IL GIORNALISMO AL MACERO
Il ruolo del giornalista è molto particolare. A differenza di quanto la vulgata comune supponga, quello di riportare la realtà dei fatti non è un mestiere semplice e tanto meno ricavabile da improvvisazioni “sul tema”. Non basta “scrivere bene”, con buona forma grammaticale e fluidità lessicale. È opportuno non fermarsi mai. Acquisire sempre nuove conoscenze e apprendere senza sosta non solo gli eventi che continuamente determinano lo scorrimento della realtà, il suo divenire, ma anche affilare e migliorare costantemente gli strumenti fondamentali a tale scopo. Anche nei settori maggiormente specifici e tematici del giornalismo, il nozionismo tecnico (storico, politico, economico ecc. …) è necessario ma non sufficiente. La capacità di osservazione deve essere necessariamente accompagnata dalla capacità di selezionare le fonti attraverso cui visualizzare una realtà, inquadrarla, sviscerarla minuziosamente, per poi ricomprenderla all’interno di un più ampio quadro di analisi, che nasca dalla comparazione tra il passato ed il presente, ipotizzando i possibili scenari futuri. È un compito prettamente scientifico, non letterario o meramente “culturale”. Si tratta di un mestiere molto complesso, che, purtroppo, i principali quotidiani della nostra Penisola sempre di meno concepiscono in modo totale ed organico. Lo scempio compiuto verso il giornalismo da diversi nomi altisonanti dei giornali più importanti, in questi ultimi anni è senza precedenti. Lo scadimento qualitativo ed il livellamento verso il basso della carta stampata, hanno un’origine prettamente politica. La stampa è lo specchio di un Paese, e il modo con cui questa descrive e interpreta gli eventi principali deriva direttamente dalla situazione che viviamo. La riduzione dei principali quotidiani alla stregua di caricaturali protagonisti di un ignobile teatrino pro o contro Berlusconi, è infatti l’ovvia conseguenza della riduzione della politica ad un ignobile teatrino pro o contro Berlusconi, laddove la schermatura garantita da un copione di conflittualità sovrastrutturale (POLO/CDL/PDL contro PDS/ULIVO/PD) ha impedito per anni di intercettare i veri nodi dello scontro, situati ben più in profondità (e trasversalmente alle divisioni partitiche) di quanto le apparenze lascino supporre. Il ruolo storico della cronaca e dell’analisi politico-economica, malgrado la partigianeria e la quasi fisiologica “impossibilità di oggettività”, nella Prima Repubblica era sempre stato anzitutto quello di stimolare i partiti, di porre problemi marginalizzati o del tutto latitanti all’interno del dibattito politico, di avviare una dialettica costruttiva, attraverso il confronto pubblico e a distanza, conferendo al quotidiano una funzione di inter-connessione tra i singoli cittadini, le espressioni sociali e le classi dirigenti. Questo ruolo è venuto totalmente a mancare nel momento in cui i quotidiani più importanti sono diventati il tentacolo editoriale di gruppi di potere economici e finanziari, separati dalla politica o comunque non corrispondenti alle principali espressioni sociali del nostro Paese. È successo con Repubblica, il cui gruppo editoriale, com’è noto, fa capo a Carlo De Benedetti, ad oggi detentore di uno spaventoso potere di influenza sull’opinione pubblica, attraverso settimanali o periodici come L’Espresso, MicroMega e Limes. È successo con Il Giornale, acquisito negli anni da un gruppo editoriale legato alla famiglia Berlusconi, che possiede anche il settimanale Panorama. Eppure, è importante non scadere nella retorica, nostalgicamente “assistenziale”, del “finanziamento pubblico” o del mero “ritorno al giornale di partito”. Si deve ricordare che anche un tempo i quotidiani godevano di ampi e consistenti “sostegni” da parte di molti nomi importanti del mondo dell’economia, sia pubblica sia privata, che avevano interessi (relativamente legittimi) a diffondere e dunque favorire, più o meno velatamente, la