Il futuro roseo e il Paradiso di Cantor di P. Pagliani

a seguire risposte di G. La Grassa e G.P.
 
Agli inizi degli anni Venti, il tedesco David Hilbert, uno dei massimi matematici del XX secolo, prese le difese della teoria del transfinito introdotta da Cantor. Questa teoria aveva indotto una serie di dubbi in grandi matematici come l’olandese Luitzen E. Brouwer e il francese Henri Poincaré e si era appurato che essa conduceva a diverse incoerenze logico-matematiche. Eppure, di fronte alle possibilità che tale teoria aveva aperto in matematica, Hilbert non esitò ad affermare: “Nessuno potrà scacciarci dal Paradiso che Cantor ha creato per noi”.
Anche nella regina delle scienze, la presenza di paradossi e possibili conclusioni incoerenti non è motivo per rigettare una teoria o persino un’ipotesi indimostrata o indimostrabile, se queste si dimostrano feconde da un punto di vista concettuale. E lo affermava uno dei paladini della coerenza logica in matematica.
 
Passando all’ambito di interesse dei lettori, io, si parva licet, vorrei affermare che nessuno ci potrà scacciare dal Paradiso che Gianfranco La Grassa ha creato per noi (ma vorrei anche associare Costanzo Preve, nonostante le loro attuali divergenze).
Il chiarimento da parte di La Grassa di alcuni punti nodali per far compiere al marxismo quello che io definisco un "salto quantistico" sono basi di partenza imprescindibili, nonostante a mio parere alcune conclusioni possano essere impreviste oppure, a mio modo di vedere, incoerenti con una qualche ragionevole accezione del termine "anticapitalista".
 
Alcuni contributi come "E le tendenze di lungo periodo?" di La Grassa o il commento a "India, potenza mondiale?" di G. P. possono servire come esempio di simili conclusioni, che affronto in modo per ora schematico.
 
1) A proposito dello sviluppo indiano (e lo stesso vale per la Cina) trovo un po’ troppo deterministico parlare di "un più roseo futuro" come afferma G. P. .
Intanto il presente è già roseo per 270 milioni di Indiani. Bisogna dimostrare che lo sarà anche per i rimanenti 836 milioni se si lascerà fare ai vari Tata (e ai Tata-Fiat), senza disturbare il manovratore (con corredo di massacratori e di violentatori). Io non credo che se non si fa così l’alternativa è il rimanere al palo del non-sviluppo. Questo trade-off da una parte sembra basarsi, per l’appunto, su di una convinzione deterministica, dall’altra suggerisce un atteggiamento "osservazionale" che pretende di espellere giudizi di valore, nello stile (per me utopico) della filosofia analitica anglosassone.
 
2) Non ritengo che sia appropriato parlare di sviluppo che si misura sui 100-200 anni, come suggerisce Gianfranco. Per almeno tre motivi.
 
A) Il primo, se volete un po’ naïve, è che la gente vive adesso e non tra 100 o 200 anni e quindi di fatto si sta proponendo una strategia dei due tempi di cui il primo è virtualmente infinito. Uno o due secoli non sono tempi politici, ma religiosi.
 
B) Il secondo motivo è che in questa strategia dei due tempi non si riesce a capire cose succederà nel secondo.
Saremo in presenza di un mondo multipolare che permetterà … che permetterà … che permetterà che cosa? Non è inverosimile ipotizzare che se si lascia perdere la politica per uno o due secoli, ci si potrà permettere solo una guerra mondiale oppure (se continuerà la scissione tra potenza militare e potenza economica che oggi si incomincia a intravedere) un caos sistemico permanente. Non ho difficoltà ad ammettere che questo potrebbe succedere anche se si facesse politica. Oppure la storia del mondo potrebbe andare da tutt’altra parte (io la sfera di cristallo non ce l’ho, cerco solo di ragionare).
 
