IL MITO DELLA NATURA
Senza conflitto non vi è proprio vita e per vivere si deve mangiare altra vita. Quest’ultima affermazione è più letterale per le altre specie animali, ma comunque è valida, pur in senso figurato, per la nostra specie. Si è partiti quasi alla pari degli altri animali e chi vinceva arrivava a mangiare chi perdeva; non per malvagità, crudeltà e similari, sentimenti che albergano solo quando si sviluppa un pensiero capace di evoluzione staccandosi dalle originarie e immutabili condizioni di vita degli animali in genere. La produzione dei primi animali umani era bassa; ed erano in difficoltà nel combattere e competere con altri animali più grossi e robusti. C’è voluta la prima lancia scagliabile e con sufficiente stabilità di direzione per alterare tale situazione; quindi gli esseri umani (o quasi) combattevano fra loro e …. si mangiavano.
La Grassa (da un inedito)
Il mito della natura benigna: ideologie da smascherare
Enrico Bucci 26 lug 2021 (il Foglio)
Giacomo Leopardi nel suo “Dialogo della natura e di un Islandese”, si rivolge così alla personificazione della Natura: “tu sei nemica scoperta degli uomini e degli altri animali, e di tutte le opere tue, ora c’insidi, ora ci minacci, ora ci assali, ora ci pungi, ora ci percuoti, ora ci laceri, e sempre o ci offendi, o ci perseguiti”. La Natura per il recanatese era matrigna; e del resto, negli stessi anni, Charles Darwin scopriva la “natura, rossa di zanne e di artigli”, che si evolve per selezione basata sullo sterminio dei meno adatti o dei più sfortunati. Entrambi si opponevano ad un antichissimo e diffuso pregiudizio che influenza ormai in maniera palese molte delle nostre scelte, sia come individui che come società. Parlo dell’idea che esista una Natura fondamentalmente benigna, in equilibrio e armonia, riavvicinandoci alla quale sia possibile recuperare salute, benessere e felicità perduti – spesso insieme a giustizia, bene e moralità.
Ora, un pregiudizio può risultare vero, e guidarci correttamente nelle nostre scelte; oppure può essere falso o comunque solo parzialmente vero, portandoci ad errori più o meno gravi a seconda di quanto profondamente esso deforma la nostra visione della realtà e di ciò che ci accade.
Per intenderci: se dovesse risultare vero che esiste uno stato naturale armonioso e stabile, e che la perturbazione di questo stato è fonte di danno per le società, per gli individui e per la nostra intera specie, allora ogni politica che cerchi di individuare quello stato come un obiettivo cui tendere dovrebbe essere accolta con favore. Se, al contrario, questo stato naturale fosse un’illusione, una chimera inventata, ma non rispondente alla realtà, allora il tendere ad esso potrebbe non solo e non tanto procurare sacrifici inutili, ma addirittura danneggiarci rendendoci impotenti perché accecati da panzane, di fronte alla innegabile crisi ambientale e sociale che 7 miliardi di individui, ancora in crescita, causano al nostro pianeta.
Ancora, se dovesse risultare vero che, riavvicinandoci a questo stato di natura, sarebbe possibile recuperare salute individuale e sociale, allora certamente dovremmo ridiscutere molta parte del nostro approccio sanitario, indirizzandolo verso pratiche e mezzi molto diversi da quelli che usiamo oggi; se invece questo salubre stato di natura non esistesse, allora tendere ad esso ci farebbe cadere vittima di maggiori malattie e sofferenze fisiche, che magari, obnubilati dall’ideologia, potremmo addirittura non vedere per un certo tempo o in una certa percentuale di individui.
Se lo stato di natura esistesse e fosse davvero in qualche modo “più giusto”, tanto per gli individui quanto per i rapporti sociali che gli individui intessono fra loro, allora ripristinarlo il più possibile diventerebbe anche una questione morale, e gli industriali, gli imprenditori, ma anche gli scienziati ed i fautori della tecnologia che ci spingessero verso direzioni diverse lo starebbero facendo sulla base di un’etica condannabile (per esempio quella del profitto), a proprio vantaggio e a scapito di tutti; al contrario, potrebbe verificarsi che non vi sia nulla di moralmente superiore o più etico nella riorganizzazione della società e della vita umana in base ad un ipotetico stato di natura, il quale potrebbe essere invece un totem quasi religioso utilizzato per creare una sorta di stato etico e per condannare e bloccare il progresso scientifico e tecnologico, ma anche la libertà di impresa, riportandoci in un mondo bigotto oscurato da un credo retrivo.