propria strategia attraverso inchieste e articoli di vario spessore. Non è dunque mai esistito un vero e proprio giornalismo completamente libero e indipendente, proprio perché nel momento in cui si stabilisce una “linea” editoriale, essa tende a sistematizzare la diffusione di notizie e analisi, in modo tale che la realtà dei fatti sia comunque la risultante di una sintesi operata a posteriori. La stessa scelta di dare risalto, o particolare “forza narrativa”, ad un preciso aspetto di un qualsiasi evento piuttosto che ad un altro, rientra in questa serie di dinamiche, oserei dire fisiologiche, tipiche di questo mestiere. Non c’è mai stato dunque un così netto ed evidente passaggio dal giornalismo dei partiti al giornalismo dei poteri forti, dal giornalismo “pubblico” a quello “privato”, dall’editoria “militante” a quella “economica”, proprio in relazione alla fondamentale matrice peculiare (tematica, culturale o ideologica) del quotidiano. Beninteso, non c’è nulla di male in questo carattere di “parte”, o addirittura “privato” dei quotidiani. Non stiamo certo parlando di settori strategici, della sicurezza, dell’assistenza sociale, di grandi aziende o di istituzioni giuridiche e costituzionali. È inutile girarci intorno: l’iniziativa privata all’interno del mondo dell’editoria è importante ed ha una sua funzione vitale, che consente di verificare l’effettivo valore qualitativo di un giornale, evitando sperpero di denaro pubblico per elefantiaci quotidiani molto spesso invenduti e oramai completamente sorpassati, ma soprattutto di non calcificare la “linea” editoriale in funzione di stantii interessi di bottega di vario genere. In fin dei conti, oggi, i gruppi di potere economici attivi nell’editoria hanno ampi riferimenti, più o meno indiretti, nei quadri dirigenti dei partiti, e la dialettica di scontro viene comunque traslata e proiettata all’interno dell’agone politico. Tuttavia, è impossibile non notare che – probabilmente complice il nuovo ruolo della finanza nell’era post-fordiana – gli interessi di questi gruppi nascono da esigenze sempre più particolari, quando non addirittura personali, esigenze che sempre meno coincidono con l’interesse pubblico e, più in generale, con le legittime aspirazioni del comune cittadino, il quale compra il giornale al mattino, ritenendo di poter recuperare nel suo “foglio” preferito una ricostruzione dei fatti quantomeno accettabile e tendenzialmente rispondente al vero, ma ritrovandosi, in realtà, molto spesso davanti a un insieme di opinioni frivole e puramente personali, considerazioni astratte, improvvisazioni descrittive e “iperboli” narrative al limite della manipolazione. È ormai impossibile prendere in mano un quotidiano senza notare questo degrado, questa tendenziale assenza di deontologia, soprattutto per quanto riguarda la cronaca, la politica interna e la politica internazionale, dove la spettacolarizzazione degli eventi ha raggiunto un primato mai visto prima, nella misura in cui lo scopo principale della carta stampata coincide quasi perfettamente con quello della televisione: impressionare il lettore, colpirlo, attirare la sua attenzione. Come? Per mezzo di una continua esasperazione senza alcun limite,
che si enuclea quotidianamente attraverso foto macabre, titoli scioccanti e notizie fuorvianti. L’unico requisito richiesto al giornalista sembra essere perciò l’abilità “cinematografica”, la capacità di stupire e non di analizzare, di sorprendere a tutti i costi anziché di ricostruire un avvenimento, fermo restando il pesantissimo potere di incidere in maniera spesso perfino determinante nell’alveo dell’opinione pubblica, attraverso scelte editoriali e criteri di pubblicazione dal potenziale pericolo di indottrinamento, nel caso di chi si lasci condizionare, o di sfasamento, tra coloro che ne abbandonino la lettura, non ritrovando più nel quotidiano un sostengo per la costruzione di una propria opinione chiara e univoca.