IL GOVERNO DELLE ÉLITE di G.P.

 

Ci voleva l’elezione del sindaco di Roma Uolter Veltroni alla carica di segretario del Partito Democratico, perchè gli uomini di centro-sinistra ricominciassero ad affidare alla retorica del “nuovismo” avanzante le sorti di un paese che, invece, sprofonda nel baratro politico-economico a causa dell’insipienza della sua classe dirigente. E’ così l’attuale imputridimento delle basi materiali e sociali dell’Italia è divenuto tutto un problema di rinnovamento: rinnovamento della politica, rinnovamento dei partiti, rinnovamento dello Stato e via discettando, con il frasario vacuo di questi pericolosi dilettanti politici che non finalizzano un bel nulla ma continuano ad ammorbarci l’aria con “sciccherie” inutili quanto la loro esistenza. Figuriamoci se uno come Veltroni, buonista nella sua facciata pubblica (quella della manifestazioni di affetto verso l’Africa, le serate cinefili e le notti bianche romane) ma molto meno in quella oscura degli interessi privati dai quali si fa sorreggere, possa incarnare il fantomatico cambiamento. Veltroni è figlio legittimo di quella classe politica piccìista che ha tentato l’assalto al cielo dopo la caduta del precedente sistema di potere democristiano, seppellito da un’operazione giudiziaria che ha avuto un regista “allogeno” (la longa manus d’oltreatlantico) e tanti comprimari autoctoni (gli ex-pci appunto, i quali nel cambio di situazione internazionale, con la fine della guerra fredda, hanno ottenuto lo sdoganamento e l’assunzione al ruolo di potenziali gestori della vita istituzionale del paese, da parte statunitense). E c’è da dire che solo un’astuzia della storia (incarnata nella figura di un personaggio un po’ ridicolo come Berlusconi) ha potuto impedire al progetto piccìista di giungere a compimento, almeno nella sua formula originaria. Rebus sic stantibus, le lacrime di Occhetto alla bolognina trovano una giustificazione solo ex-post, essendo passate, ben presto, dal falso cordoglio per la dipartita del più grande partito comunista d’occidente al pianto amaro per la mancata incoronazione elettorale del ’94.

Già questo basterebbe a screditare i falsi moralizzatori del nuovismo che invecchia solo a pronunciarlo, quelli che hanno accettato di commettere le peggiori nefandezze (chi meglio di D’Alema avrebbe potuto autorizzare una guerra infame contro la Yugoslavia, nel ’99, senza attirare su di sè le ire del pacifismo sinistroide e per di più, avvolgendo un atto criminale che non aveva giustificazione nel peggiore linguaggio imperiale? la c.d.“difesa integrata”) per il loro personale tornaconto.

Adesso che la politica italiana è completamente bloccata, incatenata agli interessi dei dominanti finanziario-industriali in guerra tra loro per spartirsi le risorse nazionali, l’uomo nuovo, guarda caso, nasce direttamente dal ventre dell’apparato politico che questo sfacelo ha contribuito a determinare ed aggravare. Scommettiamo che tra qualche mese Veltroni verrà fuori dicendo che lui, oltre a non essere mai stato comunista, non è nemmeno mai stato un diessino convinto, perché il suo cuore già batteva per il modello americano mentre la sua anima pia era in attesa di ascendere, prima di qualunque altra, al nascente PD che rinnoverà tutti quanti.

Forse qualcuno storcerà il naso per le nostre citazioni dagli editoriali di Geronimo, ma non venitemi a dire che questi non hanno nulla a che vedere con la realtà. Quella che segue e che riportiamo (condivisa dallo stesso Gianfranco La Grassa, il quale mi ha consigliato di riprendere l’articolo nelle sue parti più significative) è una delle epitomi più lucide di ciò che accade in Italia in questa fase: 

“Il termine «nuovo» dunque sembra essere solo una parola che nasconde però una tentazione antica quanto il mondo, e cioè il governo delle «élite». Quelle economico-finanziarie e quelle burocratiche, quelle sindacali e quelle confindustriali, quelle dei poteri costituiti (magistratura, forze di polizia etc.) e quelle dei grandi organi di informazione. Insomma quell’establishment che conta e che già nel ’94, dopo aver attivato tangentopoli, tentò la scalata al potere con la gioiosa macchina da guerra di Occhetto ma fu battuta dall’arrivo di Silvio Berlusconi. Quelle forze hanno impiegato 15 anni per giungere al punto di oggi e cioè all’approdo non solo di una democrazia leaderistica ma ad un modello in cui il leader è figlio ubbidiente di alcuni centri di potere e dove i gruppi dirigenti vengono spazzati via dal rapporto diretto tra il leader di turno e la «gente». Ma dove si discuterà di politica? In una assemblea numerosa, naturalmente, come quella della costituente democratica chiusa poi con alcuni «editti» organizzativi di Walter Veltroni, il nuovo traghettatore verso un sistema politico autoritario. E quando e dove si selezioneranno idee e energie se i luoghi della politica saranno sempre e solo le piazze e i palazzetti dello sport o altri contenitori simili? Non ci sarà più selezione ma solo cooptazione contrabbandata mediaticamente come il governo dei migliori. Più che il rapporto con il territorio e con i tanti segmenti organizzati della società civile, varranno le frequentazioni dei salotti buoni, delle banche d’affari o i crocevia dove si incontrano in un abbraccio mortale denaro, potere e informazione. Non ci sarà mai più qualcuno che si affaccerà dal balcone di Palazzo Venezia ma la velenosa cultura di Piazza Venezia assumerà altre forme più sofisticate ma altrettanto soffocanti. Neanche Silvio Berlusconi, pure accusato di aver introdotto il modello del partito personale (e nel ’94 non poteva essere altrimenti) è mai giunto a teorizzare la cancellazione degli iscritti e l’appello giornaliero al popolo. Questa deriva peronista che sta emergendo nel Partito democratico c’entra molto poco anche con la cultura politica degli Usa dove vige una «democrazia lobbista» che nel suo intreccio finisce paradossalmente per garantire nella società un equilibrio democratico(…) Di qui, dunque, il rischio democratico che quel «panel» di opinionisti e dirigenti politici già sconfitti dalla storia stanno di nuovo facendo correre all’intero Paese. Alla lunga saranno sconfitti ma produrranno altre macerie nel silenzio complice di una cultura stanca e spesso conformista”.