IL MORALISMO ECONOMICO DI TREMONTI di M. Tozzato
[Questo articolo di Mauro Tozzato, che riprende alcune dichiarazioni di Tremonti, è davvero sintomatico dell’emergere di una ideologia consolatoria – sempre pronta a “soccorrere” l’individuo di fronte alla sua incapacità di cogliere le profonde trasformazioni del mondo, di quel mondo che lo “ingabbia” in un fittissimo reticolo di rapporti sociali da lui non dipendenti – con la quale si pretende di sopperire all’assenza di un’impostazione critico-scientifica, utile a sbrogliare al pensiero la nuova situazione.
Allorché non si vogliono mettere in discussione alcuni presupposti di base con i quali una disciplina, in questo caso l’economia, interpreta la realtà sociale, ecco che ci si aggrappa alla soluzione mistica (l’Apocalisse imminente) o alla via d’uscita moralistica, la quale consente, solo temporaneamente (ed illusoriamente), di aggirare problemi rispetto ai quali non esistono soluzioni preconfezionate.
Questo impedisce di ragionare in termini più radicali, magari spostando l’attenzione su altri paradigmi interpretativi più utili alla comprensione della fase. Qui è all’opera quell’autoinganno con il quale intellettuali e scienziati (e non dimentichiamoci che anche i marxisti preferiscono ormai indossare gli abiti talari piuttosto che rimettersi sulla strada impervia della scienza), di fronte al terremoto che stravolge le loro precedenti convinzioni, sperano di cavarsela proponendo un ritorno alle origini di un mondo incorrotto ancorché immaginario. Ma il passato non sempre rimanda a ciò che è accaduto o a ciò che è realmente stato, quanto piuttosto all’idea, più o meno romantica, che gli individui si fanno dello stesso.
Insomma, è ancora una volta verificato quell’assunto althusseriano per cui i pesci non vedono mai l’acqua nella quale nuotano. G.P.]
Su Il Foglio del 20.11.2008 è stata riportata la prolusione, per l’inaugurazione del nuovo anno accademico, tenuta da Giulio Tremonti presso l’Università Cattolica di Milano. Inizialmente il ministro introduce il tema del suo discorso che riguarda l’economia sociale di mercato; il titolo della relazione di Tremonti riprende una tematica cara al pensiero sociale cattolico e a numerosi economisti ed esperti di finanza (ad esempio Guido Rossi) che si situano in questa area. Afferma Tremonti:
<<L’economia sociale di mercato è nella dimensione sociale e funzionale del rapporto tra lavoro, capitali e parti sociali, ma è nell’essenza morale del rapporto fra l’etica e l’economia.>>
Evidentemente il ministro vuole riallacciarsi ai temi già toccati nel suo ultimo libro anche se, in qualche maniera, approcci di questo tipo devono essere decostruiti perché non pensiamo seriamente che si possa tornare indietro rispetto alla distinzione e separazione che, per esempio, Benedetto Croce ha posto tra principio economico e principio morale. Al principio economico, in questa dicotomia, appartiene infatti, anche – oltre all’utilitarismo e quindi alla ricerca del massimo profitto attraverso l’efficienza e la scelta delle combinazioni ottime, economiche e tecniche, dei fattori produttivi – la ricerca, nelle varie forme dell’agire sociale, dell’efficacia tesa al raggiungimento dello scopo prefissato la quale prescinde, in prima istanza, dalla quantità dei mezzi impiegati.
Rifacendosi a contributi risalenti alla Germania del secolo scorso Tremonti ricorda chi già allora
<<parlava di non necessaria contrapposizione tra capitale e lavoro, di cooperazione volontaria, di bene pubblico, di protezione sociale di mercato e di sociale non come concetti separati ma come parte di un unico concetto ispirato all’etica.>>
Eppure egli stesso ammette che la formula “economia sociale di mercato”:
<<sembra contenere una contraddizione in termini, una contradictio in adjecto fra il sostantivo mercato e l’aggettivo sociale; una contraddizione tra la parola mercato che indica diritti di proprietà, accordi di scambio ed effetti di utilità marginale e l’aggettivo sociale, che invece evoca ciò che è comune a un insieme di persone oltre alla massimizzazione dell’utilità individuale.>>
Il ministro sembra proporre una nuova “superiore” sintesi tra etica ed economia come soluzione per la crisi che sta devastando l’economia, la finanza e la produzione a livello globale. Secondo il suo modo di vedere il modello sociale negli ultimi anni è stato dominato dall’ideologia del consumismo, indirizzato, per lo più, verso beni superflui, “ meglio se comprati a debito”. Subito dopo egli aggiunge che quella a cui assistiamo ora è la crisi della visione positivistica la quale ha messo da parte il diritto naturale e l’idea del giusto ordine sociale “cui si ispira anche il Magistero della Chiesa”.