Vale dunque la pena di fermarci ad esaminare da vicino l’idea che abbiamo di Natura e di stato naturale, per guardare almeno nei casi illustrati se esista una possibilità di decidere in maniera razionale dove si trovi quel tanto di vero, che basti ad essere sicuri di non commettere errori troppo grossolani.
A questa indagine non possiamo sottrarci: siamo infatti perfettamente capaci di distruggere il nostro pianeta, sia a causa del nostro enorme consumo di risorse, che a causa del potenziale di devastazione insito nelle tecnologie sempre più potenti che abbiamo sviluppato e che usiamo. Da ciò, deriva una importantissima responsabilità: il contrasto al cambiamento climatico, l’utilizzo di tecnologie meno energivore, la rivoluzione verde che tutti auspichiamo, passano sia attraverso il riconoscimento dei dati scientifici che dimostrano l’insostenibilità del nostro modo attuale di agire (oltretutto modello e fonte di ispirazione per tutti quegli esseri umani che ancora non vi hanno accesso), sia però anche attraverso il ripudio di accecanti miti verdi ed idee sbagliate, che portano al perseguimento di strade inefficaci, erronee e aggravanti i problemi che si vorrebbero risolvere.
Dunque poniamoci alcune domande, e cerchiamo di capire se esistano delle risposte ragionevoli, in modo che la difesa dell’ambiente e la ricerca di soluzioni sostenibili possano essere depurate da obnubilanti scorie ideologiche e da interessi di un mercato che si nutre di falsi miti.
Esiste la Natura?
Oppure trattasi di costrutto culturale e sociale, precondizionato dall’antropocentrismo che ci porta a separare la nostra posizione da quella del resto dell’universo, demarcando nettamente “noi” da tutto il resto del vivente e del modo fisico? Prima di rispondere, vorrei fare una precisazione: è vero che, come dicono i sociologi, il concetto di Natura, come molti altri, è filtrato dalle nostre capacità percettive, le quali a loro volta sono influenzate fortemente dagli occhiali della nostra specifica cultura. In questo senso, uno Yanomani non avrà la stessa idea di Natura e di stato naturale di un abitante di New York, e probabilmente percepirà una separazione meno netta fra mondo degli spiriti, ambiente in cui vive ed esseri umani.
Tuttavia, qui non interessa tanto esaminare in che modo la nostra cultura trasforma e modella la nostra idea di natura e di naturale, quanto i vantaggi e gli svantaggi di una classificazione che, nell’introdurre l’idea stessa di natura, con le sue varie declinazioni di ambiente naturale, fenomeni naturali eccetera, intende distinguere ciò che è dovuto all’azione dell’uomo da ciò che è invece ne è del tutto indipendente, stabilendo poi una gradazione di “naturalità” per le porzioni di mondo a cui rivolgiamo la nostra attenzione sulla base dell’intensità dell’azione umana su di esse.
Da un punto di vista ontologico, non è ovviamente possibile considerare “innaturale” l’uomo ed il suo operare, visto che sia il primo che il secondo non sono altro che le conseguenze della selezione darwiniana di un primate tecnologico, e considerando il processo darwiniano di evoluzione tecnologica e culturale semplicemente come un aspetto dell’evoluzione naturale di un particolare fenotipo esteso. In parole più semplici: l’uomo, la sua tecnologia e la sua cultura, e dunque le trasformazioni ambientali che ne derivano, sono un semplice prodotto della selezione naturale di un cervello e della cultura e della tecnologia che questo è in grado di generare; ogni separazione dalla natura è artificiosa.
Macchine, ciminiere, ospedali, inquinamento antropogenico, opere d’arte ed ogni altra nostra creazione non sono cioè altro che un particolare aspetto del modo di essere di una specie, ovvero del suo fenotipo esteso, tanto quanto le dighe dei castori, le barriere coralline erette dai polipi, gli svariati chilometri quadrati che certi funghi riescono a coprire con i loro miceli, le torri di legno di centinaia di metri di altezza edificate dalle sequoie, le zone morte ed anossiche causate da fioriture algali intense ed improvvise, le enormi quantità di composti volatili rilasciati dagli alberi e dalle piante, che a scala globale eccedono largamente quelli di origine antropogenica e possono accrescere la formazione di ozono ed aerosol atmosferici, e così via.
