IL PASSATO INSEGNA, MA COME?

gianfranco

di  Gianfranco La Grassa

 

1. Nel 1969 esce il film di Pontecorvo Queimada. Non è bello come il suo capolavoro La battaglia di Algeri (che sarebbe da studiare attentamente in particolare per i preparativi della resistenza algerina ai francesi), perché troppo a tesi e didattico. Proprio per questo, però, è interessante al fine di comprendere il passaggio dal colonialismo (più brutale e diretto) al neocolonialismo. Naturalmente, si risente del clima di quell’epoca e delle lotte di liberazione nazionale in paesi del terzo mondo, tenendo conto dell’allora configurazione politica internazionale. Per il mio discorso è interessante comunque la lezione che l’agente venuto dall’esterno, interpretato da Marlon Brando, impartisce ai proprietari di grandi tenute (mi sembra a canna da zucchero, ma è comunque irrilevante) del luogo dove si svolge la vicenda. Egli spiega, sotto metafora, l’importanza di liberare gli schiavi per renderli liberi venditori di forza lavoro; liberi ma nullatenenti all’infuori di questa merce particolare.

Egli dimostra l’utilità del passaggio illustrando, con iniziale disorientamento degli ascoltatori (i dominanti), la differenza tra la moglie e la prostituta. Ovviamente, è necessario rifarsi al clima dell’epoca, perché oggi non si potrebbero ripetere pari pari quei ragionamenti, essendo una moglie, almeno in linea generale, sessualmente esperta e avveduta quanto una prostituta. In quel caso, Brando tratta di un tipo di moglie sostanzialmente sottomessa, che accetta supinamente tutte le “voglie” del marito senza vera partecipazione e non “mettendoci del suo”. Diventa facile immaginare la rapida “stanchezza” del maschio in merito a simili rapporti. Diverso è il comportamento della prostituta. Anch’essa ha quella “stessa cosa”, da vendere però come merce se vuol vivere; e si mette dunque in concorrenza con altre donne dello stesso genere. Detto per inciso, il lavoro salariato deve perciò essere abbondante per assolvere la sua funzione capitalistica; a ciò servirono le enclosures in Inghilterra, la cacciata di gran parte dei contadini sostituiti da pecore, e la successiva irreggimentazione per legge dei vagabondi che cercavano di vivere di mezzucci invece di andare a lavorare nelle manifatture e poi nelle fabbriche.

Tornando alle nostre prostitute, è necessario che esse siano in numero sufficiente per competere fra loro abbassando così i prezzi delle proprie prestazioni “professionali”; ma sono pure obbligate, se vogliono migliorare le condizioni di vendita e vincere le concorrenti, ad abbellire la merce, a renderla funzionale per molte operazioni di piacere. S’impegnano quindi a fondo in tali operazioni, ne inventano di nuove (o comunque attuano molteplici variazioni delle stesse), non adeguandosi invece alla scarsa fantasia di mariti intorpiditi dai ripetitivi rapporti matrimoniali. Anche il loro corpo viene reso più duttile, apprestandosi così all’uso di nuove parti e di nuove “aperture”, ecc. Insomma, lo scambio è fondamentale per migliorare costantemente i servizi della merce acquistata dal “consumatore”, e per di più a prezzi contenuti. E la merce va inoltre tenuta costantemente sotto controllo per non farla deperire, logorare, guastare, troppo rapidamente; altro che la povera moglie “schiava”, ben protetta tra mura domestiche, sfibrata dalla conduzione della famiglia, nutrita e fornita di quanto necessario a “rivestirla” di flaccido grasso.

Quanto appena scritto è solo una premessa introduttiva al discorso sulla guerra civile (o di secessione) americana del 1861-65, estremamente violenta e sanguinosa. La versione “popolare”, e falsa, è quella di una guerra combattuta per un grande “ideale”: la liberazione degli schiavi neri (o negri come si diceva fino a tutti gli anni ’60) che lavoravano nelle piantagioni di cotone dei proprietari sudisti. Nessuno nega che alcuni (perfino molti) credessero veramente a questo “ideale”; alimentato tuttavia nel nord e non laddove le classi dominanti vivevano del commercio di cotone (in genere con l’Inghilterra, un tempo già allora lontano la “madre patria” di gran parte degli americani), e questo dovrebbe far pensare. Gli ideali sono una “materia prima” molto duttile; ci si crede, si arriva perfino a soffrire e morire per essi, e tuttavia non avviene troppo spesso che siano in netta opposizione con i propri fondamentali interessi coltivati nella vita di tutti i giorni. In ogni caso, è ben risaputo che “Abe” Lincoln – un grande presidente comunque, sia chiaro – era convinto della superiorità dei bianchi; eppure affrontò la guerra contro i “cotonieri”.

Quelli che intendono mostrarsi smaliziati fanno riferimento appunto a ciò che stava dietro (o sotto) l’ideale della liberazione dei neri dalla schiavitù: la necessità di avere a disposizione un nutrito numero di operai salariati per l’industria in sviluppo al nord. E operai salariati particolarmente a buon mercato: i neri “liberati” stavano in molte occasioni peggio, quanto a condizioni di vita, di quando erano schiavi. Non sempre riuscivano a vendere la loro merce lavorativa, la disoccupazione era alta, in specie per quelli rimasti nel sud. Indubbiamente, come già le enclosures in Inghilterra, di cui scrisse lucidamente Marx nel capitolo della sua grande opera dedicato all’accumulazione originaria del capitale, la liberazione degli schiavi degli Stati americani sudisti faceva parte di un processo similare, pur se l’accumulazione originaria, negli Stati del nord, era già avvenuta, e così pure la “rivoluzione industriale”. Tuttavia, la suddetta liberazione dalla schiavitù era misura atta a favorire ulteriormente l’industrializzazione capitalistica, non dimenticando mai tuttavia che, a certi livelli di sviluppo, non è sufficiente disporre di mano d’opera generica e grezza, ma è indispensabile che la “prostituta” abbellisca la sua merce, la renda sempre più appetibile e utilizzabile con molta flessibilità nelle mansioni che va espletando per l’“appetente” (il capitalista nel caso del salariato). Tanto più che era ancora ben lontana la svolta tayloristica e l’immediatamente successiva catena di montaggio fordista.

In ogni caso, per quanto riguarda l’importanza della formazione del lavoro salariato, cui diede appunto un contributo la liberazione degli schiavi (dai “cotonieri”) nel sud degli Stati Uniti, mi sembra che l’essenziale sia stato detto da tempo; ed anche come film, credo che un Queimada sia quanto di meglio ci sia per l’illustrazione didattica del processo. Si dice spesso che “la storia è maestra di vita”, cui molti obiettano sdegnosamente che la storia non si ripete mai negli stessi termini. Affermazione ed obiezione sono la solita solfa degli intellettuali “pierini”, molto eruditi e molto banali. E’ in realtà indispensabile conoscere i processi avvenuti in passato; semplicemente bisogna essere pure accorti nel mettere l’accento sui tratti degli stessi in grado di fornirci illuminazioni per il presente, con gli inevitabili aggiustamenti necessitati dalle trasformazioni storiche avvenute.

Quando, ad es., sostengo (e ho sostenuto fin dall’inizio) che l’attuale crisi è assimilabile a quella di fine ‘800 (durata un quarto di secolo), non intendo prevedere la ripetizione puntuale di tutte le tappe di quest’ultima. In particolare, per il momento non si nota la forte deflazione dei prezzi di allora, pur se è un po’ presto per asserire che essa non ci sarà. Nemmeno ritengo che si verifichi un continuo aggravamento delle variabili inerenti al sistema economico (produttivo e finanziario); del resto ciò non si riscontrò nemmeno nella lunga crisi di quel periodo, che vide semmai un’altalena negli andamenti di ciò che denominiamo Pil. E nemmeno per tutti i paesi, perché soprattutto quelli in crescita di potenza, tipo Usa e Giappone, si svilupparono a ritmi piuttosto sostenuti. Interessa più che altro il fatto che la tendenziale depressione economica di molti paesi era il sintomo dell’indebolirsi della centralità inglese (quanto appunto a potenza) e dell’inizio del multipolarismo che induceva s-regolazione nel sistema mondiale.