C) Il terzo motivo è che possiamo pensare ad un futuro roseo (tra uno o due secoli?) solo sulla base dell’esperienza passata. Ma la storia non si presenta mai due volte allo stesso modo.
Ad esempio, se durante due secoli di sviluppo occidentale furono espulsi dall’Europa qualche decina di milioni di "esuberi" che poterono andare a colonizzare tre continenti pressoché vergini (le due Americhe e l’Australia), oggi gli "esuberi" si contano a miliardi (con la piena introduzione del capitalismo nelle campagne cinesi, stimano alcuni autori, 10.000 famiglie potrebbero sostituire 800 milioni di contadini, e in India, in base ai dati che leggo giornalmente, le cose stanno andando in quella direzione – così da spiegare, ma è solo uno dei tanti dati, il perché dei 180.000 contadini indiani suicidi negli ultimi 10 anni – e, francamente, io non riesco a far spallucce pensando al sole più roseo dell’avvenir). In compenso non ci sono più continenti vergini da colonizzare.
Più in generale, lo sviluppo occidentale si basò su alcuni fattori ben precisi:
a) La tratta degli schiavi e il saccheggio dell’India dopo la (poco gloriosa) battaglia di Plassey, che permisero quell’approvvigionamento finanziario da investire nelle invenzioni del XVIII e XIX secolo.
b) Un regime liberista coordinato dalla Gran Bretagna, che permise di trasmettere la crescita britannica al resto dell’Europa e all’America. Regime liberista che però stava in piedi perché esso non valeva in tutto il resto del mondo. Che stava in piedi solo perché l’India era un mercato captive che doveva assorbire, dissanguandosi, ogni tipo di merce dalla Gran Bretagna e perché la Cina era costretta, tra le altre cose cui era stata obbligata dai trattati iniqui firmati dopo le due Guerre dell’Oppio, a comprare l’oppio bengalese, così che l’economia dell’impero Qing fu messa in ginocchio a maggior gloria del liberismo occidentale.
Era talmente importante l’approvvigionamento finanziario dall’Asia per mantenere l’egemonia economica, militare e politica della Gran Bretagna, che il Maresciallo Montgomery, nelle sue memorie sulla II Guerra Mondiale, afferma a chiare lettere che se la Germania avesse occupato l’Inghilterra sarebbe stato un duro colpo, ma non mortale: c’era già il piano per trasferire il governo nel Canada da dove proseguire la lotta. Ma se la Germania avesse tagliato in due l’Impero, isolando la parte occidentale dall’India, la Gran Bretagna avrebbe dovuto firmare la resa il giorno dopo.
c) Una serie di invenzioni e innovazioni tecniche di enorme portata economica e sociale. Varrebbe la pena di capire se le attuali innovazioni possano avere un effetto di sviluppo pari a quello della vecchia industrializzazione, diciamo così, del ferro e del carbone. Non sono sicuro, ma penso che l’informatica e le telecomunicazioni, le grande innovazioni di ieri, non abbiano avuto lo stesso impatto e le innovazioni di oggi e del domani prevedibile, legate alle biotecnologie, sembrano, in termini quantitativi, ancora meno promettenti. Ammetto di essere però in possesso solo di dati frammentari derivanti anche da trent’anni di lavoro nell’industria informatica durante i quali mi sono passati sotto gli occhi decine di previsioni di crescita che non si sono avverate (a volte, ma più raramente, anche casi opposti). Invito chi ha le idee più chiare di me a venirmi in aiuto.
 
Insomma, siamo di fronte ad uno scenario talmente cambiato, in termini fisici, economici, sociali e geopolitici che non ritengo ci sia permesso proiettare uno o due secoli passati su uno o due secoli futuri.
Ed è per questo che parlo di "riduzione degli spazi di soluzione".

D’altra parte l’andamento dei cicli di monocentrismo-policentismo testimonia di tale riduzione. Se all’inizio, come per altro metteva in rilievo Marx, c’era stata Venezia, una città-stato, poi si passò alle Province Unite, una via di mezzo tra città-stato e stato-nazionale, per arrivare alla Gran Bretagna, uno stato-nazionale, per finire con gli USA, un continente-stato-nazionale. In altri termini, ogni nuovo ciclo pretendeva un attore di maggiori dimensioni fisiche (oltre che con determinate proprietà economiche, militari e geostrategiche). Gli attuali contendenti sono: una nazione che occupa due continenti, la Russia, un subcontinente, l’India, e un "impero continentale" smisurato, la Cina, i paesi più popolati del mondo. E anche i tempi di egemonia si sono ridotti, come mostra questo schema che, sulla scorta dell’analisi sviluppata in G. Arrighi, "Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo" (Il Saggiatore, 1996), avevo pubblicato sul mio "Alla conquista del cuore della Terra. Gli USA dall’egemonia sul ‘mondo libero’ alla conquista dell’Eurasia" (Ed. Punto Rosso, 2003):

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L’idea di "riduzione degli spazi di soluzione" è quindi qui esemplificata dalla continua accelerazione del ritmo (tempo sempre minore per l’ascesa, lo sviluppo e la sostituzione di un regime sistemico) e l’aumento della complessità organizzativa richiesta ad una potenza per poter emergere come dominante.
 
