mondo. E anche i tempi di egemonia si sono ridotti, come mostra questo schema che, sulla scorta dell’analisi sviluppata in G. Arrighi, "Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo" (Il Saggiatore, 1996), avevo pubblicato sul mio "Alla conquista del cuore della Terra. Gli USA dall’egemonia sul ‘mondo libero’ alla conquista dell’Eurasia" (Ed. Punto Rosso, 2003):
SEMPRE CON TANTA PAZIENZA di G.La Grassa
A dir la verità, sono un po’ stanco di dover rispondere ad obiezioni che ritengo abbiano avuto già una risposta in quello che ho scritto anche nei tempi più recenti. Intanto, per quanto le argomentazioni di un Arrighi siano senz’altro interessanti e stimolanti, penso che tale autore sia assai più deterministico di me. Il suo porre l’ascesa di una potenza (centrale) nel periodo della preminenza, diciamo così, dei suoi settori produttivi, mentre il declino coincide con la predominanza della sfera finanziaria, mi sembra piuttosto schematico. Credo molto più “flessibile” il mio articolare tale sfera (sia in “sincronico” che in “diacronico”) con quella politica e quella ideologico-culturale; indicando in quali contesti (strutturali; e con riferimento non alla sola struttura sociale del capitalismo, ma anche a quella della formazione globale o mondiale) si può produrre la prevalenza della finanza e manifestare il suo aspetto parassitario. In fondo, Arrighi sostiene (deterministicamente) che gli Usa sono in fase ormai declinante; solo che una decina d’anni fa (e anche meno) dichiarava, senza manifestare dubbi, essere il Giappone il futuro nuovo “centro” mondiale; oggi afferma, sempre con la stessa determinazione, che sarà la Cina.
Ho scritto assai esplicitamente che passato e futuro sono asimmetrici; il primo “noto” e il secondo “ignoto”; in entrambi i casi, tuttavia, “conosciuti” solo attraverso costruzione di una o più ipotesi, le quali, di per se stesse, non hanno nulla di deterministico, perché possono essere smentite in tempi più o meno brevi (così come lo è stata la supposizione, fatta però scorrettamente passare per certa, che il Giappone fosse destinato a sostituire gli Usa). Io rilevo che tutto lascia pensare ad un relativo declino statunitense – o comunque a pesanti difficoltà per tale paese di mantenere la posizione centrale – con crescita del disordine mondiale (sia economico-finanziario che geopolitico) e probabile avvio di una fase policentrica. Ho addirittura parlato, riferendomi a quest’ultima, di “scommessa” (e quando si scommette, si dà per scontato che si può perdere; tuttavia è lecito, e perfino doveroso in dati casi, effettuare delle scommesse). Ho anche affermato che oggi sembra che le nuove potenze in crescita “ad est” siano Russia, Cina e India, ma nessuno può garantire che saranno proprio questi paesi a contrastare maggiormente gli Stati Uniti nei prossimi decenni; nessuno può garantire che uno di essi sarà la potenza predominante in un eventuale (non certo) nuovo monocentrismo (in ogni caso, collocato talmente in là nel tempo che sarebbe da matti farci dei ragionamenti sopra, soprattutto di tipo politico!). Ho perfino sostenuto che nessuno può escludere – nella eventualità di una nuova conflittualità policentrica (che, l’ho scritto e lo riscrivo, non necessariamente dovrà assumere le forme belliche del ‘900) – una nuova vittoria del paese oggi predominante, cioè appunto gli Usa.
Meno deterministico di così non saprei essere. Ho solo mostrato maggior sicurezza – mai certezza al 100% – sul fatto che una fase storica è finita: quella caratterizzata dalla presunta rivoluzione comunista e dalla “costruzione del socialismo”. Secondo me, è defunta pure la speranza dell’accerchiamento delle “città” da parte delle “campagne”, cioè la credenza (perché di ciò si è trattato) che le “masse diseredate” del (terzo) mondo sostituissero la “classe operaia” (del capitalismo avanzato) nel rovesciare il potere dei dominanti (capitalistici, ecc.). Sempre in termini probabilistici, ma senza dubbio con una certa sicurezza, prevedo che le lotte dei “comunisti” in India, nel Nepal, ecc. o le “rivolte contadine” in Cina, ecc. saranno gli ultimi sussulti di un movimento “antico”, probabilmente rinvigoriti, del tutto temporaneamente, dai processi di sviluppo (con grandi disuguaglianze come in ogni fase di sviluppo finora conosciuta in un qualsiasi sistema; e non solo sociale) che hanno investito determinate aree del pianeta.