Così continua, ancora, Tremonti:
<<La separazione tra morale, diritto e economia, l’effetto del positivismo, ha prodotto una visione dell’uomo e della società in cui la morale non è altro che una scelta solo e irriducibilmente soggettiva. Il diritto non è altro che l’esercizio di un comando da parte di chi detiene il potere, justum quia jussum, e l’economia non è più che un meccanismo anonimo di soddisfacimento di preferenze individuali e irrazionali.>>
Sembra proprio che esistano due Giulio Tremonti: quello dei giorni feriali teso a proporre soluzioni pragmatiche salvaguardando gli interessi della propria parte politica e dei gruppi di interesse e di pressione legati a lui e all’alleanza di centrodestra – che comunque risulta tutt’altro che omogenea al suo interno – e quello della “domenica” ovvero il predicatore del “giusto ordine sociale”, fautore del ripristino della moralità nell’economia e nella società oltre che del recupero dei legami comunitari (spesso oscillando tra comunità locale e comunità nazionale). Se queste ultime “aspirazioni” si manifestassero, come a volte sembra, in un effettivo impegno nella difesa degli “interessi nazionali” si potrebbe almeno trovare una qualche giustificazione a tutti questi panegirici. Ma a questo punto comincia il discorso del Tremonti economista:
<<La crisi, si dice, è finanziaria, ma non è solo finanziaria […]. La crisi è globale per un doppio ordine di ragioni: ha un’estensione globale ma soprattutto è globale perché ha origine nella globalizzazione. […]Quando nella storia si aprono i grandi spazi sempre si producono crisi. E’ stato così per la scoperta geografica dell’America, è così con la scoperta economica dell’Asia. Io credo che la ragione della crisi sia nel tempo e nel modo della globalizzazione. Nel tempo, concentrato e poi esploso nell’arco di pochi anni – nel 1994 a Marrakech si definisce il trattato sul commercio mondiale a cui l’Asia aderisce nel 2001, pochi anni dopo – fenomeni di questo tipo che hanno un’intensità storica drammaticamente forte, che non sono evitabili, tuttavia nella storia si erano manifestati soltanto nell’arco della long durée …>>.
Il ministro dell’economia ribadisce, poi, che tutto è avvenuto troppo rapidamente e benché fosse presente una dinamica oggettiva indirizzata in una determinata direzione si è potuto, anche, constatare come “la cascata dei fenomeni” sia “stata intenzionalmente accelerata”.
Tremonti prosegue ancora nella sua riflessione storico-geopolitica:
<<Caduto il muro di Berlino, finito il comunismo, l’America ha spostato l’asse del suo potere verso l’Asia e ha fatto un patto[…]: l’Asia produce merci a basso costo e l’America le compra a debito. Da una parte, quindi, il debito interno, la politica dei mutui ipotecari e altro; dall’altra il debito esterno, contraendo debiti con la stessa Asia. Troppo in fretta e troppo a debito.>>
A questo punto la prolusione di Tremonti inizia delle interessanti considerazioni su quelle che sono da lui ritenute vere e proprie “mutazioni” strutturali avvenute nel capitalismo degli ultimi due decenni. Secondo il professore lo sviluppo e l’approfondimento della “tecnofinanza” ha prodotto
<< sull’ethos capitalista una distorsione fondamentale rispetto alla base protestante del capitalismo che è l’etica delle intenzioni e l’etica della responsabilità. Il capitalismo che si è sviluppato nell’ultima decade si è staccato anche da queste due forme originarie di etica: per secoli i banchieri hanno raccolto denaro sulla fiducia, prestato denaro a proprio rischio valutando propriamente il rischio. La nuova tecnica della finanza consente a chi raccoglie il denaro di liberarsi dal rischio, secondo un paradigma per cui più vendi il rischio, meno rischi e più guadagni>>.