Io non so se il futuro sarà più roseo. Ma se lo sarà, lo sarà non perché si è copiato il passato, ma per ragioni che ci saranno sfuggite.
Per ora rimangono due domande: a) Cosa facciamo adesso, in termini politici? b) Che cosa faremo in un mondo sviluppato e policentrico?
 
Piero Pagliani
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SEMPRE CON TANTA PAZIENZA di G.La Grassa

 

A dir la verità, sono un po’ stanco di dover rispondere ad obiezioni che ritengo abbiano avuto già una risposta in quello che ho scritto anche nei tempi più recenti. Intanto, per quanto le argomentazioni di un Arrighi siano senz’altro interessanti e stimolanti, penso che tale autore sia assai più deterministico di me. Il suo porre l’ascesa di una potenza (centrale) nel periodo della preminenza, diciamo così, dei suoi settori produttivi, mentre il declino coincide con la predominanza della sfera finanziaria, mi sembra piuttosto schematico. Credo molto più “flessibile” il mio articolare tale sfera (sia in “sincronico” che in “diacronico”) con quella politica e quella ideologico-culturale; indicando in quali contesti (strutturali; e con riferimento non alla sola struttura sociale del capitalismo, ma anche a quella della formazione globale o mondiale) si può produrre la prevalenza della finanza e manifestare il suo aspetto parassitario. In fondo, Arrighi sostiene (deterministicamente) che gli Usa sono in fase ormai declinante; solo che una decina d’anni fa (e anche meno) dichiarava, senza manifestare dubbi, essere il Giappone il futuro nuovo “centro” mondiale; oggi afferma, sempre con la stessa determinazione, che sarà la Cina.

Ho scritto assai esplicitamente che passato e futuro sono asimmetrici; il primo “noto” e il secondo “ignoto”; in entrambi i casi, tuttavia, “conosciuti” solo attraverso costruzione di una o più ipotesi, le quali, di per se stesse, non hanno nulla di deterministico, perché possono essere smentite in tempi più o meno brevi (così come lo è stata la supposizione, fatta però scorrettamente passare per certa, che il Giappone fosse destinato a sostituire gli Usa). Io rilevo che tutto lascia pensare ad un relativo declino statunitense – o comunque a pesanti difficoltà per tale paese di mantenere la posizione centrale – con crescita del disordine mondiale (sia economico-finanziario che geopolitico) e probabile avvio di una fase policentrica. Ho addirittura parlato, riferendomi a quest’ultima, di “scommessa” (e quando si scommette, si dà per scontato che si può perdere; tuttavia è lecito, e perfino doveroso in dati casi, effettuare delle scommesse). Ho anche affermato che oggi sembra che le nuove potenze in crescita “ad est” siano Russia, Cina e India, ma nessuno può garantire che saranno proprio questi paesi a contrastare maggiormente gli Stati Uniti nei prossimi decenni; nessuno può garantire che uno di essi sarà la potenza predominante in un eventuale (non certo) nuovo monocentrismo (in ogni caso, collocato talmente in là nel tempo che sarebbe da matti farci dei ragionamenti sopra, soprattutto di tipo politico!). Ho perfino sostenuto che nessuno può escludere – nella eventualità di una nuova conflittualità policentrica (che, l’ho scritto e lo riscrivo, non necessariamente dovrà assumere le forme belliche del ‘900) – una nuova vittoria del paese oggi predominante, cioè appunto gli Usa.

Meno deterministico di così non saprei essere. Ho solo mostrato maggior sicurezza – mai certezza al 100% – sul fatto che una fase storica è finita: quella caratterizzata dalla presunta rivoluzione comunista e dalla “costruzione del socialismo”. Secondo me, è defunta pure la speranza dell’accerchiamento delle “città” da parte delle “campagne”, cioè la credenza (perché di ciò si è trattato) che le “masse diseredate” del (terzo) mondo sostituissero la “classe operaia” (del capitalismo avanzato) nel rovesciare il potere dei dominanti (capitalistici, ecc.). Sempre in termini probabilistici, ma senza dubbio con una certa sicurezza, prevedo che le lotte dei “comunisti” in India, nel Nepal, ecc. o le “rivolte contadine” in Cina, ecc. saranno gli ultimi sussulti di un movimento “antico”, probabilmente rinvigoriti, del tutto temporaneamente, dai processi di sviluppo (con grandi disuguaglianze come in ogni fase di sviluppo finora conosciuta in un qualsiasi sistema; e non solo sociale) che hanno investito determinate aree del pianeta.