Come esempio storico (ma solo come uno degli esempi, però non certo irrilevante) ricordo il luddismo. Il primo atto di ribellione alle macchine (fra quelli ricordati) si ha nel 1779 con Ned Ludd che distrusse un telaio. Il movimento prese più ampie proporzioni nel 1799-800 e raggiunse il suo acme nel 1810-11 in Inghilterra (non a caso), dove restò come fatto endemico fin verso il 1825; propaggini nel continente si ebbero soprattutto in Francia, Belgio, Svizzera nel 1830-31 con un ultimo sussulto agonico in Slesia nel 1844. Dopo arrivò il 1848 e iniziò tutta un’altra storia, che oggi è alla fine anch’essa (temo anzi che sia già morta, e da un bel po’ di tempo, nei nostri paesi; ma ci possono essere delle propaggini altrove). In ogni caso, nulla viene dato per certo; queste sono le convinzioni mie (e credo non solo mie).
In ogni caso, nessuno che mi abbia minimamente letto può immaginare che io mi dedichi a determinismi “storici”. E soprattutto che io disdegni le prospettive politiche attuali. E’ proprio per evitare la ripetizione, in politica, di quelli che ritengo schemi ormai ossificati e sclerotici, che insisto su una teoria di fase; senza nessun disprezzo per chi è interessato alla longue durée, ai grandi cicli storici; questi però servono a poco proprio per “fare politica”. In ogni modo, il mio libro appena uscito (Contro) è già disponibile; fra qualche mese lo sarà anche Strategie (per una teoria di fase). Infine, a giorni sarà messo nel sito il mio “Tutto torna, ma diverso”, che tratta di problemi sempre dello stesso genere. Se dopo questi scritti, si insisterà a sostenere che sono determinista, che non affronto le prospettive politiche oggi esistenti (scarse e incerte, ma non per colpa mia), allora “mi arrendo” all’evidenza che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire delle ipotesi scomode e poco rassicuranti.
Grazie dell’attenzione
glg
I dubbi di Pagliani sono legittimi ma se è per questo, quanto alla riduzione degli spazi di soluzione o all’andamento dei cicli, non si può, ugualmente, essere deterministi e consequenziali (del tipo data la tendenza…d’ora in poi sarà così). Perciò dobbiamo proiettare la teoria con prudenza e mi sembra che questo Gianfranco lo faccia benissimo (del resto, ha più volte ribadito che la sua teoria è per questa fase storica e non per un’intera epoca). Date queste condizioni parlare di "futuro roseo" è, più che altro, una speranza di "deviazione", un clinamen, che non voglio assolutamente legalizzare e proiettare nel lungo periodo come una necessità. Parlo dell’India più come "sintomatologia" che non come esempio concreto (augurando a questa comunque un futuro di maggiore indipendenza).
Per esempio, mi convince poco anche la periodizzazione di Arrighi (quella, per intenderci, riportata nel saggio Il lungo XX secolo) che addirittura fa risalire la nascita del capitalismo al 1400 (se non prima, adesso non ricordo bene). Sotto questo punto di vista Althusser contestava, a ragione, questa pseudo-teoria della "lunga marcia" dell’umanità verso il capitalismo (inteso alla stregua di un destino ineluttabile poichè spiegato attraverso una concatenazione ex-post di eventi che inevitabilmente non potevano che condurre ad esso) opponendovi la teoria del materialismo dell’incontro. Ovvero, il destino non ha tramato affinché giungessimo dove ora siamo, si è invece prodotto un incontro, un fatto casuale, ma con le caratteristiche della durevolezza che ha creato un sistema (contestando con ciò anche il fatto semplicistico che il modo di produzione capitalistico si sia prima affermato negli interstizi della società feudale per poi estendersi, via via, a tutta la società, "rosicchiando" lentamente terreno all’organizzazione feudale medesima).
Se le cose stanno così le nostre previsioni non possono che essere di fase ma ciò non significa che dobbiamo rinunciare ad un minimo di proiezione (nella quale entra il già conosciuto, l’interpretazione del passato, come base di partenza per le ipotesi previsionali successive). Il problema si presenta quando, pur essendo la teoria inutilizzabile e ridotta a pura ideologia, si continua a "profetizzare" quello che non può più essere. Quindi noi non lasciamo perdere la politica ma cerchiamo di rintracciare nella fase attuale le condizioni più propizie per una concreta azione antisistemica (sempre che queste ci siano). Questo quadro di condizioni sarà a noi favorevole quando (e se) si produrrà una nuova fase di policentrismo (le cui caratteristiche sono appena percepibili).
Qualora quell’ "evento casuale" dovesse prodursi speriamo ci assista la fortuna e la capacità di saper r-accogliere detta fortuna.