Il Nafta? Peggio del muro (di R. Vivaldelli)
C’è un elemento fondamentale, nella discussione politica su Donald Trump e i controversi rapporti con il Messico, soprattutto in relazione all’ampliamento del – già esistente – muro situato al confine tra i due Paesi, che è pressoché passato in secondo piano: il Nafta.
Il North American Free Trade Agreement (Nafta) siglato nel 1992 tra Stati Uniti, Messico e Canada sotto la presidenza di George H. Bush, infatti, ha danneggiato il Messico più di qualsiasi muro. Se il presidente Donald Trump riuscirà dunque a cancellare l’accordo o rinegoziarne i termini, come ha promesso più volte in campagna elettorale, allora farà, forse inconsapevolmente, un grande favore al Paese guidato da Enrique Peña Nieto. A sostenere questa tesi è Mark Weisbrot, importante economista americano e direttore del Centro per la Ricerca Economica e Politica (Cepr). La sua analisi è stata pubblicata sull’edizione americana dell’ Hufftington Post.
Un danno per l’economia
“Molti sostengono che i lavoratori messicani abbiano avuto benefici dal Nafta – osserva Weisbrot – ma ciò è falso. Se analizziamo la crescita del PIL o il reddito pro-capite, vediamo che il Messico, dopo l’adesione al Nafta, è scivolato alla quindicesima posizione, su venti, dei paesi latino-americani. Altri dati ci confermano una realtà ancora più triste. Secondo le ultime statistiche nazionali, il tasso di povertà nel 2014 è salito al 55,1% – superiore al 52.4% del 1994. Stessa discorso per la media dei salari che, considerando l’inflazione, sono saliti solo del 4% in 21 anni”.
Perché il Nafta ha fallito
Il Nafta è stato approvato come continuazione delle politiche avviate all’inizio degli anni ’80, su spinta di Washington e del Fondo Monetario Internazionale quando il Messico era molto vulnerabile sotto il profilo del debito pubblico. “Queste politiche – spiega Weisbrot – hanno incoraggiato la deregolamentazione e la liberalizzazione della produzione, nonché gli investimenti stranieri (il 70 per cento del sistema bancario del Messico è ora di proprietà straniera). Il Paese ha abbandonato le politiche a favore delle crescita dei decenni precedenti e ha adottato una politica neoliberista che ha legato Città del Messico agli Stati Uniti”.
A guadagnarci sono state le multinazionali a danno della sovranità nazionale: “Le multinazionali – spiega l’economista – con questo tipo di accordi, possono citare in giudizio i governi che introducono regolamenti che possono danneggiare i loro profitti; questo vale anche per le aziende che si occupano di salute pubblica e sicurezza ambientale. Queste cause vengono poi esaminate da un tribunale speciale slegato al sistema giuridico nazionale”.
Persi milioni di posti di lavoro
Dal 1994 al 2000 il Messico ha perso circa due milioni di posti di lavoro nel settore dell’agricoltura, da quando le multinazionali del mais hanno spazzato via le piccole imprese. Inoltre, l’immigrazione verso gli Stati Uniti, nello stesso periodo, è aumentata del 79%. “Se l’economia messicana dopo il 1980 fosse cresciuta come i decenni precedenti, ora i messicani avrebbero un reddito medio simile a quello europeo. La crescita però si è arrestata dopo l’introduzione del Nafta, che è a tutti gli effetti un fallimento”.
Gravi conseguenze anche per gli Usa
Il presidente Donald Trump non ha mai fatto mistero di voler rinegoziare i termini dell’accordo, sollevando timori anche in Canada. Secondo il New York Times, in un’analisi pubblicata nel 2013 ma ancora attuale, “il fallimento del Nafta in Messico ha avuto un impatto diretto sugli Stati Uniti. Anche se di recente si è fermata, l’immigrazione verso gli Stati Uniti è cresciuta vertiginosamente di anno in anno dopo l’approvazione dell’accordo”.
“L’aumento delle persone che vivono in condizioni di povertà alimenta la criminalità organizzata. L’incremento di queste attività al confine facilita il contrabbando di armi e di sostanze illegali” – scrive Laura Carlsen sull’autorevole quotidiano americano.Trump, dunque, ha tutte le ragioni per rinegoziare il Nafta. E non solo nell’interesse degli Stati Uniti ma di quello dei lavoratori di entrambi i Paesi.