Il PARTITO COMUNISTA ITALIANO, TRA RIVOLUZIONE ANTIFASCISTA E SOCIALISMO
Il partito comunista italiano al momento della sua costituzione (1921), tra i due gruppi, il bordighiano del Soviet e il gramsciano dell’Ordine Nuovo, si trovò impegnato sul tema principale del rapporto tra fascismo e capitalismo: una caratterizzazione di un processo rivoluzionario che cercava di porre in primo piano “la natura di classe del fascismo.”
In concomitanza alla presa del potere del fascismo in Italia (1922), si fece più pregnante l’idea che una Rivoluzione in Italia era possibile, similmente a quella proletaria sovietica (1917), ad una condizione primaria: l’abbattimento della dittatura fascista attraverso “una rivoluzione antifascista” in un’alleanza tra proletariato industriale e contadini poveri; su tutto questo pesò per lungo tempo l’interpretazione del “Comintern” (Internazionale Comunista), secondo cui il fascismo era l’espressione di una “Dittatura Finanziaria,” con forte coesione sociale, interna alla riproduzione capitalistica, nelle componenti più arretrate e parassitarie dello sviluppo e con un conseguente divieto assoluto, di stringere alleanze con la Socialdemocrazia, definita “Socialfascista,” la cui classe operaia, in un regime fascista, doveva lottare per la restaurazione di una democrazia borghese.
Soltanto al VII° Congresso dell’Internazionale comunista (1935) si sdoganò l’interpretazione del “Socialfascismo,” proponendo un nuovo rapporto della classe operaia con le libertà e le istituzioni borghesi. Non a caso, Togliatti fu correlatore insieme a Dimitrov del rapporto generale del VII Congresso (Internazionale), sul tema più decisivo “dell’Unità della classe operaia contro il fascismo.” Da tale rapporto, oltre alla scontata premessa della vittoria della rivoluzione proletaria con la trasformazione della proprietà privata dei mezzi di produzione in proprietà sociale, ” prese corpo un concetto di democrazia di tipo nuovo, che Togliatti elaborò ed enunciò per la prima volta nel 1936, a proposito della sua esperienza del Fronte popolare di Spagna: “ La repubblica democratica che si crea nella Spagna, non rassomiglia a una repubblica democratica borghese del tipo comune. Essa si crea nel fuoco di una guerra civile nella quale la parte dirigente spetta alla classe operaia.. Il tratto caratteristico di questa nuova repubblica democratica consiste nel fatto che in essa il fascismo, sollevatosi contro il popolo, viene schiacciato dal popolo con le armi alla mano. ” Togliatti precisò che una democrazia di tipo nuovo in Italia, potrà evolversi soltanto sulla base di una rivoluzione antifascista: su questo crogiolo ideologico in “progressione permanente”, si anticiperanno quelle caratterizzazioni che Togliatti intese elaborare e proporre come tesi della “democrazia progressiva;” tema poi ripreso, a fondamento di tutto il programma politico del Pci nella “Svolta di Salerno” del 1944 come “Via italiana al socialismo,” che divenne a sua volta, “nell’Assemblea Costituente”(1947) la base materiale della Costituzione Italiana definita Antifascista.
Un programma politico di Togliatti per un Italia democratica e progressiva “in cui i diversi partiti corrispondenti alle diverse correnti ideali e che hanno una base nel popolo e un programma democratico e nazionale mantengano la loro unità per far fronte ad ogni tentativo di rinascita del fascismo. Non vogliamo mettere al bando della nazione né i democratici, né i liberali, ma i fascisti… Democrazia progressiva sarà in Italia quella che distruggerà tutti i residui feudali e risolverà il problema agrario dando la terra a chi la lavora; quella che toglierà ai gruppi plutocratici ogni possibilità di tornare ancora una volta, concentrate nelle loro mani tutte le risorse del paese, a prenderne nelle mani il governo, a distruggere le libertà popolari.” E più oltre nell’Assemblea Costituente, lo stesso Togliatti dichiara.”noi non rivendichiamo una Costituzione socialista. Sappiamo che la costruzione di uno Stato Socialista non è il compito che sta oggi davanti alla nazione italiana.. Oggi si tratta di distruggere fino all’ultimo residuo di ciò che è stato il regime della tirannide fascista.”
