Il Limes della ragione

Italia-USA-Bandiera

 

Limes, la principale rivista nazionale di geopolitica, dedica un intero numero all’Italia (e alla sua strategia). Il suo direttore responsabile verga un editoriale in cui afferma che il mensile “è nato italiano e tale ambirebbe a restare”. Leggendo però gli articoli importanti ci sembra, potremmo equivocare, che tale proposito assomigli fin troppo ad una finzione letteraria per intimamente sorreggere una opzione contraria, un sotterfugio lessicologico per esorcizzare i disorientamenti dettati dai mutamenti del corso epocale. Samuel Johnson parlava di ultimo rifugio delle “canaglie”, quale tana dalla quale enfatizzare una posizione e affermare un intendimento persino opposto. Non diciamo che il richiamo all’italianità, in questo frangente, avviene per un simile motivo ma i sospetti ci sono. Lasciano l’amaro in bocca le elucubrazioni di quelle che dovrebbero essere le nostre migliori menti del settore. Esse, rimaste ingabbiate per anni in un milieu di “convenienza” occidentale, ora iniziano ad agonizzare di (iper)realismo, coprendo con l’erudizione concetti in fossilizzazione. Non per niente, crepano i velleitari ma anche i sedentari. Le argomentazioni di Limes paiono infatti provenire da una foresta pietrificata eppure l’incipit di Caracciolo è corretto: “gli Stati che poggiano su ricche riserve di potenza possono concedersi qualche vacanza strategica; chi non ne ha, e lotta anzi per la sopravvivenza, deve compensare in parte tanto deficit con il ragionamento strategico”.
In sostanza però siamo invitati a restare italiani facendo gli americani e morendo per quest’ultimi. Tralascio quelli che per noi sono i convincimenti veramente errati della rivista, due su tutti: 1)la Cina unico vero sfidante degli Usa, 2)la Russia che è in “disperata attesa che qualcuno a Washington si ricordi di offrirle un posto onorevole a bordo della fotta anticinese”. Però c’è qualcosa da disapprovare seriamente che non rientra nel novero delle considerazioni ma in quello delle sconsideratezze di natura ideologica. Caracciolo scrive: “Una relazione matura con Washington parte dal definire che cosa offriamo e dall’esplicitare che cosa vogliamo. Senza giri di frase. Anche per salire di categoria nella percezione differenziata che gli apparati americani hanno dei soci atlantici. Quanto al dare: a) siamo piattaforma logistica impareggiabile nell’area statutaria della Nato, ospitando basi, assetti di intelligence e armi nucleari americane, su cui di fatto non esercitiamo controllo; b) esibiamo nell’Eurozona profilo opposto a quello della Germania, sorvegliato speciale degli Stati Uniti nel continente, e con ciò contribuiamo a mantenere precario l’equilibrio fra i partner europei della Nato, come d’interesse americano; c) curiamo di tenere le nostre importanti relazioni con Russia e Cina al di sotto del livello strategico, perché non ci sogniamo di cambiare d’impero. Sul fronte dell’avere il catalogo è questo: a) gli Stati Uniti non possono pretendere l’impiego dei militari italiani in missioni di destabilizzazione delle nostre aree di frontiera, di cui paghiamo le conseguenze sul territorio nazionale – adesione all’altrui impero non significa autodistruzione; b) Washington deve accentuare la pressione sulla Germania per allentarne le rigidità monetarie e fiscali, che ci depauperano e destabilizzano, rischiando di far saltare l’euro, con effetti incalcolabili dunque da non sperimentare; c) dagli americani ci attendiamo che rinuncino a sabotare la nostra adesione ai dossier economico-commerciali della via della seta – una volta accettato di prenegoziare con loro le linee rosse cui attenerci in materia – e a minare la per noi insostituibile interdipendenza energetica con la Russia, posto il nostro rifiuto di partecipare alla destabilizzazione del colosso eurasiatico”.
Diamo praticamente tutto e otteniamo davvero poco. Quindi non si tratta di do ut des ma di sottrarci a forme di sudditanza che ci lasciano, in ogni caso, senza scampo. Non chiediamo e non cediamo se non quello che ci guadagneremo o che perderemo agendo sul campo dell’imminente multipolariasmo. Così si dovrebbe pensare. Le lettere a,b, e c del nostro “dare” sono uno sbracare per cui solo ottenendo un altro pianeta conteremmo qualcosa, da qualche parte ma non su questa terra. In siffatta maniera non si costruisce nessuna strategia ma si accetta supinamente un esistente già troppo devastante per questo povero Paese. Potrebbe andare anche peggio se ci mettessimo di traverso? Accadrà ugualmente quando i grandi arriveranno ai ferri corti sul serio nel passaggio dal multipolarismo al policentrismo.