Non sono un patito del “catastrofismo anticapitalistico” che ha molte facce: quella della crisi via via più grave (fino al sempre annunciato e mai verificatosi crollo del sistema), quella dell’aggressione alla Natura con rovina dell’ambiente, quella dell’esaurimento delle risorse, e altre ancora. Per quanto ne so, il capitalismo è invece estremamente poliedrico, un polipo a mille tentacoli, mobili e avvolgenti, sempre capace di deludere e, scusate il termine, “smerdare” tutti quelli che ne hanno predetto lo sbriciolamento finale. L’unica previsione che mi sento di pronunciare è l’avvento di una fase storica di scoordinamento tra le diverse aree e paesi del mondo, caratterizzata da indebolimento delle variabili attinenti ai loro sistemi economici, con però intervalli temporali di tenuta o perfino di crescita delle stesse e con notevoli cambiamenti nei loro reciproci rapporti di prevalenza economica. L’andamento economico – che probabilmente conoscerà momenti di crac finanziario e soprattutto periodi alterni quanto a crescita dell’economia reale – sarà tuttavia il segnale dei mutamenti nei rapporti di forza, di potenza, che condurranno infine al policentrismo conflittuale sempre più acuto.

In definitiva, l’unica predizione che mi sembra possibile è quella di un crescente logoramento dell’autorità degli organismi internazionali, della “società delle nazioni” (dell’ONU). I conflitti, il disordine, il disagio complessivo nel mondo, l’eventuale politica del caos (spesso non voluta, ma obbligata dagli eventi, essi stessi caotici), ecc. saranno i segni distintivi di un’epoca che si avvierà a qualche regolamento dei conti, di cui tutte le formazioni sociali, e non soltanto quella capitalistica, hanno avuto costante bisogno nella storia. Per afferrare tale problema, bisogna formulare particolari ipotesi circa il carattere della “realtà” e la necessità del conflitto in essa, una necessità non provocata da alcuna speciale malvagità degli “attori” che lo “recitano” con convinzione; ma questo in altro ambito di ricerca, ormai in corso da tempo.

 

2. Ritorniamo alla questione principale. In tutto il mondo capitalistico avanzato, ma anche nel resto del mondo avviluppato ormai generalmente dai rapporti capitalistici, il lavoro salariato è fenomeno corrente da molto tempo. Esso potrà essere più o meno libero o invece ancora invischiato in alcuni vincoli e ostacoli che rendono meno fluida la compravendita della merce forza lavoro; in ogni caso, il carattere del lavoro è in grande prevalenza quello salariato, non più quello servile o schiavistico. Quindi, se parliamo della guerra civile americana di un secolo e mezzo fa, non ci si venga a strizzare l’occhio e a dirci: vedete come siamo furbi, abbiamo compreso che cosa stava dietro il famoso ideale della liberazione degli schiavi per la quale sostennero di combattere Lincoln e i nordisti. Se ci si limita a questo, si parla di qualcosa di ormai inerte, che non può fornirci alcun suggerimento nel presente. Si darà quindi fiato a quegli imbalsamatori di idee, che ci stoneranno la testa con il loro ritornello: la storia non insegna nulla, tutto si ripete con modalità sempre differenti.

Vi è invece un altro importante aspetto riguardo alle motivazioni di quella guerra. I sudisti, i “cotonieri”, premevano per il libero scambio del loro prodotto, venduto soprattutto agli inglesi i quali erano interessati al mercato americano per la vendita dei loro manufatti industriali. I “cotonieri” erano quindi fautori – o meglio lo erano i loro ideologi – della teoria ricardiana del libero commercio internazionale, con la sua “dimostrazione” dei vantaggi comparati goduti dai vari paesi che avessero intrattenuto i loro rapporti di scambio secondo le modalità da essa sostenute; per cui, citando l’esempio illustrato dall’economista inglese, era di reciproco interesse lo sviluppo dell’industria in Inghilterra e della produzione di vino in Portogallo. Il cotone americano faceva quindi le veci del vino. Vi fu però l’obiezione, che trovò un suo referente importante nell’economista tedesco List: se l’industria comincia a svilupparsi in fasi storiche differenti in due paesi, quella del primo dei due gode per un dato periodo di vantaggi dovuti soprattutto alle economie cosiddette interne (di scala, cioè di più ampie dimensioni produttive delle varie imprese) ed esterne, legate allo sviluppo di più imprese e settori fra loro correlati e al diffondersi di una mentalità favorevole all’imprenditorialità industriale e all’abilità lavorativa in questa sfera della produzione.

D’altra parte, appariva evidente la superiorità, quanto a potenza strategica, del paese con un’industria sviluppata rispetto a quello che si specializzava in materie prime agricole, minerarie, ecc. Il nord statunitense era perciò interessato soprattutto a questo tipo di potenza, e favorevole al protezionismo per la propria industria; non perché contrario ai principi del liberismo, ma semplicemente favorevole ad una loro sospensione per il lasso di tempo necessario al rafforzamento della “industria nascente”, che non è evidentemente processo di breve durata. Nel frattempo, gli inglesi mettevano in atto la ritorsione nei confronti dell’acquisto di cotone dagli Stati della futura Confederazione, ricorrendo sempre più all’Egitto e pure all’India per le importazioni di tale materia prima necessaria alla loro industria ormai “nata e cresciuta” di un bel po’. Questo fu il principale motivo della secessione del sud confederato e dello scoppio della guerra. In ogni caso, questo è il motivo che può consentire, con le opportune modificazioni del quadro storico generale, di trarre da quel tragico evento insegnamenti per il presente del sistema mondiale. Due modificazioni sono indubbiamente indispensabili.

In primo luogo, si deve uscire dal semplice ragionamento di tipo economicistico circa i vantaggi o meno del libero commercio internazionale. Il problema centrale di quell’epoca era la centralità inglese come potenza, che di fatto orientava e conduceva gli affari mondiali in modo conforme ai propri interessi di nazione. E tale centralità era certamente coadiuvata ampiamente dall’essere in possesso di un’industria molto più avanzata degli altri paesi. L’imprenditoria industriale pensa logicamente soprattutto ai suoi profitti (quella inglese di quell’epoca pensava quindi ai propri, che l’atteggiamento protezionistico del nord statunitense danneggiava). Il governo di un paese, agente strategico dei gruppi dominanti dello stesso (non semplicemente quelli industriali, la loro composizione è più complessa, ma non è qui possibile diffondersi in merito alla questione), è interessato al profitto solo in qualità di strumento coadiuvante, poiché il problema decisivo è appunto la preminenza nel mondo, o comunque la più estesa possibile; e del resto anche il profitto si prosciuga se si mira solo ad esso e se non esistono i suddetti agenti che ragionano “più in grande”.

Il secondo mutamento, ancora più decisivo, è che oggi l’industrializzazione è in stato avanzato in numerosi paesi; oltre a tutto vi è stata una “seconda” e di questi tempi una “terza rivoluzione industriale”. Il problema non è ovviamente più quello della discussione sullo sviluppare o meno l’“industria nascente” mediante lo strumento del protezionismo. I diversi rapporti di forza tra paesi (tra formazioni particolari), la centralità di uno o di qualcuno di essi – o invece l’avvio di una fase storica legata all’accentuarsi del conflitto (strategico) multipolare per ridiscuterla, ridimensionarla, ecc. – vedono proprio una lotta attorno alle decisioni da prendere in merito a quali settori sono più confacenti alla crescita di potenza di questo o quel paese, tenendo conto della prospettiva di un più ampio e duro regolamento di conti in futuro. Il neoliberismo odierno è l’ideologia favorevole alla pre-potenza statunitense, che pensava di avere ormai seppellito il bipolarismo nel 1991 e di poter estendere, in modo relativamente tranquillo, il suo predominio alla maggior parte del globo, mentre si trova invece ad agire nell’ambito di nuovo periodo di squassante s-coordinamento, responsabile vero dell’attuale crisi, che i banali economisti ed esperti (del piffero) pretendono sia soltanto finanziaria.