Tuttavia, da un punto di vista operativo può essere utile distinguere ciò che è prodotto dell’attività umana da ciò che non lo è, non perché il primo non sia naturale, ma perché la nostra specie è in una fase di fortissima espansione. Mentre al momento non stiamo cioè vivendo un’esplosione per esempio di vita vegetale – come pure nella storia della vita è successo, causando l’emissione di un gas all’epoca particolarmente velenoso, l’ossigeno, e la contemporanea estinzione di moltissime forme di vita –stiamo invece nel pieno di una improvvisa e fortissima espansione numerica della nostra specie e delle sue attività sul pianeta; siamo cioè diventati un agente globale di selezione naturale per l’intero bioma.
Non esiste la pace della natura. Non esiste una Natura di cui l’uomo non fa parte, e non esiste un armonico equilibrio naturale cui ispirarsi per la nostra sopravvivenza. Lezioni dalle varianti (e dalla scienza)
Poiché la nostra recentissima ed incontrollata espansione può contenere il seme della catastrofe in grado di estinguerci o comunque di portarci in condizioni di sopravvivenza molto peggiori delle attuali, che sia attraverso il cambiamento climatico, l’inquinamento, una guerra nucleare improvvisa, la diffusione di epidemie di intensità crescente o semplicemente il consumo di risorse indispensabili come suolo, acqua, atmosfera, diventa nostro primario interesse distinguere da tutto il resto gli effetti a catena, anche imprevisti, della nostra esistenza ed attività su questo pianeta. Il problema non è che il frutto delle nostre attività sia innaturale e dunque sbagliato, perché anche l’estinzione di una o moltissime specie in eventi di grande portata sono fatti del tutto naturali, e le categorie di giusto o sbagliato non si applicano ai fenomeni fisici; il problema è ciò che è giusto o sbagliato fare per sopravvivere in maniera decente su questo pianeta, e se sia necessario preservare il più possibile altre specie oltre alla nostra e a quelle domesticate. Per saperlo, dobbiamo essere in grado di distinguere gli effetti ambientali di origine antropica; dunque introduciamo sì una divisione speciale del nostro agire e del nostro creato da tutto il resto, ma a fini puramente operativi, e non in funzione di una distinzione tra naturale e innaturale.
La Natura, dunque, esiste ed è un concetto utile fintanto che sia impiegato per le ragioni elencate; ma, visto il significato culturale e sociale che a questo termine attribuiamo, come ben evidenziato dai sociologi e dagli studi culturali, forse sarebbe meglio limitarsi a parlare di ambiente più o meno antropizzato, di azioni ed effetti più o meno antropogeni, di cambiamenti indotti dall’uomo, e lasciar perdere il concetto di ambiente naturale, stato di natura o naturalità di certi fenomeni osservati. Tutto è naturale, ma non tutto è antropico; partiamo da questo, e allontaniamoci da distinzioni fallaci tra naturale e innaturale.
L’equilibrio naturale esiste?
Abbiamo sin qui stabilito che la contrapposizione tra umano e naturale è fallace perché ingiustificata, e che il concetto di Natura, oltre che essere influenzato molto fortemente dalla cultura in cui è formulato, non è diverso da un onnicomprensivo concetto di “mondo fisico”, di cui fa parte anche il mondo umano, il quale non può essere ad esso contrapposto come “artificiale”.
A questo punto, possiamo affrontare un’ulteriore idea molto diffusa, quello che esista un “equilibrio naturale”, che dagli osservatori un po’ più sofisticati è riferito come “equilibrio ecologico”, con cui l’uomo interferirebbe, mettendo a rischio sé stesso e la sopravvivenza del bioma. Se ci pensiamo bene, questa visione si nutre di un mito antico: quello del mondo primigenio, in cui tutte le specie (guarda caso create ad arte) interagiscono fra loro in una maniera prestabilita e stabile, generando una “armonia mundi” simile a quella del Paradiso Terrestre o dei mondi originali perduti tipici di molte mitologie e molte religioni.
L’uomo, in questa visione, è Adamo che commette il peccato originale, guastando con il suo agire questa preesistente armonia ecologica, con esiti prevedibilmente nefasti per sé, ma anche per il pianeta in cui vive.