Come esempio storico (ma solo come uno degli esempi, però non certo irrilevante) ricordo il luddismo. Il primo atto di ribellione alle macchine (fra quelli ricordati) si ha nel 1779 con Ned Ludd che distrusse un telaio. Il movimento prese più ampie proporzioni nel 1799-800 e raggiunse il suo acme nel 1810-11 in Inghilterra (non a caso), dove restò come fatto endemico fin verso il 1825; propaggini nel continente si ebbero soprattutto in Francia, Belgio, Svizzera nel 1830-31 con un ultimo sussulto agonico in Slesia nel 1844. Dopo arrivò il 1848 e iniziò tutta un’altra storia, che oggi è alla fine anch’essa (temo anzi che sia già morta, e da un bel po’ di tempo, nei nostri paesi; ma ci possono essere delle propaggini altrove). In ogni caso, nulla viene dato per certo; queste sono le convinzioni mie (e credo non solo mie).

In ogni caso, nessuno che mi abbia minimamente letto può immaginare che io mi dedichi a determinismi “storici”. E soprattutto che io disdegni le prospettive politiche attuali. E’ proprio per evitare la ripetizione, in politica, di quelli che ritengo schemi ormai ossificati e sclerotici, che insisto su una teoria di fase; senza nessun disprezzo per chi è interessato alla longue durée, ai grandi cicli storici; questi però servono a poco proprio per “fare politica”. In ogni modo, il mio libro appena uscito (Contro) è già disponibile; fra qualche mese lo sarà anche Strategie (per una teoria di fase). Infine, a giorni sarà messo nel sito il mio “Tutto torna, ma diverso”, che tratta di problemi sempre dello stesso genere. Se dopo questi scritti, si insisterà a sostenere che sono determinista, che non affronto le prospettive politiche oggi esistenti (scarse e incerte, ma non per colpa mia), allora “mi arrendo” all’evidenza che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire delle ipotesi scomode e poco rassicuranti.

Grazie dell’attenzione

glg      

 
DETERMINISMO CHIAMA DETERMINISMO di G.P.
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I dubbi di Pagliani sono legittimi ma se è per questo, quanto alla riduzione degli spazi di soluzione o all’andamento dei cicli, non si può, ugualmente, essere deterministi e consequenziali (del tipo data la tendenza…d’ora in poi sarà così). Perciò dobbiamo proiettare la teoria con prudenza e mi sembra che questo Gianfranco lo faccia benissimo (del resto, ha più volte ribadito che la sua teoria è per questa fase storica e non per  un’intera epoca). Date queste condizioni parlare di "futuro roseo" è, più che altro, una speranza di "deviazione", un clinamen, che non voglio assolutamente legalizzare e proiettare nel lungo periodo come una necessità. Parlo dell’India più come "sintomatologia" che non come esempio concreto (augurando a questa comunque un futuro di maggiore indipendenza).

Per esempio, mi convince poco anche la periodizzazione di Arrighi (quella, per intenderci, riportata nel saggio Il lungo XX secolo) che addirittura fa risalire la nascita del capitalismo al 1400 (se non prima, adesso non ricordo bene). Sotto questo punto di vista Althusser contestava, a ragione, questa pseudo-teoria della "lunga marcia" dell’umanità verso il capitalismo (inteso alla stregua di un destino ineluttabile poichè spiegato attraverso una concatenazione ex-post di eventi  che inevitabilmente non potevano che condurre ad esso) opponendovi la teoria del materialismo dell’incontro. Ovvero, il destino non ha tramato affinché giungessimo dove ora siamo, si è invece prodotto un incontro, un fatto casuale, ma con le caratteristiche della durevolezza che ha creato un sistema (contestando con ciò anche il fatto semplicistico che il modo di produzione capitalistico si sia prima affermato negli interstizi della società feudale per poi estendersi, via via, a tutta la società, "rosicchiando" lentamente terreno all’organizzazione feudale medesima).

Se le cose stanno così le nostre previsioni non possono che essere di fase ma ciò non significa che dobbiamo rinunciare ad un minimo di proiezione (nella quale entra il già conosciuto, l’interpretazione del passato, come base di partenza per le ipotesi previsionali successive). Il problema si presenta quando, pur essendo la teoria inutilizzabile e ridotta a pura ideologia, si continua a "profetizzare" quello che non può più essere. Quindi noi non lasciamo perdere la politica ma cerchiamo di rintracciare nella fase attuale le condizioni più propizie per una concreta azione antisistemica (sempre che queste ci siano). Questo quadro di condizioni sarà a noi favorevole quando (e se) si produrrà una nuova fase di policentrismo (le cui caratteristiche sono appena percepibili).

Qualora quell’ "evento casuale" dovesse prodursi speriamo ci assista la fortuna e la capacità di saper r-accogliere detta fortuna.