Fatte queste dovute modificazioni, quella guerra civile è di utile insegnamento. E ci porta ancora una volta a ridiscutere radicalmente le teorie neoliberiste, pregne fino all’inverosimile di un’ideologia da predominanti consapevoli negli Usa, e propalata invece in Europa da meschini sostenitori della supremazia americana; quelli che non a caso ho denominato i “nuovi cotonieri” con il loro ceto intellettuale pieno zeppo di tirapiedi. Vi sono pure esperti e tecnici che hanno senza dubbio una loro preparazione “professionale”, ma sono di una ristrettezza mentale e di un’intelligenza talmente superficiale delle cose da essere ormai molto pericolosi per le sorti di quest’area mondiale in piena decadenza. Gli Usa divennero una grande potenza – che, nel giro di 80 anni, conquistò la prevalenza nel mondo – perché schiacciò il sud “cotoniero”, lo insanguinò, ne distrusse ogni vestigia di lusso nelle abitazioni, di raffinatezza nel vivere sociale (da “nobili” comunque parvenus), ecc. Sarebbe indubbiamente interessante seguire lo sviluppo statunitense successivo alla guerra, che vide, alla fin fine, svilupparsi ampiamente il nuovo sistema dei funzionari del capitale in alcuni decisivi Stati del sud, fenomeno coadiutore dell’emergere impetuoso della nuova formazione sociale anche nel nord, in un primo tempo culla, nel New England, di un evidentemente gracile capitalismo borghese più simile a quello europeo.

 

3. Abbiamo quindi almeno alcuni elementi per meglio valutare e comprendere il periodo storico susseguente alla seconda guerra mondiale. La convinzione della “costruzione del socialismo” e la formazione di un gruppo di paesi la cui dirigenza fu portatrice di una simile ideologia seguita da una determinata politica – politica e ideologia che, negli anni tra le due guerre, avevano consentito una velocissima accumulazione originaria in Urss, tanto da renderla una delle due grandi (super)potenze mondiali – contribuì alla formazione del mondo bipolare. L’altro polo, quello detto capitalistico (“occidentale”), fu dominato e relativamente coordinato – come sempre quando esiste in una vasta area una situazione di monocentrismo – dalla (super)potenza statunitense. Il polo “socialista” si bloccò e fu incapace di vero sviluppo (a parte l’eccezione della Cina). La rigidità della struttura politica sovietica non fu più in grado di rendere i servigi degli anni ’30 (grande trasferimento di risorse, materiali e umane, dall’agricoltura all’industria) e bloccò infine lo sviluppo dell’intero “campo” (Urss in testa), anche perché alla cristallizzazione della sfera politica si pretendeva di far seguire pure quella sociale, con la “Classe” (operaia in senso stretto) dichiarata, e solo dichiarata, il nucleo dell’apparato direttivo del paese, con l’unico risultato di creare un enorme malcontento nel ceto medio (manageriale, professionale, ecc.) in forte crescita come in qualsiasi paese soggetto all’industrializzazione, al contrario di quanto erroneamente previsto dal marxismo (per Marx il discorso è diverso e il suo errore è già stato illustrato in altra sede, ma varrà la pena di riprenderlo in considerazione).

Nel campo detto capitalistico sussisteva invece una società dinamica, nata dalla fine del capitalismo borghese (che aveva limiti di capacità di sviluppo avendo fatto della famiglia, e dell’acquisizione di tratti simil-nobili, un elemento rilevante degli interessi capitalistici) e dall’affermazione, ormai da molto tempo invero, di quello dei funzionari del capitale, più selvaggio, energetico, anche individualmente incline al crimine, fermo restando che le lotte di potere tra gruppi dominanti (e non solo quelli capitalistici) hanno sempre tale carattere, differenziandosi solo per le finalità del comportamento delinquenziale: alti obiettivi o meschini “affarucci di bottega”. Al centro di tale campo stavano gli Usa con la loro strapotenza; ciò non impediva impetuosi sviluppi di altri paesi (in particolare del Giappone), con conseguenti squilibri nei loro reciproci rapporti, squilibri contenuti dall’azione predominante statunitense, da cui derivavano quindi semplici “eruzioni” di tipo economico – meno virulente e meglio controllabili delle crisi precedenti – ribattezzate recessioni.

Dopo la sostanziale sparizione del “socialismo”, ed un breve periodo di illusione circa una nuova centralità pienamente globale degli Usa – comunque imperfetta per la presenza della Cina – si è dovuto prendere atto che l’unica (super)potenza rimasta continua certamente a possedere una forza (dedita alle aggressioni e alla criminalità internazionale) di qualche gradino superiore ai possibili concorrenti, ma non a quel livello tale da consentire il prolungamento al mondo intero della relativa regolazione del sistema, da cui potrebbe conseguire il prodursi di semplici recessioni. Oggi siamo invece entrati in quella fase che, per certi versi, va paragonata alla lunga depressione di fine ‘800 poiché, come allora, è l’effetto di un più incisivo squilibrio, con scoordinamento delle varie parti del sistema globale, che condurrà al policentrismo conflittuale attraverso un’epoca di scaramucce, di minori guerre d’area, di sovvertimenti dell’ordine interno in una serie di paesi considerati in posizione adeguata a creare difficoltà per le potenze in nuce che vanno crescendo di contro agli Stati Uniti. Si tratta per questi ultimi di prendere tempo, di escogitare nuove strategie con strumentazioni adeguate a svolgerle, onde contrastare i competitori (anche quelli ancora potenziali) e cercare di vincere “la gara” per l’acquisizione di una nuova centralità solitaria.

L’ideologia di questo tentativo è appunto il neoliberismo, con versioni sempre più “raffinate” – cioè soltanto più complicate matematicamente e dunque in qualche misura “esoteriche” – del solito libero commercio internazionale, che comporterebbe vantaggi per tutti i suoi partecipanti. Gli organismi internazionali – dall’Onu a quelli più specialistici come il WTO, il FMI, la Banca Mondiale (BIRS e IDA), ecc. – mostrano pienamente oggi, una volta dissoltosi il bipolarismo, d’essere soltanto strumenti dell’interesse americano al monocentrismo. Non parliamo poi del patto militare Nato e di altri organismi inter-paesi in area asiatica. Tuttavia, ci interessa in modo particolare quel sistema di apparati detti UE, perché sono precipuamente dediti non solo all’ideologia, ma alla pratica attuazione del “libero scambio” nella zona di nostra pertinenza, quell’area in cui l’Italia si trova specialmente vessata da tale pratica e da tale ideologia.

E’ evidente che al presente, in un sistema mondiale con numerosi paesi ormai ampiamente industrializzati, non sarebbe possibile ripetere pari pari la polemica tra ricardiani e listiani in merito ai rapporti tra un paese predominante centrale già industrializzato e quelli da cui esso pretenderebbe d’essere rifornito di prodotti agrari e minerari, mentre alcuni di questi premono invece in direzione dello sviluppo industriale. Nemmeno avrebbe senso riproporre lo stesso protezionismo temporaneo voluto dai nordisti americani (e dagli industriali germanici in contrapposizione agli Junker prussiani).