Il fatto che si parli di equilibrio ecologico o naturale, invece che di Paradiso Terrestre, non deve trarre in inganno: in entrambi i casi si tratta infatti di una invenzione di un passato mitico e migliore del presente, da rimpiangere e a cui cercare di riavvicinarsi il più possibile, un mito rivestito in tempi moderni di termini ricavati dalle scienze ecologiche.
Un equilibrio, per sua stessa definizione, è statico: se esistesse davvero una forma di equilibrio ecologico quale quella che ingenuamente molti immaginano, non vi sarebbe mai stata evoluzione biologica, e le specie “all’equilibrio” un miliardo di anni fa sarebbero ancora oggi le uniche presenti. Invece, ben prima della comparsa dell’uomo, una quantità smisurata di organismi viventi – si stima il 99 per cento di essi – si sono estinti, a causa del cambiamento delle condizioni in cui si trovavano a vivere, ivi inclusa la comparsa di nuove specie più abili a competere per le stesse, limitate risorse; nulla di più lontano, quindi, dall’idea di un idilliaco ed armonioso, quanto statico, equilibrio naturale.
Va bene, potrebbero ammettere alcuni; tuttavia, anche immaginando che non vi sia equilibrio e che invece il bioma si trasformi continuamente a causa del meccanismo dell’evoluzione darwiniana, è pur vero che i cambiamenti sulla scala temporale dell’evoluzione sono molto lenti, per cui possiamo approssimare la situazione come il passaggio per noi impercettibile da uno stato di quasi-equilibrio al successivo. Processo, questo, interrotto e deformato dal crescente peso delle attività antropiche, che introducono fattori di stress su ogni dinamica ecologica.
Sebbene abbia qualche merito, questa obiezione non tiene conto delle acquisizioni più recenti della biologia evoluzionistica, ed è legata irrimediabilmente al gradualismo, cioè all’idea che tutto muti molto lentamente fra i viventi, per cui l’accelerata impressa dalla comparsa dell’uomo costituirebbe di per sé un fatto nuovo e pericoloso. In realtà, da Gould in poi è evidente che l’evoluzione biologica, e dunque il passaggio da un ecosistema al successivo, non avviene a velocità costante (e lenta): per motivi diversissimi, e su scale diverse dal punto di vista degli ecosistemi coinvolti, vi possono essere rapide estinzioni di massa e altrettanto rapide evoluzioni di nuove forme in grado di riempire le nicchie ecologiche vecchie e nuove lasciate vuote. La grande fioritura di nuove forme animali nel Cambriano avvenne a spese di moltissime forme precedenti, tra cui probabilmente la fauna cosiddetta di Ediacara; e, molto prima, il già citato grande evento di ossidazione dovuto all’emergere della fotosintesi delle alghe aprì sì la strada a nuove forme animali e vegetali a metabolismo più veloce e a complessità crescente, ma a spese di una crisi del bioma precedente, basato su organismi anaerobi per cui l’ossigeno rilasciato in atmosfera costituiva un potente veleno.
La verità è che l’evoluzione biologica e quella degli ecosistemi del nostro pianeta sono state caratterizzate da numerose crisi, le quali hanno spianato la strada a successive fioriture, e queste crisi sono avvenute anche in spazi temporali di pochi secoli (a scala geografica non globale anche nello spazio di pochi decenni); il mondo in equilibrio ecologico armonioso e tranquillo che molti immaginano è semplicemente un parto consolatorio della loro fantasia.
Anche da un punto di vista tecnico, nessun ecosistema è in equilibrio, perché nessun ecosistema è un sistema chiuso; piuttosto, per limitati periodi di tempo si osserva uno stato stazionario, in cui il tasso di consumo di qualche risorsa esterna avviene più o meno a velocità costante e permette più o meno di mantenere le caratteristiche dell’ecosistema in termini di composizione di specie e di numero di individui, fino all’arrivo della catastrofe successiva, che può trovare origine in un cambiamento della disponibilità delle risorse, in un mutamento ambientale o nell’arrivo di nuove specie invasive. Dunque, l’equilibrio naturale tecnicamente non esiste; l’appello a tale equilibrio e all’armonia ad esso artatamente connessa è fallace e non riflette la realtà. Pur tuttavia, esso è un potente richiamo in tempi di mutamento sociale ed ecologico repentino, perché incarna il mito (conservatore) della tranquillità e del funzionamento regolare del mondo; e dunque questo mito viene utilizzato di volta in volta scegliendo uno stato di equilibrio ecologico inventato a cui si dovrebbe tendere, che sia quello della natura selvaggia (nel caso degli ambientalisti più intransigenti), di un immaginario paesaggio agricolo preindustriale (nel caso di movimenti quali Slow Food o di altri promotori dell’agricoltura biologica), della convivenza con il virus SARS-CoV-2 attraverso un suo inevitabile adattamento benigno e così via declinando, in modo che ciascuno sceglie lo stato di presunto equilibrio da ripristinare più confacente ai propri interessi e alla propria ideologia.