La distruzione di“ Ogni residuo di fascismo” fu vagliato da Togliatti sul tema fondamentale dell’Antifascismo e che diventò insieme al Socialismo l’avvio di un nuovo processo politico del Pci dal dopoguerra in poi, i cui caratteri generali vennero relegati sullo sfondo di orizzonti
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ideologici, e già posti sotto la tutela di logiche geopolitiche tra i due mondi separati (Usa e Urss), secondo gli accordi di “Yalta:” un antifascismo in trasmutazione ideologica che servisse da stampella al socialismo; antifascismo e socialismo divennero un’accoppiata ideologica dove ciascuno si rifletteva nell’altro ed entrambi rappresentavano l’ultimo baluardo di democrazia in Italia; ed anche, un modo per “aggiornare” ed affinare alla bisogna un antifascismo degli anni ’30, tangibile e doloroso per i comunisti in lotta contro la dittatura, in un “veicolo ideologico” in grado di traghettare un nuovo processo storico, così da poter sempre dichiarare: o democrazia con antifascismo o fascismo come “muerte. ”
I democristiani furono additati fin nell’immediato dopoguerra, come i rappresentanti politici di interi settori di capitalismo arretrato, in combutta talvolta con i residui di fascismo, dimenticando che, al contrario, seppero guidare la “ricostruzione” svolgendo un’ opera meritoria di appoggio ad un Capitalismo competitivo e che trovò in Togliatti, una sostanziale acquiescenza tra i due mondi bipolari; rimaneva sempre sullo sfondo l’idea comunista di un capitalismo monopolistico, da combattere e non da abbattere, arretrato e straccione, sempre in combutta con i settori più parassitari della società, e la cui “Programmazione Democratica” (Riforme di Struttura) poteva addolcire secondo la vulgata comunista, gli aspetti più obsoleti del sistema Monopolistico italiano. Una politica togliattiana dotata di un certo realismo politico, in un’ambivalenza “discreta,” in accordo tacito con i settori democristiani, che cercavano nel frattempo, un’autonomia nazionale di politica industriale in grado di far uscire al più presto l’Italia dal dopoguerra; anche se la sua morte segnò la fine di una fase politica con qualche vantaggio di interesse nazionale, si ricorda a questo proposito, il sostanziale appoggio comunista a Mattei per facilitare rapporti privilegiati con il FLNA (Fronte di Liberazione Algerino, che godeva della la protezione dell’Urss) per lo sfruttamento del Gas Algerino, e l’interscambio commerciale con l’Unione sovietica per la produzione delle automobili Fiat nello stabilimento di “Togliattigrad.”
La storia italiana è rimasta in una sospensione di un giudizio storico, nel vuoto creatosi di analisi politica, sulla natura e sulle origini delle strutture economico sociali del fascismo e del nazismo; e ciò fu una delle conseguenze fondamentali delle sciagurate politiche dei governi socialdemocratici di prima e dopo il fascismo, che lavorarono alacremente durante i loro governi alle liquidazioni delle industrie nazionali, causa non ultima della sconfitta delle democrazie parlamentari; esperienze ripetute nella svendita della struttura industriale dell’Iri, degli anni Novanta, in totale appannaggio alle “Sinistre” italiane. Per il resto, si continuarono a sottacere le motivazioni di fondo di quella comparsa improvvisa e vincente, prima del fascismo poi del nazismo, che seppero presentarsi sulla scene delle politiche nazionali,” con ‘spiriti forti’ a “vocazioni industrialiste,” ed in grado di garantire un sistema industriale in piena autonomia competitiva, onde far risorgere dall’interno di esso intere strutture industriali colonizzate e andate in disuso; oltre a risolvere, a latere, il drammatico problema della disoccupazione lasciata in eredità dagli sciagurati governi socialdemocratici, i quali nei loro “Dna ideologico”, identificarono il Socialismo con il controllo Statal-Finanziario (Socializzazione Finanziaria)) dell’industrie; viatico di quest’ultime, le banche europee collegate alla pervasività finanziaria del Capitalismo Manageriale Usa che allungava, fin dai primi del Novecento, la presa in Europa in sostituzione del vecchio Capitalismo Borghese Ottocentesco.