Non a caso, alcuni anni fa, Tremonti propose di proteggerci dall’importazione di una serie di prodotti cinesi, che mettevano in crisi alcuni nostri settori. Si trattava però di giocattoli o di prodotti per la casa o di vestiario e altre quisquilie. Si sarebbero quindi protetti proprio alcuni settori “ultracotonieri” (cioè nient’affatto decisivi e strategici per la nostra economia né tanto meno catalogabili quale “industria nascente”); e ci si sarebbe prestati a ritorsioni cinesi nei confronti di nostre imprese di ben diverso calibro e importanza. Senza infine considerare che non si sarebbe mai trattato di un protezionismo temporaneo, come quello proposto da List, perché tali settori, in cui i costi salariali hanno (e continueranno ad avere) un notevole peso, non potranno mai divenire competitivi fino a quando la Cina non avrà raggiunto un tenore di vita medio comparabile al nostro. Insomma, la proposta tremontiana era l’esatto contrario del protezionismo preteso dal Nord degli Usa e cui seguì infine la guerra di secessione.

 

4. In conclusione, qual è la lezione da trarre dall’evento storico del 1861-65? E’ necessario schiacciare i “cotonieri” e disperdere il loro potere. Qui si apre un discorso complicato, che non si potrà esaurire in poco tempo e poche pagine, e che dovrà trovare nuove vie, soprattutto finalmente non economicistiche; perché tale fu, in definitiva, anche il dibattito tra ricardiani e listiani. Non esiste più la configurazione internazionale di allora: un paese in cui si era completata la prima rivoluzione industriale mentre in altri – soprattutto Usa, Germania e subito dopo Giappone – si mettevano comunque in moto robusti processi di industrializzazione che dovevano tuttavia essere temporaneamente favoriti mediante il protezionismo. Al presente, i paesi fra loro in competizione, fra i quali il più forte resta ancora quello d’oltreoceano, sono tutti dotati di apparati industriali sviluppati; sono paesi in cui è andato anzi crescendo, fino a prendere il sopravvento, il cosiddetto terziario (e oggi si parla perfino di quaternario), che fornisce servizi, anche tradizionali ma ormai sempre più di tipo avanzato, al primario e soprattutto al secondario.

Il neoliberismo non vuol dunque salvaguardare il primato industriale del paese predominante (o dei paesi preminenti in lotta fra loro per la supremazia globale) semplicemente sostenendo con somma ipocrisia la necessità di rispettare le regole di un presunto libero mercato (la smithiana “mano invisibile”, già criticata da personaggi del calibro di Chandler e altri). I neoliberisti fingono di essere contrari all’intervento statale, ma poi sanno benissimo che esso sussiste e non può non sussistere nell’epoca attuale. Si limitano a fingere che gli organismi internazionali agiscano veramente da mediatori o addirittura in funzione di cooperazione tra i molti paesi componenti, sapendo bene che invece garantiscono, dietro la facciata “collettiva”, il predominio di uno d’essi, mentre altri tentano di liberarsene o di limitarlo. Il neoliberismo gioca in favore della prepotenza statunitense, appellandosi al principio della “libera” concorrenza mercantile globale, che comporterebbe vantaggi per tutti, un principio del tutto inesistente, immaginario e non applicato né applicabile.

Oggi è nel sistema internazionale, quello della globalizzazione del preteso libero mercato, che si forma la contrapposizione tra settori capitalistici di punta e settori di passate epoche dell’industrializzazione, una contrapposizione che sembra ripetere, “ad un livello superiore” di sviluppo, quella tra industria e “cotonieri” dell’epoca della guerra civile americana. Non è esattamente così, lo si sarebbe potuto comprendere già allora, mostrando attenzione alla storia successiva alla guerra. Fra i settori industriali che la promossero ci furono quelli del New England, sede di un capitalismo affine a quello borghese conosciuto nella nostra area europea. Alcuni autori (si pensi a Veblen) interpretarono lo sviluppo successivo come se fosse simile al nostro, parlarono di supremazia della “classe agiata”, quasi signorile, come il marxismo parlò di affermazione dei rentier, di parassitismo crescente, di blocco dello sviluppo delle forze produttive, di progressivo assorbimento dei dirigenti della produzione (i manager) nella “classe dei salariati” (produttivi), il “soggetto” di un possibile rovesciamento del capitalismo. Nient’affatto; negli Usa – e nel sud non meno che nel nord – si affermò un nuovo capitalismo centrato sui settori della seconda rivoluzione industriale e delle nuove industrie energetiche (in specie del petrolio) con un profondo mutamento strutturale che fu teorizzato molto più tardi con le tesi della rivoluzione manageriale, in cui i manager (proprietà o meno che avessero dei mezzi di produzione) erano i veri funzionari del capitale, e  non finanzieri, non quasi signori.

Il problema che si pone nel mondo già ampiamente industrializzato è innanzitutto l’articolazione tra i settori produttivi più avanzati (non semplicemente la finanza, strumento d’attuazione di date politiche, pur se certamente strumento assai duttile e flessibile, e dotato della sua apparente autonomia gestita da chi senza dubbio ne vuol godere i frutti), cioè i settori delle ultime innovazioni (soprattutto di prodotto), e quelli di passate fasi innovative. Il neoliberismo attuale, con le menzogne circa la globalizzazione del libero mercato, tende a favorire un’articolazione concernente diversi paesi, diverse aree, diverse formazioni particolari. Diciamo, approssimativamente: industria dell’ultima tornata innovativa nel paese di cui si vuol imporre la supremazia, industria di passati stadi di sviluppo (quella che si può, con qualche analogia da prendere cum grano salis, paragonare ai “cotonieri” del sud degli Usa per gran parte dell’800) in altri paesi. Sia chiaro, tuttavia, che l’interrelazione – da predominante a subordinato (o almeno subdominante) – sussiste pur sempre anche all’interno del sistema industriale di ogni paese; ma non è quella più significativa, quella che segnala e orienta la lotta internazionale tra paesi diversi per la supremazia o per la limitazione della stessa, in quella data congiuntura posseduta dal più (pre)potente d’essi.

I paesi (o settori produttivi interni ad un paese) subordinati o subdominanti sono pervasi da libidine di servilismo? No, sono servi ma perché ne hanno un preciso vantaggio, così come lo avevano i cotonieri sudisti americani nei loro rapporti commerciali con l’Inghilterra. E’ nell’interesse di ampi strati imprenditoriali subdominanti legarsi ad un paese predominante, in cui si concentrano i più avanzati settori industriali e dei servizi, specializzandosi invece in prodotti industriali di complemento, di interesse comune per la vita delle società odierne (alimentari, di vestiario, anche di macchinari vari, ecc.) nonché in servizi più tradizionali, tipo quelli che alimentano il turismo, ecc. Tutto sommato questa divisione dei compiti ha similitudini con quella tra manufatti tessili in Inghilterra e vino in Portogallo, di ricardiana memoria.

 

5. Non è però questo l’aspetto più interessante e cruciale della questione, che il neoliberismo occulta. Un aspetto che d’altronde non viene posto in luce da nessun tipo di economicismo, nemmeno da quello dell’antagonista del liberismo, interno alla stessa teoria (ideologia) dei dominanti, il keynesismo; e nemmeno dal marxismo inteso quale semplice critica delle teorie economiche “ufficiali” (accademiche). Ci si ricordi sempre che in realtà la critica dell’economia politica, nel suo più autentico significato marxiano, vuole essere comunque una teoria della società, sia pure elaborata assegnando la preminenza ai rapporti sociali di produzione, quindi a quelli sussistenti nella sfera economica della società; i rapporti, cioè, tra le maschere sociali (funzioni e ruoli dei diversi “gruppi o classi di soggetti”) in gioco nella suddetta sfera, in quella produttiva soprattutto. Oggi però questo non basta più, oggi capiamo che tale critica incorre in pesanti limiti e viene perciò facilmente ridotta a gretto economicismo (certamente da pseudo-marxisti che prendono Marx per economista, tanto ignoranti e falsificatori della sua teoria quanto altri che lo trattano da filosofo).