Gli ecosistemi ed il bioma non sono in equilibrio, ma in continua, dinamica competizione, con estinzioni e nuove fioriture, senza che la sopravvivenza di nessuna specie sia garantita (piuttosto il contrario); non sappiamo se, alla fine, non vi sarà un’estinzione completa della vita sulla terra, vita che potrebbe essere un fenomeno effimero, o se invece i meccanismi darwiniani ed il fenotipo esteso riusciranno a prevalere su qualunque tipo di condizione avversa, fino ad immaginare la migrazione interplanetaria quando il nostro Sole si spegnerà; per cui smettiamola con il conveniente mito falso dell’equilibrio ecologico, utile per lo più a vendere prodotti ed ideologie.
Del resto, eliminare questo mito non porta affatto ad un gran danno dal punto di vista della politica ambientale, tutt’altro: proprio perché l’ecosistema non è in equilibrio, ma in uno stato temporaneamente stazionario o molto spesso nemmeno in quello, le azioni di una specie globale quale la nostra hanno un enorme ed imprevedibile riverbero sulla nostra stessa possibilità di sopravvivenza. Più agiamo in modi che spingono gli ecosistemi in cui viviamo verso traiettorie imprevedibili, maggiore è il rischio per la nostra specie; più cerchiamo di tamponare e di alleviare il peso sulle risorse disponibili rappresentato da miliardi di esseri umani, maggiore è la diminuzione di fattori che potrebbero portarci all’estinzione attraverso dinamiche caotiche e non prevedibili a priori.
L’equilibrio ecologico non esiste, quindi; ma, lungi dal costituire un argomento contro lo sforzo di preservazione ambientale, proprio questo fatto implica che l’effetto del nostro agire incontrollato può portarci ad esiti catastrofici, non solo per altre specie, ma anche per noi. La cosa interessante è che l’agire incontrollato di cui parlo comprende anche seguire il marketing commerciale e politico di questo o quello stato di equilibrio immaginario, che si tratti di agricoltura biologica, di consumo zero o di altre fandonie ideologiche: se ci facciamo trascinare al ripristino di equilibri immaginari, in realtà non agiremo per diminuire le probabilità di estinzione per la nostra specie, né vi sarà particolare beneficio per le dinamiche ecosistemiche globali (almeno fin quando non saremo numericamente ridimensionati in conseguenza di scelte erronee dettate proprio dal seguire delle ideologie sbagliate).
La Natura è salubre?
Se si segue fin in fondo l’idea che esista un armonioso equilibrio naturale, e che parte di questo equilibrio sia anche la presenza della nostra specie, se ne può derivare l’idea che un’immaginaria Natura promuova la nostra salute, e che invece le invenzioni dell’intelletto umano – reiterando la fallacia della separazione tra umano e naturale – siano tutto sommato degli artifici nel migliore dei casi inutili, ma spesso dannosi perché sviluppati in un tempo brevissimo, a fronte dei lunghissimi tempi di “ottimizzazione” dello stato di natura.
Che le premesse di questa idea siano sbagliate, dovrebbe essere chiaro da quanto sin qui discusso; non esiste una Natura di cui l’uomo non fa parte, e non esiste un armonico equilibrio naturale cui ispirarsi per la nostra sopravvivenza. Tuttavia, vorrei qui mostrare come anche le conseguenze di questa idea siano profondamente sbagliate, sia perché non corrispondono affatto alla realtà, sia perché ci spingono a comportamenti che si potrebbero definire autolesionistici. Innanzitutto, l’ambiente in cui ci si trova a vivere, quando non sia stato opportunamente modificato, non è salubre affatto. Non elencherò qui i dati fin troppo ripetuti sulla vita media quando la nostra efficacia nel modificare gli ambienti in cui viviamo è più limitata (nei tempi passati o nelle nazioni più svantaggiate); né elencherò l’infinito numero di parassiti, veleni e altri mezzi che le altre specie hanno per minare la nostra salute ed ucciderci. Mi limiterò a richiamare un concetto semplicissimo, che è quello secondo il quale le altre specie non esistono affinché noi possiamo essere in buona salute, ma competono per le nostre stesse risorse su questo pianeta, cercando di vincere la gara con noi; risorse che includono i costituenti del nostro stesso corpo, che fin troppi animali, funghi, batteri e virus mirano a utilizzare a proprio vantaggio, in un processo per cui più diventiamo gregge abbondante di potenziali prede e ospiti per parassiti, più emergeranno altri organismi in grado di sfruttare una così conveniente forma di materia organica pronta al riutilizzo.