Sulla stessa linea del Direttore si pone anche l’analista Fabbri, il quale scrive: “In questa fase Roma deve utilizzare l’ostilità americana contro Berlino per obbligare la Repubblica Federale a redistribuire ricchezza all’interno dell’Eurozona oppure accettarne la definitiva implosione. Intensificando gli strali contro l’austerità teutonica, contro la nordica ritrosia a garantire per il debito comunitario. Schierandosi contro un approfondimento dei rapporti tra Berlino e Mosca, contro (l’improbabile) possibilità di Forze armate europee. Tollerando le sanzioni americane – comprese quelle contro il settore automobilistico – che inevitabilmente colpiranno anche la nostra manifattura, sebbene puntino soprattutto a insidiare le certezze produttive tedesche. Il governo italiano deve cogliere il momento per imporre scelte dolorose all’industria del Centro-Nord, per collocazione legata al benessere della Germania, costringendola a rivedere il suo modello produttivo. Per scongiurare che diventi vittima dell’offensiva statunitense, per slacciarla da una moneta di flosofa esogena. Spiegando quanto poco ci sia da perdere. Giacché, in assenza di massicci correttivi, nel medio periodo l’Italia non può esistere nell’attuale Eurozona… L’Italia deve continuare ad intrattenere buoni uffici con il Cremlino, anche per comunicare agli americani di possedere alternative. Senza tirare il bluff per le lunghe. Mostrandosi russofila nelle dichiarazioni e russofoba nei fatti. Cercando di limitare lo spettro dei provvedimenti statunitensi contro l’ex nemico della guerra fredda, che danneggiano anche noi. Contribuendo alla realizzazione del Tap, per segnalare fedeltà al patron d’Oltreoceano e diversificare le fonti di approvvigionamento… Più complessa la manovra da dedicare alla Cina. Qui dovremmo dimostrare di saper lucidamente distinguere il piano economico da quello strategico. Continuare ad aprirci agli investimenti cinesi – dalle infrastrutture al settore bancario, fino alla tecnologia – senza sposare l’aspetto geopolitico delle nuove vie della seta. Roma dovrebbe siglare il memorandum sulla Bri soltanto per utilizzarne il potenziale industriale e dopo aver ottenuto il placet degli americani. Come già capitato a Grecia, Ungheria e Portogallo. Quindi, in senso profondamente antieconomico, dovremmo rinunciare al 5G di sviluppo cinese se questo incide negativamente sulla sicurezza nazionale, se determina il nostro scivolare nello spazio di Pechino. Non solo per palesi ragioni di natura storico-culturale. Anche per scongiurare la violenta reazione statunitense. Potenzialmente in grado di dilaniare l’Italia dall’interno. Si può abbandonare l’impero americano soltanto per consunzione dello stesso o per nostra capacità di sovvertirlo con le armi. Scenari al momento altamente improbabili. Tanto vale ricordare che esistono linee rosse invalicabili che possiamo sforare per interesse – casomai fingendo di non riconoscerle – ma non trascendere. Per scongiurare pericolose rappresaglie. Per evitare che, in caso di tradimento o slittamento di campo, gli Stati Uniti colpiscano al cuore il nostro sistema finanziario, la fibra stessa della nostra società. Non solo. Anche per stabilire come profittare dell’attuale congiuntura. Perché è assai raro che la superpotenza globale ci ponga al centro della sua tattica, con tanto di vincoli a mostrarci la lecita estensione del nostro incedere, a indicarci forzosamente la strada. Qualora ce ne accorgessimo, anziché immaginarci sovrani per poi pagare cara tanta avventatezza, potremmo adattare la politica estera ai limiti esistenti, cercando di torcerli a nostro favore. Nell’ambito di un’azione a metà tra il vietato e il possibile. Con cui finalmente adottare un atteggiamento anti-economico, provare a innescare una radicale riforma dell’Eurozona, imporre l’interesse nazionale alle regioni più ricche della penisola, gestire una sponda energetica senza esserne travolti, beneficiare della grandezza commerciale altrui fornendo in cambio soltanto la nostra ospitalità. Fino a tramutarla in occasione sostanziale. Per inserirci nelle principali contese del pianeta, per diventare adulti. A un passo dal baratro”.
Nelle parole di Fabbri non vediamo operare alcuna effettiva strategia ma semmai una versione aggiornata e corretta della subordinazione che ci ha resi, nella presente fase e già provenendo da un truce passato di occupazione, sempre più marginali e inutili agli occhi del mondo. Vorremmo invece rilanciare quanto scritto nell’ultimo numero di Eurasia, perché si tratta proprio di lavorare strategicamente a costruire una prospettiva di tutt’altro tipo. L’ingresso del mondo nel multipolarismo annuncia una ristrutturazione dei rapporti di forza tra potenze, con il declino “relativo” degli USA e della loro capacità ordinatrice globale. Un asse Russia-Germania-Italia è forse, in questo frangente epocale, lontano dalla realtà, ma è quello di più immediata intuizione quando si pensa alla costruzione di un contropotere nell’Europa subordinata a Washington. Siamo, lo sappiamo, ad un livello molto ipotetico; questa elucubrazione si scontra con i parametri della situazione storica effettiva, perché Berlino e Roma sono forse i centri in cui gli yankee hanno dislocato tutto il potenziale della loro aggressività militare e d’intelligence, a protezione dei loro interessi nell’area. Ma proprio per questa condizione di svantaggio tale triangolazione diventa ancora più necessaria per avviare le “bonifiche” dell’avvenire. Caracciolo sostiene che i cambiamenti si fanno “dentro e non contro la storia”, ed è corretto, tuttavia, ci sono momenti eccezionali in cui per essere dentro la Storia bisogna saper andare anche contro di essa o avverso le sue apparenze deterministiche.