I gruppi dominanti, sia pure in una società capitalistica in cui l’economia prende il davanti della scena, sono un intreccio complesso di agenti – attuanti la politica in quanto sequenza di mosse strategiche – negli apparati della politica (al cui vertice stanno quelli dello Stato), dell’economia (imprese soprattutto) e ideologico-culturali. L’unica distinzione da porsi riguardo alla formazione sociale capitalistica è l’estensione della politica, e dunque del conflitto tra strategie per conquistare la supremazia, dalle sfere politica e ideologica a quella economica. E’ stata però una forzatura vedere negli agenti in quest’ultima sfera i più decisivi “soggetti” delle vicende sociali e politiche. Certamente, la lotta si combatteva, anche nell’idea che ne aveva Marx, nelle cosiddette sovrastrutture (appunto politico-ideologiche), ma gli interessi decisivi in gioco erano quelli degli agenti economici: sia dominanti (i capitalisti proprietari) sia dominati (la “classe operaia”).

Non è esattamente così; tali interessi (con le loro “rivestiture” ideologiche) sono espressione di gruppi “misti” di agenti, dove la preminenza di quelli di un tipo o dell’altro (economico o invece politico o ideologico, ecc.) non è stabilita in modo permanente e definitivo; e del resto le diverse tipologie possono caratterizzare contemporaneamente molti dei “soggetti empiricamente concreti” in lotta. E’ in quest’ambito che si può trarre forse, con cautela, una determinata lezione dagli eventi del genere della guerra civile americana. Qual è il suo aspetto più istruttivo per la storia dei nostri tempi? L’abbiamo detto: non tanto la liberazione degli schiavi per avere il lavoro salariato (problema senz’altro cruciale nella transizione dal feudalesimo al capitalismo), bensì la decisa sconfitta dei liberisti del sud intenzionati a contrastare il protezionismo necessario all’irrobustimento dell’industria del nord, ancora in temporaneo ritardo rispetto a quella inglese, partita assai prima con tutti i vantaggi legati alla precedenza (economie interne, esterne, ecc.). E’ tuttavia indispensabile apportare alcune ulteriori qualificazioni altrimenti si torna oggi al deleterio, pernicioso, liberismo, propagandato da venditori di fumo che passano per “tecnici” ed “esperti”.

Nell’epoca di una ormai molto avanzata industrializzazione, intanto, i “cotonieri” sono i gruppi imprenditoriali che guidano le unità produttive tipiche di passate fasi di industrializzazione. Essi tendono a stabilire compromessi in base alla complementarietà delle proprie produzioni con quelle di sistemi economici afferenti a paesi in mano a gruppi (strategici) mondialmente predominanti, oggi in sostanza i gruppi predominanti negli Usa. Complementarietà non significa ridursi alla produzione di materie prime (com’era il cotone necessario all’industria inglese dell’‘800) o di parti dei beni – o all’installazione di determinati processi lavorativi – in mera funzione sussidiaria ai bisogni, industriali ma anche più complessivamente sociali, del sistema predominante. Significa innanzitutto che i subdominanti (o addirittura subordinati) si accontentano di riservarsi produzioni industriali necessarie per la vita associata nella nostra epoca storica, ormai però “mature”, di fasi innovative industriali precedenti; indispensabili comunque, ma non più così decisive per imporre la supremazia industriale, e non soltanto industriale, di un paese.

Si tratta di auto, elettrodomestici, macchine utensili varie, costruzioni immobiliari (che rappresentano sempre una grossa quota del prodotto nazionale), strumentazioni per la moderna coltivazione agricola, industria alimentare, apprestamento di infrastrutture di collegamento e trasporto di merci e persone, messa in opera di servizi vari per l’accoglimento (anche turistico o altro), e ancor più per un servizio ormai indispensabile come quello sanitario (pubblico o privato), per il più vecchio servizio di istruzione, per lo sport, ecc. Il sistema dominante si riserva la quota di gran lunga maggiore delle produzioni più avanzate al fine di condurre, in quella data epoca storica, un’efficace lotta per l’affermazione della propria preminenza, difende la propria superiorità nei settori della nuova rivoluzione industriale (informatica ed elettronica, aerospaziale, biotecnologie e via dicendo) e in tutti i servizi che con simili produzioni possono essere messi in piedi onde migliorare in generale il sistema produttivo e commerciale complessivo nonché gli stessi servizi più tradizionali.

Lo sviluppo industriale, e con successive ondate innovative, è fondamentale quale strumento di preminenza nella lotta tra gruppi – che in tale ambito si allarga al contrasto tra paesi e nazioni – per prevalere in aree mondiali via via più allargate. Mantenere la preminenza nei settori delle ultime fasi innovative non è semplice finalità guidata dalla sete dei profitti da accumulare (quale novello Arpagone) ma volontà di prevalere nel potere. Non però per semplice smania di potenza, perché detenere il massimo potere sarebbe “bello”. Anche tale bellezza, anche l’ideologia (che trova a volte alte espressioni artistiche) che la canta e glorifica, hanno un carattere strumentale. Per quanto possa sembrare limitativo, il potere è necessario per restare a galla. Nello squilibrio incessante del mondo in cui viviamo, qualsiasi debolezza (o rinuncia a lottare) conduce alla passività e al lasciarsi trasportare inerti dallo scorrere del fluido squilibrante.

Si viene così dirottati in una corrente secondaria con sbocchi imprevisti o in un’altra resa via via più debole fino ad impantanarsi, lasciando il trascinato a disseccare tutto incrostato di fango. La maggior parte dei “soggetti” intende reagire, tanto più che non conosce il fluido. Ognuno d’essi crede che le proprie difficoltà nel restare a galla dipendano dalla perfida azione di altri. Ognuno trova però amicizie, alleanze, più o meno interessate e si decide perciò ad affrontare chi cerca di perderlo per trionfare sulla sua sconfitta. E nasce così il conflitto, l’ergersi dei “soggetti” ad attori sulla scena dello stesso con tutto ciò che ne segue e “fa la storia”, “è la storia”.

Sciocco è quindi colui che crede di potersi esimere dal considerare con attenzione il passato, soprattutto gli eventi conflittuali che si sono già verificati, le loro modalità di svolgimento, i loro effetti che spesso, quando sono particolarmente rilevanti, servono da base e punto di partenza per nuovi conflitti, di cui allora si tenta – se riguardano il futuro – di afferrare il decorso e lo sbocco. Sciocco è però anche colui che pensa di poter dare un’interpretazione esaustiva del passato e di costruire un’adeguata previsione per il futuro. Per interpretare e per prevedere, siamo obbligati a fissare alcune tappe del decorso, quindi a fermare lo scorrere incessante del fluido squilibrante; e non lo si ferma se non “schematizzandolo”, cercando di tracciarne uno schizzo servendosi di un numero limitato delle sue linee di scorrimento; per di più sempre tradotte nel pensiero, sempre immaginate, ipotizzando di aver compiuto l’operazione senza gravi errori ed omissioni.

