IL LAVORO NON E’ UN DIRITTO, E’ UNO STRESS

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Lavorare logora. Il lavoro non è un diritto ma uno stress, spesso mal retribuito e deprimente. Certo, dipende dall’attività svolta ma, come scriveva anche Carlo Marx, essere lavoratori produttivi è sempre una iattura. Anche Schopenhauer la pensava così e con lui tanti altri filosofi e intellettuali che facevano di tutto per sottrarvisi. Sicuramente, se la passano molto meglio i proprietari delle cedole o dei mezzi di produzione, gli amministratori delegati che ne dispongono attraverso manager, direttori, ingegneri, tecnici di alto livello ecc. ecc. fino ad arrivare all’operaio, strettamente esecutivo ed ignaro del processo complessivo, che generalmente se la prenda in quel posto da tutta la catena di comando. In verticale e, qualche volta, pure in orizzontale per l’inveterata abitudine delle direzioni aziendali di dividere le maestranze per ovvie ragioni di controllo sulla manodopera.

Così funzionano le relazioni produttive e riproduttive nel sistema capitalistico e non serve a niente affermare che il lavoro è un diritto, che nobilita l’uomo, che completa la personalità individuale, che rende felici ecc. ecc. perché anche senza questi edulcoramenti giuridici, filosofici o sociologici la realtà non muterebbe di un bullone; semmai il diritto e la giurisprudenza hanno proprio la funzione di coprire ideologicamente questi rapporti a dominanza che nessuna Costituzione formale avrà mai il potere di modificare. Difatti, pure i bambini sanno che la legge arriva sui fatti, sugli interessi e sulle consuetudini sociali come la nottola di Minerva a regolare rapporti di forza effettivamente operanti.

I lavoratori del braccio o anche quelli della mente non dispongono delle condizioni del loro lavoro mentre i capitalisti sì, qui sta il senso di un sistema che, tuttavia, non si esaurisce in tali rapporti nella sfera economica e chi conosce le teorie di Gianfranco La Grassa sa benissimo di cosa stiamo parlando. Quindi, del lavoro possiamo dire che è sì un diritto ma del capitalista, il quale quando lo compra, essendo quest’ultimo un fattore della produzione (anche se molto particolare) da combianarsi con gli altri, ha tutto il diritto di spremerlo per estrarne il pluslavoro nella forma di pulsvalore (ecco la sua particolarità), essendo lui il capitalista di un modo di produzione capitalistico (se fosse un diverso modo di produzione le cose andrebbero diversamente). Inoltre, occorre non dimenticare mai la differenza tra il lavoro come fonte del valore dei prodotti-merce e la forza lavoro  insita nella fisicità umana, venduta appunto come merce da chi è sprovvisto di ogni altra proprietà, in particolare di quella dei mezzi produttivi.

Poiché c’è ancora chi fa lo gnorri ritornando a Ricardo che non vedeva differenza tra lavoro e forza lavoro, noi ritorneremo a Marx, il quale grazie a siffatta distinzione riuscì a dimostrare l’origine del profitto capitalistico nel plusvalore, ottenuto “sfruttando” i lavoratori salariati pur se sul mercato, dove s’incontrano domanda e offerta di lavoro, si verifica uno scambio di equivalenti in media tra il salariato che offre la sua capacità lavorativa e il capitalista che l’acquista. Come scrive La Grassa, ad ogni modo, “non è affatto questa l’importanza di Marx nella storia del pensiero, duplicata, non a caso, dall’enorme influenza esercitata per oltre un secolo dalla sua teoria su un processo di rivolgimento sociale e politico. Il fulcro di questa teoria non è l’aver posto nel lavoro la fonte e la misura del valore dei prodotti, bensì il concetto di modo di produzione, in quanto appunto struttura dei rapporti che innerva la produzione sociale, struttura che ha conosciuto diverse forme storiche”.

Poi arriva Massimo Fini, filosofastro giornalaio de Il Fatto, che con una frasetta, “per Marx il lavoro è l’essenza del valore” (http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=43612), tenta di far coincidere marxismo e capitalismo che sarebbero due facce della stessa medaglia. Fini meriterebbe una medaglia in faccia per questa sua maniera barbara di mistificare i concetti, laddove Marx, con quella espressione, non vuole costruire “il mito del lavoro” o farne un valore in senso etico –  Fini, la cui malafede è evidente in questa proposizione “In epoca preindustriale il lavoro non è un valore”, dimostra così di voler con-fondere piano scientifico [il valore] e  pregiudizio moralistico [un valore] per fare i suoi porci comodi di intellettuale ingaggiato come finto oppositore della chiacchiera e della crapula da quello stesso circuito dominante che dice di combattere – come egli sostiene subdolamente, ma chiarire quale è la funzione del lavoro e della forza lavoro in una società specificamente capitalistica.

Costui, pertanto, intende buttare a mare un pensiero interamente scientifico, seppur oggi in larga parte superato, per far largo al suo racconto interamente demenziale che non verrà mai oltrepassato perché le scemenze sono sempre uguali nei secoli dei secoli e, al più, si affiancano nel tempo le une alle altre per formare un’unica catena di ridicole narrazioni pauperistiche e pezzenti buone per tutte le annate decadenti.  Tornando al nostro ragionamento sul lavoro come diritto del capitalista allo “sfruttamento” dobbiamo ribadire che questo non implica affatto che l’operaio debba subire in silenzio le condizioni imposte dallo Stato, dalla Fabbrica, dalla Banca ecc. ecc. sulla sua erogazione di energia fisica e mentale, infatti, possiamo dire che suo è il diritto di contrattare e di ottenere condizioni di esecuzione delle mansioni adeguate al grado di sviluppo economico e sociale dell’epoca e della civiltà in cui vive, sia sotto il profilo salariale sia sotto il profilo ambientale, ed in ogni ambito occupazionale.