La storia non sempre è maestra di vita, quando la stoltezza dei politici non riesce far riemergere dalle esperienze passate una riflessione in grado di lumeggiare un futuro accettabile per i dominati; i nodi storici possono ripresentarsi con la stessa drammatica evidenza quando si (s)governa il paese in totale assenza di una analisi che per essere minimamente accettabile deve essere in grado non solo di risolvere i problemi, quantomeno di capire le tendenze di fondo dello sviluppo capitalistico.
Un aspetto poco approfondito, secondo un certa angolazione di ricerca storica, fu il dissidio politico, tra Togliatti e Gramsci; in tale rapporto si dipana gran parte della storia italiana che va dall’immediato dopoguerra ai giorni nostri. Una lunga trama politica, elaborata, per lo più, dagli
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storici ufficiali del Pci (Spriano, Ragionieri..) e orientati per lo più verso una storiografia celebrativa degli “eventi” (si pensi al “25 Aprile”), piuttosto che ad una ricostruzione compiuta e complessa dei grandi processi storici che cambiarono il mondo.
Riportare alla “luce storica” quel rapporto è possibile soltanto ad una condizione: che si possa indagare sgombrando il terreno da tutte le sedimentazioni storiche accumulate da una storiografia di parte e rivolta alle contingenze politiche. Si pensi soltanto che l’analisi sulla struttura economica sociale del fascismo fu tentata soltanto da Emilio Sereni e Pietro Grifone (nel suo “Il Capitale Finanziario in Italia” scritto al “Confino” di Ventotene nel 1942) con una interpretazione storica mirata ad un totale asservimento alle strategie geopolitiche i cui presupposti ideologici della parte avversa al mondo occidentale, si radicavano nella difesa ad oltranza dei “Paesi del Socialismo Reale;” si poteva così garantire la sopravvivenza politica dell’intero gruppo dirigente del Pci formatosi nell’immediato dopoguerra e durato fino la caduta del “Muro di Berlino”(1989); e che neppure quella “caduta” seppe rimuovere i “detriti storici” rimasti, che si erano allungati in modo inquietante, sul tracciato ideologico inaugurato da Togliatti dalla “via Italiana al Socialismo ai “nipotini del Pci”, succeduti a Berlinguer, che si assunsero nel frattempo, la missione storica di una pulizia etnica che spazzò via un intero quadro dirigente democristiano-socialista, non propriamente appiattito sui disegni geopolitici Usa.
Spiegare come ciò sia potuto accadere significa rimestare molta storia d’Italia del secolo scorso, fin dal dopo “Congresso di Lione” (1926), tra Togliatti, nuovo segretario politico, subentrato all’arresto di Gramsci, così come ci è stato descritto da Emilio Sereni (uno dei fondatori del Pci) in un saggio storico apparso sulla rivista “Critica Marxista” del 1972 e dal titolo: “Fascismo, capitale finanziario e capitalismo monopolistico di Stato nelle analisi dei comunisti italiani.”
Un articolo significativo, di un dissidio tra Togliatti e Gramsci sulla natura e origine del fascismo, ma il cui oggetto del contendere era il rapporto tra, Pci e l’Unione Sovietica, nel dopo Lenin: un nuovo corso politico da dare al costituendo partito comunista, con Togliatti come segretario, ed in grado perciò di imprimere una decisa inversione interpretativa, rispetto alla tesi di Gramsci sul fascismo inteso “Blocco industriale agrario,” e così recepito, nel III° Congresso del Pci di Lione (1926); si aprì da qui, una partita fondamentale di un lungo processo storico italiano, dalle molte implicazioni politiche, che investì l’intera storia del Pci.