Non abbiamo lenze ed esche; sempre afferriamo con le mani il pesce che guizza nell’acqua e sempre, dopo una prima eventuale presa corretta, questo sguscerà nuovamente lontano. Non saremo mai in grado di sostare sulla sponda a imbastire un bel fuocherello per cuocerlo, mangiarlo e finalmente sentirci saziati almeno fino al prossimo morso della fame. Avremo sempre fame, dovremo di quando in quando – mentre scendiamo il fiume inseguendo i pesci che cacciamo e che talvolta prendiamo con le mani lasciandoceli però sgusciare continuamente dalle stesse – mangiare un po’ d’erba o di quel che troviamo sulla riva per calmare del tutto irrisoriamente e brevemente gli incessanti spasmi dello stomaco; e senza mai fermarci, correndo ad inseguire la corrente e i pesci che vi nuotano, ogni tanto scagliando scintillii dalle loro squame come a dirci: siamo qua, vieni e ci prendi. E ci sono gli altri “soggetti” che si comportano egualmente; e li si vuole precedere, si pretende di riuscirci, in una lotta mai veramente finita né mai risolta definitivamente con il successo di qualcuno, nemmeno quando uno dei “soggetti” in lotta ne è convinto e, tutto tronfio, dichiara d’essere il vero vincitore….. di che?

6. Sembra che mi sia un po’ disperso, ma non è proprio così. Nella lotta tra gruppi predominanti, quando questa s’intreccia e si allarga al confronto tra più paesi per assumere posizioni di preminenza gli uni nei confronti degli altri, i più potenti o il più potente – data la rilevanza che ha nel mondo capitalistico lo strumento rappresentato dal sistema industriale – lottano per mantenere la superiorità nei settori più avanzati e innovativi; importanti, soprattutto, per ogni tipo di confronto che si svolga in tempo di “pace”, con la consapevolezza che questo può, e a volte deve, tramutarsi in tempo di aperto urto bellico. Durante la “pace”, si usano intanto per il conflitto gli apparati dell’informazione e una serie di manovre corruttrici di vario genere che devono essere coperte. Quando vengono invece a galla, ciò vuol dire che altri gruppi dominanti stanno prevalendo e riescono a suonare la grancassa sulla corruzione dei perdenti, i quali non hanno la stessa potenzialità per reagire e mettere in luce l’identico comportamento degli altri. La magistratura, negli ultimi decenni, è divenuta arma specialmente pericolosa al servizio della lotta tra tali gruppi dominanti.

Più fondamentali sono tuttavia i Servizi (l’Intelligence) perché di fatto infiltrano e orientano media e magistratura (si pensi all’esemplare caso di “mani pulite” e al “grande inquisitore” Di Pietro). Essi sono però ben più decisivi per le operazioni verso l’esterno: spionaggio, corruzione e “acquisto” di personaggi di rilievo nella politica, nell’economia, nei media, nell’organizzazione (ben finanziata) di “Istituti culturali”, in paesi altri da sottomettere alla propria influenza; e nello stesso tempo servono a contrastare analoghe operazioni compiute dai Servizi di altri paesi sul proprio territorio. Anche i corpi armati hanno importanza nella lotta che si svolge in tempo di “pace”. Quelli di “polizia interna” non hanno bisogno di molte delucidazioni. Particolare peso rivestono gli apparati militari per la “difesa della nazione”. Essi hanno in realtà funzioni aggressive, che in tempo di pace si limitano a minacce, pressioni, contatti e corruzione di capi militari di altri eserciti, servizio di spionaggio in proprio, ecc. Fondamentali, insostituibili, diventano poi quando “la politica continua con la guerra”, quando s’impone la resa dei conti armi alla mano.

Al di sopra di tutto sta in ogni caso la politica, nel senso già più volte considerato. Tale attività, suprema produttrice del potere, viene svolta da centri strategici in cui si intrecciano rappresentanti di tutti gli apparati coinvolti nella lotta per la supremazia, sia in “pace” che in “guerra”. E’ in quest’ambito, di svolgimento delle strategie della lotta, che gli attori più potenti tendono ad imporre quella distribuzione intersettoriale dell’industria secondo quanto appena sopra rilevato. Ai predominanti i settori dell’ultima fase innovativa, più immediatamente e fortemente coadiutori delle strategie di lotta sia in “pace” (informazione, spionaggio, corruzione, persecuzione giudiziaria, omicidio “mirato”, ecc.) che in “guerra” (potenza delle armi, migliore efficacia e precisione nel compiere azioni distruttive, mezzi per una maggiore mobilità delle truppe, rifornimenti energetici rapidi, strumenti difensivi e soprattutto offensivi guidati da lontano senza operatori a bordo, ecc.). Agli altri paesi, si consentono i settori di passate fasi industriali, pur sempre fondamentali non solo per la comune vita organizzata in una società moderna ma anche per il conflitto: e sia in pace che in guerra, poiché si deve sopravvivere in entrambe le situazioni.

Due sono le considerazioni da fare. Innanzitutto, poiché anche questi ultimi settori sono indispensabili alla vita sociale, è d’obbligo che dati paesi siano resi subordinati a quelli che si riservano i settori di maggiore rilievo strategico. La subordinazione può essere ottenuta solo in due modi: con aperta e formale sottomissione, e spesso vera occupazione, di date aree territoriali onde gestire in proprio (da parte del paese predominante) le risorse necessarie; oppure giocando sugli interessi dell’imprenditoria dei settori di supporto (chiamiamoli così) nei paesi resi fornitori di quelli (o quello) predominanti, quell’imprenditoria che, per analogia, denomino dei “cotonieri” (spero sia chiaro il contenuto della denominazione). Si deve lasciare allora a questi ultimi una funzione di subdominanza (subordinazione al paese predominante e dominanza all’interno del proprio sugli altri strati sociali); dev’essere in ogni caso impedita l’ascesa alla preminenza di settori imprenditoriali in grado di lanciare un’industrializzazione dell’ultima fase innovativa, entrando così in competizione con i settori avanzati del paese predominante.

In secondo luogo, va ricordato che non è sempre necessario arrivare al blocco dello sviluppo di ogni impresa strategica nel paese subdominante. Decisivo è che il predominante riesca, tramite i suoi apparati – intanto quelli della lotta in tempo di “pace” – a intervenire sui centri del potere in azione nel subdominante onde favorire in essi la netta prevalenza degli agenti economici, politici, ideologici, facenti parte del blocco dei “cotonieri”. Gli agenti dei settori di potenziale competizione con il predominante devono essere o schiacciati ed eliminati (mettiamo, per caso, Mattei), anche se l’eliminazione non basta ed è utile avere pronti determinati opportunisti che ne prendano il posto. Spesso si pongono invece in essere più sottili operazioni condotte da vari furfanti, riveriti quali tecnici ed “esperti” dai subdominanti di un paese, che mettono in luce l’antieconomicità di certi settori o imprese di carattere strategico (com’era antieconomica, per i liberisti ricardiani, l’industria nascente nel nord degli Usa, che non a caso pretendeva il protezionismo contro quella inglese poiché produceva a costi maggiori di quest’ultima) oppure l’utilità di dismissioni di imprese decisive per la propria potenza con la scusa di introitare di che saldare debiti e deficit “pubblici”, e tante altre motivazioni che sarebbe inutile elencare tanto è fervida la fantasia dei farabutti al servizio dei subdominanti affinché possano vendersi a prezzo accettabile ai predominanti.

In certi casi, però, una piccola quota di settori e imprese strategici, opportunamente indeboliti (vedi attacchi giudiziari alla Finmeccanica e, proprio in questi giorni, all’Eni), può essere mantenuta come mascheramento della subordinazione a centri di potere stranieri, profittevole per i “cotonieri”. L’importante è che il potere spetti a questi ultimi, non sfugga loro di mano; e a ciò concorrono pure opportune operazioni dei predominanti, favorite e appoggiate dagli apparati dei subdominanti (metti caso, nell’aggressione alla Libia, ecc.).

 

7. E’ indispensabile fare sempre attenzione a non invertire i rapporti di causa ed effetto, di fenomeno più rilevante e originario e fenomeno derivato e di peso minore (ma mai irrisorio). Non è facile resistere alla tentazione di giudicare più decisivo quanto appare più evidente ad una considerazione immediatistica dei processi evolutivi, ad una loro presa d’atto sensistica e scarsamente impegnata in una più faticosa riflessione che richiede tempo, pazienza e, se necessario, un certo periodo di apparente immobilismo; così ostico per chi deve sempre agire, anche a costo di non pensare.

