Il perspicace cinismo di Israele

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Di Robert D. Kaplan

[Traduzione di Piergiorgio Rosso da: Israel’s Insightful Cynicism | Stratfor

 

Israele sta vivendo il disfacimento di un trattato di pace. Non intendo dire quello con l’Egitto, ma quello con la Siria. No, non sono pazzo. Dai tempi della diplomazia del via-vai di Henry Kissinger, Israele aveva un accordo di pace di fatto con la famiglia Assad. Dopotutto c’erano evidenti linee rosse che entrambe le parti sapevano di non dover oltrepassare, così come una ragionevole prevedibilità da entrambe le parti. Lasciate perdere la grande retorica, lo scambio di ambasciatori e gli altri fronzoli politici che di solito definiscono un trattato di pace. Quello che conta in questo caso è che entrambe le parti osservavano limiti e vincoli, di modo che il contestato confine fra loro era sicuro. Ancora meglio, dato che non c’era un trattato di pace scritto, nessuna delle due parti doveva fare sconvenienti concessioni pubbliche e strategiche. Israele non doveva retrocedere le Alture di Golan per esempio. E se la Siria oltrepassava una linea rossa in Libano, per dire, oppure ricercava una capacità nucleare, come fece, allora Israele era libero di punirla tramite colpi militari mirati. Opportunamente non c’erano trattati di pace da violare.

Naturalmente i siriani si erano costruiti un arsenale chimico ed invitavano gli iraniani dappertutto nella loro nazione ed in Libano. Ma nessun trattato di pace, nel mondo reale, – data la natura del regime siriano – avrebbe impedito tali cose. In un mondo imperfetto di nudi poteri, gli al Assad erano come minimo tollerabili. Di più, essi rappresentavano una setta minoritaria, che impediva che la Siria diventasse una versione più grande e molto più potente di una Gaza arabo-sunnita radicale. Nel febbraio 1993 in The Atlantic Monthly, dicevo ai lettori che la Siria non era uno Stato ma un contorto inferno di divisioni etniche e settarie e che gli al Assad potevano finire dentro un mini-Stato nel nord-ovest della nazione tacitamente supportato dai servizi segreti israeliani. Potrebbe ancora accadere.

I leader politici israeliani possono anche dire ai media che i giorni di Bashar al Assad sono contati, ma questo non significa che gli stessi israeliani pensino che questo sia uno scenario ottimale. In effetti, per esempio, io sospetto fortemente che quando gli israeliani ed i russi si incontrano, hanno molto in comune riguardo la Siria. La Russia supporta il regime di al Assad attraverso il trasferimento di armi dal mare, dall’Iraq e dall’Iran. Israele potrebbe vedere dei vantaggi in questo. Al Presidente russo Vladimir Putin potrebbero piacere gli incontri con gli israeliani che presumibilmente non lo vedono con la lente dei diritti umani o come l’anima nera del regime degli al Assad come fanno gli americani.

E’ vero, una Siria del dopo-al Assad potrebbe minare l’influenza iraniana in Medio Oriente, il che sarebbe un enorme vantaggio per Israele come per gli Stati Uniti. Dall’altra parte la Siria del dopo-al Assad sarebbe un enorme caos in cui gli iraniani appoggerebbero intelligentemente gruppi di guerriglia e porterebbero ancora in giro armi. Ripeto, al Assad è il diavolo che conosci. Ed il fatto che egli non sia più il presidente della Siria, funzionalmente parlando, ma il maggiore signore della guerra della nazione, offre sfide che Israele preferirebbe non fronteggiare.

Cosa dire di Hezbollah, dentro questo esplicito cinico sguardo di Israele? Hezbollah non è una minaccia strategica per Israele. I militanti di Hezbollah non marceranno in massa su Haifa e Tiberiade. I sistemi antimissile come Iron Dome e David’s Sling possono ragionevolmente contenere la minaccia militare da nord. E poi ci sono i rifugi anti-bomba israeliani – spesati una volta per tutte. Inoltre Hezbollah ha bisogno di Israele. Perché senza un potente Israele, Hezbollah verrebbe derubato dell’avversario esistenziale che procura a Hezbollah quell’immenso prestigio, nell’universo politico libanese, che rende Hezbollah del tutto diverso dagli altri gruppi sciiti che combattono i sunniti. La guerra di Israele contro Hezbollah nel 2006 è riconosciuta come un disastro. Ma ebbe effetti collaterali positivi: Israele ha ottenuto 7 anni di quiete relativa ai suoi confini nord e la guerra ha evidenziato molte falle nel sistema militare e dei riservisti israeliano che datava da anni e che da allora sono state decisamente riparate, rendendo di conseguenza Israele più forte.

Le minacce abbondano, è vero. Il collasso del regime di al Assad potrebbe portare a armi-per-tutti – proprio come nella Libia post-Gheddafi – che potrebbe forzare Israele a “tagliare l’erba” ancora nel Libano del sud. Quanto a Hassan Nasrallah il carismatico ed abile leader di Hezbollah, potrebbe anche lui essere il diavolo che conosci, obbedendo informalmente a certe linee rosse con Israele dal 2006. Nasrallah sembra essere meno estremista del suo vice, Naim Qassim, che prenderebbe il suo posto se Nasrallah fosse assassinato dagli israeliani, a meno che i sunniti in un Libano ed in una Siria buttati in un caos assoluto del post-al Assad, non lo assassinino loro per primi.