Non solo; ma per quanto riguarda organismi che non siano evoluti per predarci, esiste ed esisterà un vantaggio sempre più pronunciato nell’escluderci da risorse di base, a partire dal semplice spazio in un ecosistema, attraverso dissuasioni come veleni, tossine e altre diavolerie che l’evoluzione darwiniana è in grado di produrre per conferire vantaggio ai nostri competitori. Gli ecosistemi non sono affatto una farmacia o un mercato alimentare pronti per noi, e la presenza di caratteristiche a noi benefiche è accidentale, non evoluta a nostro diretto vantaggio; siamo piuttosto noi che ci siamo evoluti, anche culturalmente, per sfruttare a nostro vantaggio ciò che identifichiamo come benefico.
Non esiste una “medicina naturale” e una “salute derivata dalla natura”, né una superiorità di principio dell’alimentazione cosiddetta biologica in contrapposizione ai prodotti della tecnologia moderna e ad uno stile di vita identificato come sano dalla moderna conoscenza scientifica
Ecco perché non esiste una “medicina naturale” e una “salute derivata dalla natura”, né una superiorità di principio dell’alimentazione cosiddetta biologica in contrapposizione ai prodotti della tecnologia moderna e ad uno stile di vita identificato come sano dalla moderna conoscenza scientifica: è estremamente antropocentrico ed erroneo immaginare che esista una natura evoluta per noi, pronta ad alleviare i nostri mali e a migliorare la nostra salute, a fronte di un mondo artificiale tossico e governato solo dall’interesse altrui. Ciò che è evoluto per noi – anzi da noi – è invece la chimica farmaceutica e le più moderne tecniche di produzione del cibo a basso impatto ambientale e ad alta salubrità, frutti della selezione darwiniana di memi ben funzionanti e certamente in grado di incorporare fra i propri ritrovati anche ciò che di utile si trovi negli ecosistemi; per il resto, se lasciassimo fare a quello che le persone intendono come Natura (e di cui abbiamo discusso all’inizio), noi saremmo ben presto infelicemente ridotti in numero e in durata di vita a ciò che eravamo all’inizio del nostro cammino evolutivo, quando tecnologia e cultura erano agli albori.
Naturale, quindi buono e giusto?
La definizione di innaturale, come quella di blasfemia per i credenti, è in grado di suscitare immediata ripulsa ed una congerie di sentimenti negativi, che vanno dalla paura all’odio. Questo perché, fin troppo spesso, noi facciamo un’associazione immediata tra naturale e giusto e tra naturale e buono, a partire dal nostro linguaggio: ciò che è innaturale è inatteso perché fuori regola, dunque potenzialmente pericoloso e certamente estraneo e sconosciuto.
In realtà, tuttavia, ancora una volta si tratta di un ben radicato malinteso: siamo noi ad immaginare (e più che altro sperare) che la natura sia regolare e prevedibile, e quindi buona e giusta, ma in realtà sappiamo da secoli che nella competizione fra le specie, e dunque negli ecosistemi, vale tutto, purché si duri quel tanto che basta per lasciare più discendenti degli altri.