Nel sistema capitalistico, la sfera economica nella sua veste di produzione di tutto ciò che è indispensabile al funzionamento di una società, ha acquisito una grande e visibile rilevanza; gli agenti che si muovono in detta sfera sono spesso i “più ricchi cittadini”, e ostentano spesso ciò che possiedono. D’altra parte, si producono merci e vi è quindi continua circolazione di denaro; se la produzione non si traduce in vendita, in ricavo di questo mezzo cruciale con cui poter continuare a produrre acquistando i “fattori” a ciò necessari, anch’essi ovviamente merci, il ciclo s’interrompe e tutto decade rapidamente. I sensi ci dicono quindi che il vero potere è nella sfera economica; se non si produce, non ci si può arricchire, non si hanno perciò i mezzi per influire sul potere annidato negli apparati politici (nello Stato in primis). D’altronde, per realizzare una qualsiasi produzione, bisogna acquistarne i fattori che sono merci, scambiabili con denaro (o facente funzione); dunque, chi detiene il mezzo d’acquisto, il “liquido”, detiene il massimo potere. Questi i ragionamenti dei “sensisti”.

O si crede alla fatalità del “libero scambio” – che tanti vantaggi apporterebbe al mitico “consumatore” – e allora si è obbligati ad accettare, come un terremoto o un temporale in natura, che ogni tanto qualche grave malattia colpisca la sfera economica, a partire principalmente da quella della circolazione monetaria; oppure si pensa che ogni malanno sia provocato dalla protervia dei potenti (dei capitalisti) e allora si individuano i più potenti, e maligni fra questi, nei finanzieri. Qualcuno arriva a concepire che la massima aspirazione dell’uomo è il possesso del potere, ancor più dell’accumulo di ricchezza; e allora attribuisce il potere supremo a chi può farsi strada corrompendo e acquistando i servigi dei segugi che lo condurranno al fine agognato. Ancora una volta, alla fin fine, il denaro diventa il vero arbitro del potere.

L’abbiamo detto molte volte: siamo immersi in un flusso tumultuoso e caotico. Pur se ne prendiamo consapevolezza, non possiamo non ritenere che l’urto contro gli altri “soggetti”, che in esso pure si muovono, ha su di noi effetti di squilibrio; diventa dunque indispensabile confliggere con loro per tentare di tenersi in piedi. Naturalmente, ci appoggiamo spesso ad alcuni, stringendo con loro una cintura di braccia allacciate per difendersi dagli altri, per urtare e spingere gli altri: che si levino di torno, che non ci facciano inciampare e cadere. Per conseguire un migliore risultato, è utile immettere nel fluido un qualche materiale che ne renda quieta e maggiormente ordinata una parte, che crei cioè una sorta di campo, relativamente piano e scorrevole, da cui poter lanciare se necessario attacchi verso chi riteniamo avversario da sottomettere ai bisogni della nostra stabilità e sicurezza. Facciamo l’esempio di quando in un mare in burrasca vi si versava olio. Solo una sezione si “calmava” e solo per un sottile strato superficiale; sotto continuava la tempesta. Tuttavia, trovandosi in quella situazione, si poteva manovrare meglio la nave ed eventualmente puntare le proprie batterie contro navi avversarie con più alta precisione di tiro.

Ammettiamo pure che l’olio sia il denaro. Esso però va trasportato in dati recipienti e poi versato in mare non alla rinfusa, ma con una qualche idea del risultato che si vuol ottenere, di quale campo di relativa stabilità si desidera godere. Occorrono opportuni strumenti per versarlo in mare secondo le desiderate direzioni, confacenti ad ottenere il più efficace risultato, il più esteso e meglio situato campo stabile in relazione ai bisogni del successo nel conflitto per la supremazia. Occorrono cioè delle strategie, dunque una politica. Ad Azincourt, nel giorno di S. Crispino del 1415, una torpida armata francese, con troppi capi, dimostratisi tutti più o meno inetti strategicamente, perse di fronte ad Enrico V malgrado fosse tra il doppio e il triplo più numerosa degli inglesi e con una poderosa (sulla carta) cavalleria. Un fulgido esempio di come la strategia – in quel caso militare, ma più spesso, in tempo di “pace”, politica – riesca a sopravanzare i mezzi impiegati per la sua esecuzione. Ovviamente senza esagerare, senza credere che con le semplici idee si vincano battaglie e guerre, si pieghino gli avversari alle proprie decisioni e interessi.

Osservando quanto avviene nel mondo, e nel nostro povero paese, non intendo sostenere che si possa ignorare il problema della finanza e ancor meno di come si configura, e va mutando di configurazione, la relazione intersettoriale tra imprese impegnate in produzioni attinenti alle varie fasi (ed epoche innovative) dell’industrializzazione. Si tenga conto, tuttavia, che la battaglia tra i diversi paesi, pur usando strumenti vari, mira pur sempre alla creazione di sfere d’influenza (i campi di stabilità di cui sopra), utilizzando una serie di strategie, che possono essere di una certa tipologia (e poste in una certa sequenza di mosse) in date aree mondiali e di una diversa in altre. Sembra, ad es. (ma è problema da studiare meglio), che gli Usa impieghino una strategia nell’area del Pacifico e una almeno parzialmente diversa nella zona alla quale siamo interessati pure noi italiani.

L’Italia non ha la forza per impostare l’acquisizione di una sfera d’influenza di un qualche rilievo strategico? Mi sembra del tutto sensato pensarlo. Tuttavia, non per questo è obbligata a divenire terreno di scorribande e conquiste da parte di predominanti, che hanno nel nostro paese quinte colonne nelle più alte autorità della sfera politica e nei “cotonieri”, ormai dilaganti come cavallette; nel mentre languono, certo anche per debolezza e incapacità delle loro dirigenze, i pochi settori e imprese un tempo dotati di buona forza competitiva verso chi oggi ci tratta da perfetti servi obbedienti. Un paese minore – nella nuova epoca tendenzialmente multipolare che s’apre – ha comunque possibilità strategiche non nulle. E noi invece siamo precisamente nulli!

 

8. Un’ultima notazione e poi lascio tutti a riflettere al nostro avverso “destino” (in realtà al nostro abissale servilismo). Un’altra superficialità di tipo sensistico, che abbindola sempre tutti (o quasi) i commentatori, magari pur critici e muniti delle migliori intenzioni, è quella che spinge a pensare alla politica come sempre manovrata da chi la paga. Solo come esempio, cito alcuni eventi di grande portata verificatisi nel ‘900. Lenin nel guidare la rivoluzione bolscevica sarebbe stato abbondantemente “unto” di denaro dagli imperialisti tedeschi. Mussolini serviva interessi degli agrari e dei finanzieri, Hitler quelli di Krupp e di altri industriali di settori che poi si misero a produrre armi a bizzeffe. Fesserie pressoché infantili. I soldi si prendono sempre chiunque sia a darli; anche se costui ovviamente li darà perché ritiene di ottenere dei vantaggi da quei determinati eventi. Tuttavia, ciò che conta è l’uso che ne fa chi li prende, quale tipo di processo di trasformazione pone in atto e quali obiettivi persegue.

Ci sono indubbiamente politicanti, a volte interi ceti sedicenti politici (come quello odierno in Italia), che non hanno alcuna autonomia, né di pensiero né d’azione. Si tratta di miserabili che perseguono un loro ristretto interesse di riscuotitori della “paghetta”, che “cotonieri” e finanza italiana e internazionale attribuisce loro per i bassi servizi di “amministratori” della riduzione del paese ad appendice del sistema politico ed economico statunitense. L’unico che persegua interessi suoi nel senso proprio del termine, non di semplice “paga” del servizio reso ad altri (italiani e stranieri), è Berlusconi. E con lui dunque si sprecano i “conflitti d’interesse”, l’essere immorale e corrotto, ecc. Egli è certo indifferente all’andamento effettivo del paese, bada ovviamente al suo tornaconto; non però nel senso del ricevere dagli agenti subordinati (o subdominanti) della sfera economica (italiana e straniera) pagamenti vari, bensì cercando di non perdere la sua influenza politica al fine di salvaguardare la propria buona posizione in questa sfera.