Per quanto ne so a partire (almeno) da Marx ci si era occupati abbastanza ampiamente delle dinamiche del capitale “fittizio”; il tema, quindi, non risulta del tutto nuovo. Quando il capitale “fittizio” – e in maniera semplificata mi riferisco qui al “capitale monetario” in senso “statico” mentre è evidente che il “processo di circolazione” di questo “capitale” implica già il gioco e la dinamica dei rapporti sociali – assume dimensioni quantitative esasperate prima o poi qualcuno si vede “crollare il tetto della casa sulla testa” e tutti sanno che sono sempre all’opera le strategie per creare le condizioni affinché questo capiti agli “altri”.
E’ risultata decisiva, secondo Tremonti, anche
<<la possibilità di sviluppare attività economiche e finanziarie, il nuovo capitalismo emergente e performante, fuori dalle giurisdizioni ordinarie. E’ stato detto che questo tipo di evoluzione degenerativa del capitalismo è dovuto alla deregulation. In parte è stato così e in effetti nel 95’, 97’, 99’ e nel 2000, in America vengono formalizzati quattro provvedimenti legislativi assolutamente orientati nel senso della deregulation finanziaria>>.
Il ministro aggiunge poi, però, che anche in aree geopolitiche apparentemente “regolamentate”, come l’Europa, i fatti hanno dimostrato – dal punto di vista sostanziale e al di là delle forme giuridiche – il prevalere della valutazione per cui l’unica regola considerata valida consisteva nel “non avere regole”.
Altro elemento decisivo nella genesi dell’attuale crisi risulta inoltre, secondo Tremonti, il verificarsi di un mutamento nella natura stessa dell’impresa capitalistica:
Il capitalismo è basato su uno schema tipico, un idealtipo, che è quello della società di capitali. […]. La parte affluente e più dinamica e performante del capitalismo è uscita dallo schema della società per azioni e ha utilizzato altri strumenti non necessariamente incorporati e formalizzati in giurisdizioni forti. Hedge fund, equity fund, sono strumenti che rappresentano una evoluzione assolutamente esterna rispetto allo schema legale di base del capitalismo, che è la società per azioni>>.
Approfondendo questo tema Tremonti concentra la sua attenzione sulla “distinzione tra conto patrimoniale e conto economico” e rileva che
<<l’ultimo capitalismo si è spostato solo sul conto economico, ha abbandonato la base del conto patrimoniale. Questo non è un passaggio contabile, è un passaggio politico e morale fondamentale. Il conto patrimoniale è il mondo dei valori e il conto economico è il mondo dei prezzi. Il conto patrimoniale è il mondo dei valori nei quali vedi la struttura, la storia, l’origine, il presente e il futuro di una società[…]. Se tutto il capitalismo vira sul conto economico […]non conta più la durata della società, ma l’esercizio sociale e questo è diviso in semestri e trimestri. Se il capitalismo prende la forma istantanea e sciortista del conto economico, l’unico nel quale tu vedi il funzionamento della società[…]in concreto è un capitalismo take away: estrai dal conto patrimoniale, saccheggi i valori e li porti fuori.>>
Sembra che il professore voglia mettere in evidenza la gravità dell’introiettarsi della frattura tra economia reale e monetaria sin dentro il cuore della forma-impresa; la spinta all’accumulo di denaro porta a non rispettare più le necessarie “procedure” che mettono in moto la produzione e fanno circolare la merce attraverso il denaro. Ma la ricerca della “scorciatoia” per far denaro col denaro (D – D1 con D1 maggiore di D) appare anch’essa tutt’altro che una novità; le forme e le tecniche si sono evolute ma i processi sociali (economico-sociali) ad esse collegate si sono già manifestati in passato.
La giusta soluzione, secondo Tremonti, dovrebbe iniziare dal recupero di una disciplina etica e agganciarsi alla consapevolezza di “sapere di non sapere”; partendo dalla comprensione della propria ”ignoranza scientifica” politici e economisti dovrebbero prendere atto della “rottura di continuità” che si manifesta nella crisi attuale e opporre
<<al paradigma della domanda di beni di consumo, superflui e possibilmente a debito […]quello che organizza la domanda sugli investimenti collettivi fatti per il bene complessivo: non per il presente, ma per il futuro. E non fatti sul debito ma sul solido di una prospettiva fondativa.>>
Questa melensa apologia della cosiddetta economia sociale di mercato viene conclusa dal “divo Giulio” con toni più mistici che filosofici:
<<Un pensiero che ci può ispirare su questa via, è quello vecchio e saggio di Platone: “L’unica moneta buona con cui bisogna cambiare tutte le altre è la phronesis : un’intelligenza che sta in guardia[…]”. Soprattutto se guidata da Dio. Grazie.>>
Mauro Tozzato 25.11.2008