Quella digressione di Gramsci sul fascismo esulava dalle interpretazioni ortodosse, grazie non solo al suo ruolo di attento osservatore della società italiana, quanto per essersi proposto come l’interprete più colto e raffinato di quel lontano periodo storico, a cui non sfuggiva certamente il significato più profondo della natura del fascismo. Quella definizione ( Blocco industriale agrario) si può collocare in parallelo ad un’attenzione storica che Gramsci usava nel riassumere le vicende italiane, come “questione nazionale,” poi elaborate in modo più organico nel concetto di “Egemonia:” una sostanziale controtendenza politica di Gramsci rispetto alle politiche di svendita dei corrotti governi giolittiani (in linea al socialismo di Turati) succedutisi nell’arco di tempo di tutto il primo ventennio del Novecento, e che drammaticamente, soltanto il fascismo seppe interpretare e far propria.
Quello che intanto si può dire, lasciando agli storici di professione l’approfondimento necessario e da colmare, ammesso che si voglia riscrivere quella parte di storia nazionale, nella giusta intuizione sul fascismo di Gramsci (Blocco industriale agrario ) come espressione della parte più sviluppata del capitalismo industriale italiano del Nord e dove la classe operaia aveva le sue radici più profonde, insieme ad uno sviluppo agrario che denotava già una capitalizzazione dell’intera zona agricola Padana;
Rimane il quesito fondamentale di come l’interpretazione fascismo nella sua interpretazione più ricorrente abbia potuto resistere in un periodo storico così a lungo ed in totale assenza di una rivisitazione minimamente seria. E non solo questo, quell’interpretazione originaria del fascismo fu ripresa con un certo vigore da tutto il gruppo dirigente del Pci nei primi anni ’70, in una serie di articoli, apparsi su “Critica Marxista,” a ridosso del Compromesso storico degli anni Settanta, cioè per intenderci nel periodo dell’ ingresso dei “Funzionari del capitale” al seguito del Capitalismo
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Manageriale Usa, ed in cui il Pci entrò a pieno titolo come componente essenziale nei meccanismi della riproduzione capitalistica e di produrre perciò un “humus” culturale per un tempo lunghissimo onde condizionare un’intera storia nazionale; si ricorda a seguito di questo il risibile “Eurocomunismo” di Berlinguer, oltre alla sostanziale adesione del Pci alla Nato degli anni Ottanta.
La vigilia dei grandi cambiamenti del capitalismo italiano degli anni’70 fu aperta dal Pci, con una accentata fase culturale di antifascismo come collante alle ragioni più impellenti di un anticapitalismo di maniera, da proporre alle generazioni future: essere al tempo stesso, dentro e contro il capitalismo, senza ovviamente perdere il consenso con la propria base. Lo scritto di Sereni è sintomatico di quel nuovo corso politico che il Pci avviò, partendo proprio da quel lontano contrasto sulla “natura del fascismo”, tra Gramsci Togliatti, con l’aggiunta di una “singolarità” interpretativa dovuta ad una curvatura della storia che il gruppo dirigente del Pci, subentrato a Togliatti, intese dare con un certo vigore politico, che così si può compendiare: stare dalla parte di un Capitalismo Usa vincente in tutto il mondo, oltre a cogliere i frutti politici di un consenso sociale maturato in una stagione di lotte operaie (’69) e studentesche (’68).
A questo proposito, Sereni riporta il seguente passo di Togliatti, ripreso dalle “Lezioni sul Fascismo” degli anni ’30, in auge in quel periodo, da cui si possono già evidenziare alcune delle implicazioni politiche del Pci, che furono riprese dall’immediato dopoguerra ai giorni nostri:
“ Queste tendenze al capitalismo di Stato caratteristiche per la politica di guerra dell’imperialismo, che il dominio dei gruppi fascisti della grande borghesia spinge al parossismo, la demagogia di Hitler e di Mussolini ha cercato di presentarle alle masse come tendenze alla nazionalizzazione o magari alla socializzazione e al socialismo Il fascismo non è un “terzo sistema” dell’economia
e dei rapporti di produzione, è una nuova forma del dominio politico di determinati gruppi della grande borghesia nell’epoca dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria; è un fenomeno, per usare una terminologia marxista, non di struttura, ma di sovrastruttura”
G.D. maggio ‘09
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