Qualche esempio? Vi sono specie di ragni in cui la madre è letteralmente divorata viva dalla moltitudine dei propri piccoli, che ne consumano il corpo liquefatto a partire dalle parti meno vitali, perché questo comportamento consente di aumentare le probabilità di sopravvivenza dei ragnetti grazie alla disponibilità di un facile pasto. Esistono alberi del genere Pisonia, che crescono su isole tropicali separate a volte da grandi bracci di mare, i cui semi secernono una colla così potente, che gli uccelli di minori dimensioni vi rimangono inestricabilmente attaccati, finendo per morire di fame e decorando l’albero di corpi in decomposizione; ciò forse al solo perché è vantaggioso per la pianta avere dei semi che siano in grado di attaccarsi ad ogni uccello di passaggio, in modo che i più grandi, liberatisi, siano in grado di trasportarli su grandi distanze. Alcuni funghi del genere Cordyceps infettano le formiche, invadendone il corpo e nutrendosi a loro spese, ma soprattutto praticando una sorta di “lavaggio del cervello” chimico alle proprie vittime, le quali trasformate in ubbidienti zombies sono letteralmente comandate dal fungo a raggiungere una posizione elevata su uno stelo d’erba, a mordere lo stelo in maniera tenace e a rimanere fino alla morte lì agganciate, così che il fungo possa terminare il proprio ciclo vitale.
Alcune foche violentano certe specie di pinguino, e in certi casi smembrano e divorano il malcapitato uccello al termine della copula. Le orche giocano spesso con le proprie prede scagliandole per aria e disarticolandole vive, sia per istruire i cuccioli che, pare, per puro divertimento dei loro cervelli di elevata capacità. Gli esempi per noi disgustosi e crudeli, tratti dal bioma che ci circonda, potrebbero continuare a lungo; spero tuttavia che quelli portati bastino a convincere che, se utilizziamo come metro la nostra idea di giustizia e di bontà, non possiamo certo ottenere una descrizione completa o accurata di quale sia la realtà del mondo biologico. Per saperlo, basterebbe aver studiato non dico Darwin, che in un paese come il nostro è relegato ai margini dell’insegnamento, ma almeno Leopardi, il quale dovrebbe parlare chiaramente a tanti letterati, giuristi e umanisti fra i nostri concittadini. Le categorie morali non si applicano a quel mondo che intendiamo imprecisamente descrivere come naturale; eppure, ci sono medici in posti prestigiosi delle nostre istituzioni che pretendono che l’evoluzione di un virus porti per necessità, non eventualmente per caso, ad una sorta di coesistenza pacifica con l’uomo, ci sono i venditori di un naturale inventato dipinto come “buono, pulito e giusto”, ma soprattutto ci sono i denigratori della tecnologia, delle scienze, dell’industria, della modernità, tutte sul banco degli imputati perché lontane dall’immaginario stato di natura e, dunque, ingiuste. Eppure, è la tecnologia la naturale qualità della nostra specie che ci ha consentito di non soccombere: la natura matrigna di Leopardi ci avrebbe già fatto a pezzi, come peraltro avvenuto per tante altre specie sorelle di Homo sapiens che non ce l’hanno fatta.
Nessuna giustizia, nessuna bontà, nessun equilibrio armonioso è connaturato alla natura: le connessioni ecologiche articolate e complesse tra specie diverse nascono solo perché avvantaggiano la trasmissibilità del DNA di un individuo a scapito degli altri (vista la disponibilità delle risorse limitate), e se questo comporta infliggere sofferenza fisica ad altri individui della propria o di altre specie oppure invece cooperare in una società complessa di tipo mutualistico dipende solo ed esclusivamente dalle circostanze specifiche dell’evoluzione di un certo lignaggio biologico, non da tendenze predeterminate che garantiscano giustizia e bontà dello stato naturale.
La conclusione di un biologo
Io sono un biologo, cioè qualcuno che ha dedicato la sua vita professionale allo studio dei sistemi viventi. Le fandonie ed i miti che ho illustrato, dunque, per me sono ancora più difficili da sopportare che per altri specialisti; ma lo scopo di questo articolo non è sfogare il mio personale dispiacere.
Al contrario, vorrei convincere il lettore che di quei miti non abbiamo bisogno né per preoccuparci dell’ambiente né per difenderlo, e che quei miti sono promossi in realtà al solo scopo di vendere prodotti o visioni del mondo utili a chi le propone, ma non alla comunità umana, e non senza rischi per il nostro presente e per il nostro futuro.