Gli agenti economici – e quelli ideologici di basso rango da questi pagati; oggi quasi tutti quelli attivi in Italia – hanno in genere un concetto relativamente ristretto della politica (quella strategica). La considerano in funzione degli interessi della propria impresa o gruppo d’imprese o anche di interi settori, ma sempre quelli che in qualche modo convergono nella loro attività complessiva con l’ampliamento del proprio gruppo. Ci sono casi particolari, eccezioni, quando l’imprenditore si lancia in un nuovo settore d’avanguardia (di quelli da considerarsi strategici per la forza di un paese), in cui le imprese di altri paesi (o altro paese) hanno già conseguito un notevole vantaggio. Allora quell’imprenditore è obbligato a considerare l’intera politica del paese, in cui è installata l’azienda che dirige, quale strumento di sviluppo della sua propria attività; non può avere alcuna ristrettezza di vedute puramente economicistiche, deve guardare con maggiore attenzione alla sfera d’influenza che tale paese è in grado di conquistare.

I “cotonieri” si limitano a chiedere al loro governo di restare dipendente dal paese predominante, che ha bisogno comunque dei prodotti delle loro imprese già “mature” o comunque di precedenti fasi dell’industrializzazione; chi deve (soprattutto vuole) rompere la situazione di iniziale ritardo, chiede ben altro, è necessitato ad aprirsi a vedute più ampie. Mattei fu quello che fu solo perché uomo capace di compiere questo salto di qualità; egli dovette perseguire un’autentica politica di sfere d’influenza, non di mera acquisizione di “quote di mercato”. Probabilmente, oggi, perfino quest’uomo sarebbe in difficoltà con questi politicanti miserabili, soltanto abituati alla “paghetta” (non come entità, che è consistente, come meschinità della “fonte”) e un Berlusconi, che non riesce ad andare molto oltre la salute del suo gruppo. Però, chissà, magari un Mattei tenterebbe almeno di compiere un “salto di governo”, liquidando questa masnada di farabutti e piccoli criminali da suburbio.

Quando Marx scrisse che il Governo (non lo Stato, come si è detto con errore clamoroso e rivelatore dell’ignoranza di intellettuali ribaldi in merito alla concezione marxiana dello Stato) era il Comitato d’affari della borghesia (in quanto classe nel suo complesso), voleva indicare comunque che la politica doveva andare ben oltre quella perseguita dai singoli capitalisti. Tuttavia, non si deve considerare la borghesia – ma soprattutto, oggi, la classe dei funzionari del capitale nella sua parte costituita dagli agenti economici (produttivi e finanziari), cioè dai capitalisti nell’accezione di Marx – come un tutto unitario e complessivo: esistono gruppi in conflitto strategico. Gli agenti della sfera politica (Stato, partiti, ecc.), anch’essi divisi in gruppi conflittuali, si trovano in intreccio con quelli della sfera economica (e con quelli ideologici) nel condurre la politica.

Bisogna tuttavia studiare meglio come si configura quest’intreccio nelle diverse formazioni particolari (in genere paesi) a seconda dell’articolazione di queste sul piano di quanto già accennato in merito alla predominanza e subdominanza. Nella prima mi sembra certo che i gruppi di agenti nella sfera politica non sono affatto in pedissequa osservanza rispetto a quelli economici. Prendono i loro soldi, strumento necessario per qualsiasi obiettivo da realizzare, ma sanno che il problema centrale, di quel sistema complesso che è una formazione particolare, è il bisogno di conquistare sfere d’influenza, autentico fulcro della potenza del paese. Se un paese non occupa determinate aree – e tramite, logicamente, mosse strategiche, cioè la politica (con eventuale prosecuzione nella guerra) – queste saranno occupate da altri paesi. Gli agenti economici, salvo i casi particolari considerati sopra parlando di Mattei, hanno visioni strategiche generalmente più limitate, necessitate da problemi inerenti alle loro imprese o gruppi delle stesse; essi guardano soprattutto ai “mercati”, anche se sanno benissimo che non sono “liberi”, cosa che fanno dire agli ideologi liberisti, da loro pagati per sputtanarsi con simili idiozie adatte al popolo (anch’esso in gran parte costituito da “ingenui”).

Basta quindi pensare che gli industriali (le “multi o transnazionali”), e oggi soprattutto i finanzieri, dominino il mondo, comprino ciò che vogliono, facciano fare a tutti ciò che vogliono. Nemmeno la politica può ottenere quanto vorrebbe ottenere. E non lo può non semplicemente perché i gruppi in lotta sono molti e con obiettivi diversi, ma anche perché ci muoviamo nel già più volte citato flusso vorticoso e caotico del “mondo”, che sempre ci fa perdere l’equilibrio e l’orientamento, rendendo necessari nuovi faticosi processi di riformulazione di una strategia con qualche possibilità di transitorio successo. Comunque, è la politica ad essere prioritaria. Il resto sembra comandare, ma invece semplicemente finanzia chi studia i processi più opportuni da eseguire ove si intenda affermare il proprio comando nella più vasta area (sfera d’influenza) possibile.

Nella subdominanza, indubbiamente, la situazione si presenta spesso diversa, quasi sempre diversa. Non però perché i “cotonieri” e i finanzieri (nazionali, imbricati con quelli stranieri del sistema predominante) impongano, pagando, le loro decisioni agli agenti della propria sfera politica (apparati dello Stato, ecc.). Il fatto è che tali agenti sono dei semplici tirapiedi dei centri strategici del paese predominante. Da lì partono le effettive indicazioni riguardanti il comportamento da tenere in relazione al conflitto che oppone fra loro vari paesi, diversamente potenti ma comunque dotati di una loro autonomia. I “cotonieri” e i finanzieri dei subdominanti pagano i loro agenti pseudopolitici (che denominiamo spesso spregiativamente politicanti venduti al migliore offerente, tanto sono miserabili e bassi) per essere ammessi alla concessione di vantaggi economici, a volte non irrilevanti, da parte dei predominanti.

Non voglio adesso allungare troppo il discorso, mi sembra già sufficiente. Da qui si deve comunque ripartire per avere una visione non rozza ed elementare dei processi in corso anche nel mondo odierno, come in ogni altra epoca della società umana, malgrado le enormi trasformazioni storiche avvenute nelle manifestazioni visive della lotta per il potere nel mondo (e anche all’interno di date società più specifiche). Molti intellettuali odierni sono ormai al di sotto della linea di sopravvivenza della loro intelligenza; sono quindi veloci nei calcoli, nel muoversi nell’ambito delle loro apparecchiature raffinatissime e precisissime, ma il loro pensiero si è arenato sul primo metro della battigia. Se la politica è prioritaria, lo è pure l’analisi teorica. Il cervello non può far nulla se non ha a disposizione braccia e mani, gambe e piedi. Tuttavia, il semplice mulinello inconsulto degli arti non conclude un bel nulla, crea solo enorme confusione. La prontezza di riflessi, nello stimolo/risposta, ha una sua indubbia utilità, a volte è indispensabile; ma l’analisi delle cause più profonde ed essenziali dei processi – lenta e laboriosa, densa di fatica e punteggiata di tempi apparentemente morti – deve sempre precedere la sua effettiva messa in opera nell’esecuzione, necessariamente più rapida, delle mosse strategiche.

Amen!

 

Finito il 10 gennaio 2013