E poi c’è Gaza: ancora una volta “tagliare l’erba”, come nel Libano meridionale, una volta o due ogni decennio, sebbene questo potrebbe essere più difficile nell’ambiente geopolitico del dopo-Primavere Arabe, a causa del maggiore pericolo insito in relazioni israelo-egiziane destabilizzate. Eppure a Gaza non c’è una minaccia esistenziale né una soluzione reale, checché ne dicano i diplomatici. Gli idealisti a occidente parlano di pace; i realisti dentro Israele parlano di separare negli anni guerre limitate in modo tale da permettere alla società israeliana di prosperare negli intertempi. Come mi ha spiegato un alto funzionario della sicurezza, le coste orientali degli USA ed i Caraibi subiscono uragani periodici. Dopo ognuno di essi le persone ricostruiscono anche se sanno che dopo dieci anni, o giù di lì, ci sarà un altro uragano. Le guerre di Israele sono così, mi ha detto.

Al momento una vera preoccupazione sottotraccia di Israele è la Giordania. E’ vero il re Abdullah ha finora gestito con abilità i crescenti disordini interni, ma meditare sul collasso della dinastia ashemita è del tutto prudenziale. Più anarchia. Più ragioni per dare retta alle analisi di Ariel Sharon di 40 anni fa, sul fatto che la Giordania è il vero stato palestinese, molto più che il West Bank. E considerato che la Giordania e l’Arabia Saudita potrebbero disfarsi nei prossimi decenni, forse Israele potrebbe cercare di evitare di attaccare l’Iran – che insieme a Israele è l’unico vero stato fra il Mediterraneo e gli altopiani iraniani. L’Iran avrà anche un regime ripugnante, ma la sua società è forse la più benestante del mondo arabo. Quindi c’è speranza.

Il quadro è completo. Israele ha goduto di una situazione stabile per decenni, circondato com’era da stabili dittature arabe. Israele poteva promuoversi come l’unica democrazia reale nella regione, anche se dipendeva parzialmente da tipi come Hosni Mubarak, il clan al Assad e gli ascemiti per assicurare l’ordine e poche sorprese. Ora le dittature stanno cadendo e l’anarchia cresce. Le armate del tipo di quelle costruite dai dittatori nelle guerre del 1948, 1956, 1967 e 1973 erano più semplici da combattere che non le guerre odierne: dato che gli arabi non hanno mai creduto molto nei loro stati inefficienti, essi non hanno sempre combattuto molto bene dentro formazioni organizzate statali. Invece milizie sub-statali come Hezbollah o Hamas hanno costituito una sfida più alta. Nei vecchi tempi Israele poteva distruggere l’aviazione egiziana a terra e risolvere i suoi problemi di sicurezza a sud. Oggi, ci ripetiamo, non esistono soluzioni per Israele: solo avversari sub-statali che si nascondono fra i civili per attaccare i tuoi civili. Nessuna pace per sempre, dunque, ma solo guerre periodiche sperabilmente distanti fra loro.

Il Medio Oriente oggi è diventato un luogo ideale se tu sei un colono ebreo del West Bank. La divisione fra le fila dei palestinesi, accoppiata alla crescente anarchia del mondo arabo, significa che le occasioni per concessioni territoriali da parte di Israele sono diminuite. In effetti, l’unica opzione per Israele è fare ritiri unilaterali. Questo solo è quanto i coloni dovrebbero forse temere.

Ma il sogno sionista resta lì. Gerusalemme e gran parte del resto di Israele stanno prosperando. Trambus e zone pedonali rendono Gerusalemme più vibrante che mai. Gli arabi nella Città Vecchia vivono bene – date le circostanze, ovviamente –dalla parte “ebrea” del “muro” dove gli standard e la qualità di vita sono molto migliori che non dalla parte araba. Il “muro” rappresenta sia una mostruosità, in termini astratti e moralistici, che una soluzione pratica in un periodo di ripetute sconfitte diplomatiche e sempre più ridotte opportunità diplomatiche. Dal 28% del PIL nei metà anni ’70, la spesa militare israeliana è scesa al 6-8% del PIL. Si sta bene in Israele. La disoccupazione è più bassa che negli USA e in Europa, a dispetto degli alti costi delle abitazioni e della necessità di riforme dell’assistenza sanitaria e dell’istruzione. Si potrebbe dire che il Primo Ministro Benjamin Netanyau – tanto vilipeso in occidente – non ha gestito male l’economia tutto sommato.

Ma cosa fare dell’idealismo? di un Medio Oriente migliore e più umano? di statisti sapienti ed abili che vedano opportunità là dove altri non le vedono? Cosa fare per rallentare lo scivolamento di Israele in una società di quasi-apartheid, caratterizzata dalla dominazione israeliana sui più numerosi arabi, qualcosa certo non negli interessi di Israele? Queste sono tutte questioni reali da tenere costantemente in mente e per cui lottare. Ma l’Oriente rimane una partita a somma zero per la sopravvivenza fisica. Quindi è un posto in cui ci saranno sempre vantaggi a trattare con dittatori. Considerate le circostanze geografiche in cui si trovano, possiamo perdonare agli israeliani il loro cinismo.