Per capire che abbiamo bisogno di salvaguardare le risorse del nostro pianeta il più possibile, e che l’espansione della nostra specie e dei nostri stili di consumo non può essere infinita, non vi è affatto bisogno di immaginare una benevola Natura originaria, il cui equilibrio siamo andati a perturbare. Al contrario, il fatto di sapere di essere a pieno titolo parte di ecosistemi che non sono per nulla in equilibrio e che al massimo, in determinate condizioni, tendono a stati stazionari, il fatto cioè di capire di essere parte di un sistema in evoluzione rapida, con risposte spesso imprevedibili e soggetto a dinamiche caotiche, questo fatto dovrebbe spingerci molto di più a valutare a fondo la portata dei nostri comportamenti e ad intervenire modificandoli, molto di più certamente della rassicurante e falsa opinione di un equilibrio statico dei bei tempi che furono, prima dell’intervento umano. Magari gli ecosistemi, lasciati a sé stessi, tendessero all’equilibrio! La realtà è molto più complessa e pericolosa, e le azioni e le conoscenze necessarie sono molto più urgenti di quanto immaginiamo. Il marketing del “ripristino dell’equilibrio”, tuttavia, vende bene perché fa leva su un mito rassicurante di regolarità da ripristinare; ecco perché continua a predominare questa pericolosa convinzione, ed ecco a chi, in realtà, dovremmo ribellarci.
Il potere curativo della natura, e la salubrità di un inventato stato di natura, sono pure essi potentissimi prodotti del marketing, atti a vendere una miriade di prodotti diversi, dal cibo biologico alle pseudomedicine; eppure anche questa credenza, come abbiamo visto, è non solo sbagliata, ma anche pericolosa, visto che comporta anche il rifiuto come “innaturale”, e dunque irregolare, alieno, incognito e dannoso, di ciò che di meglio la mente collettiva dell’umanità sia riuscita ad inventare in termini di cibo, di cura e di mantenimento della salute. Anche di questo mito non abbiamo bisogno, e dobbiamo riconoscere il pericolo di affidarci alla sua dolce visione consolatoria: i virus non scompariranno con rimedi naturali, i cancri non guariranno con le erbe della medicina ayurvedica, la sofferenza non sarà evitata dal nostro stato mentale, il cibo biologico non migliorerà affatto la salute delle persone o quello dell’ecosistema, fino a prova contraria, cioè scientifica.
Abbiamo fin troppo a lungo lasciato spazio alla falsa idea della natura curativa; è ora di crescere, la nostra salute ne guadagnerà e ciò che intendiamo come natura non ne risentirà di certo.
Infine, non otterremo relazioni sociali più giuste o una moralità superiore uniformandoci ad un presunto stato naturale, moralmente superiore proprio in quanto meno frutto di elaborazione da parte dell’umanità. La giustizia e la bontà di marchio umano non sono motori delle relazioni fra individui o fra specie diverse dalla nostra, se non in quei casi in cui esse possano conferire qualche vantaggio selettivo agli individui che ne siano dotati; ma, in generale, non vi è legge di natura per cui quest’ultima costituisca uno standard etico cui tendere. Si tratta di una mera invenzione, che in genere viene fatta discendere ad arte da uno specifico standard di “naturalità”, che sia di volta in volta quello del mulino bianco, di Slow Food o di altri venditori, allo scopo di vendere prodotti ed ideologie in un solo pacchetto.
Possiamo essere più giusti senza appellarci alla natura; possiamo cominciare ad agire per salvaguardare il nostro ambiente senza ricorrere all’invenzione della Natura; possiamo curarci, mangiar meglio e stare più in salute senza inventare la “Natura salubre”; e possiamo valutare il peso delle nostre azioni sull’ecosistema, senza inventarci deviazioni da immaginari equilibri.
Non abbiamo bisogno di comprare i miti e i prodotti di aziende e lobby interessate a promuovere la propria visione, imprenditori furbi, politici alla ricerca di una nuova cornice narrativa, truffatori e ciarlatani che promuovono le pseudoscienze.
Abbiamo invece bisogno di aprire gli occhi, liberarci dalle ideologie ed utilizzare la nostra conoscenza al meglio, invece di rifiutarla, prima che sia troppo tardi per noi e per l’ambiente. Perché questa è l’unica, importante differenza fra noi ed il resto del nostro pianeta: possiamo scegliere, e possiamo agire, seguendo non l’istinto, ma la ragione scientifica, per utilizzare dei mezzi e delle soluzioni che possano correggere quanto, naturalmente, faremmo.
Enrico Bucci, Ph.D. in Biochimica e Biologia molecolare (2001), è professore aggiunto alla Temple University di Filadelfia. Si occupa di dati biomedici, frodi scientifiche e biologia dei sistemi complessi. “Cattivi scienziati” è la sua rubrica quotidiana sul Foglio dall’inizio della pandemia.