Il suo, dunque, è un diritto alla negoziazione, alla resistenza, alla lotta sindacale o allo sciopero per una retribuzione più elevata e per condizioni di esecuzione della propria prestazione maggiormente favorevoli alla sua tenuta fisica e psicologica. Ma dire che il lavoro è un diritto tout court non significa assolutamente nulla, è uno slogan, è menzogna, è pura ideologia consolatoria smentita dalle cricostanze e dagli eventi. Su ciò avrebbe ragione la Ministra del Welfare Elsa Fornero, la quale, tuttavia, ha fatto questa sparata non con intenti demistificatori ma vessatori, volendo accampare il diritto di procedere ancor più speditamente con le sue norme contro i ceti deboli che lei, ed il governo del quale fa parte, stanno letteralmente martoriando in nome dell’Ue, dei mercati, della Grande Finanza, dell’Industria Decotta.

Massimo Fini, che è un necrofago intellettuale, si è lanciato come uno sciacallo sulla carcassa costituzionale del lavoro come diritto, già sbrandellata dalla Fornero, per riprendere i suoi sragionamenti passatisti contro la modernità ed il progresso: “In epoca preindustriale il lavoro non è un valore. Tanto che è nobile chi non lavora e artigiani e contadini lavorano per quanto gli basta. Il resto è vita. Non che artigiani e contadini non amassero il proprio mestiere …certamente lo amavano di più di un ragazzo dei call-center, di un impiegato, di un operaio che, a differenza del contadino e dell’artigiano, fanno un lavoro spersonalizzato e parcellizzato, ma non erano disposti a sacrificargli più di quanto è necessario al fabbisogno essenziale. Perché il vero valore, per quel mondo, era il Tempo. Il Tempo presente, da vivere ‘qui e ora’ e non con l’ansia della ‘partita doppia’ del mercante che disegna ipotetiche strategie sul futuro. Questa disposizione psicologica verso il lavoro era determinata dal fatto che in epoca preindustriale, come ho già avuto modo di scrivere, non esisteva la disoccupazione. Per la semplice ragione che ognuno, artigiano o contadino che fosse, viveva sul suo e del suo. E non doveva andare a pietire un’occupazione qualsiasi da quella bestia moderna chiamata imprenditore”.

Vorrei vedere queste statistiche preindustraili sull’occupazione di cui Fini dispone e che gli fanno dire che all’epoca non ci fosse disoccupazione. Tralasciamo anche le dichiarazioni spiritistiche di questo filosofo, un po’ psicologo un po’ “metempsicotico”, il quale sa per certo che i contadini amavano il loro lavoro più di un ragazzo dei call center, ma come può costui asserire che in quei tempi remoti non ci fosse nulla da pietire essendo la vita stessa dei dominati di proprietà dei Signori? Come può parlare della nostra schiavitù salariale derubricando a pinzellacchera la schiavitù delle catene vere e proprie dei servi della gleba? Si metta l’anima in pace il sig. Fini. Il capitalismo costituisce un progresso rispetto al sistema feudale, così come quello feudale costituiva un avanzamento rispetto al sistema schiavistico.

Indietro non si torna e non si tornerà, non almeno per dare seguito alle sue facili romanticherie di intellettuale con teoresi demodè ma à la page e alla paga (copyright di La Grassa). Di spiritosi come lui sono piene le fasi storiche, ogni tempo ha avuto i suoi cenciosi mendicanti di successo che predicavano le fughe nel passato per darsi le arie e le aure da grandi profeti e mettere qualcosa di “valore” nella bisaccia, brutta fuori e piena d’oro dentro.  Tanto per gradire e a sostegno di quanto già riportato, estrapolo da un Saggio di La Grassa della fine degli anni ’60, “Sul capitale monopolistico e sulle cosiddette ‘riforme di struttura’” una parte attinente al tema: “…l’ottica è sempre la stessa; è l’ottica di coloro che parlano di progresso sociale con lo sguardo rivolto a forme sociali storicamente superate. Il populismo russo intendeva lottare contro il capitalismo, che si andava sviluppando in Russia recuperando certe forme economico-sociali tipiche della società feudale. Nella risposta di Lenin erano contenute due essenziali affermazioni: a) innanzitutto, il modo di produzione capitalistico era ormai dominante e andava ‘plasmando’ tutte le altre forme economico-sociali ereditate dalla società precedente; il tentativo di opporsi a queste trasformazioni era del tutto donchisciottesco e non poteva sortire effetto alcuno, salvo quello di procurare qualche intralcio allo sviluppo capitalistico; b) in secondo luogo il capitalismo rappresentava un progresso rispetto ai modi di produzione precedenti e il suo rapporto era quindi positivo in relazione alle forme economico-sociali superate. La rivoluzione doveva procedere oltre il capitalismo, ma non tentare di ripristinare (cosa del resto oggettivamente impossibile) alcune forme della struttura sociale in via di superamento”.

Insomma, siamo alle solite, c’è sempre qualche populista che finge di russare dinanzi alla realtà mentre aspetta che siano  gli altri ad addormentarsi per davvero. Calato il buio sull’intelletto collettivo questi rapinatori d’avvenire si mettono in coda agli sportelli del sistema per incassare il proprio dividendo. Il mondo sprofonda nel sonno della ragione e costoro s’illuminano d’argenteria.