Il 'picco' degli USA di A. Lattanzio
L’impero spagnolo di Filippo II e di Filippo V partecipò, e fu protagonista principale, di tute le guerre europee del XVI e XVII secolo. Si pensi alla vicenda dell”Invicible Armada’. Una flotta di centinaia di navi da guerra e da trasporto, destinata a invadere l’Inghilterra, e costata un patrimonio sia in oro e argento che in foreste distrutte per costruirla. Fu un fallimento di proporzioni epocali, storiche. Ma la Madrid degli hidalgos volle perseverare nella propria follia bellicista. Così seguirono la guerre religiose in Germania; la repressione della secessione olandese; la guerra dei Trent’Anni; le guerre di corsa contro la Francia e l’Inghilterra, soprattutto nelle Americhe, la partecipazione alla guerra civile inglese, alla guerra dei dieci e dei sette anni, senza citare la guerra di successione spagnola.
Non c’era occasione bellica che l’impero spagnolo si facesse sfuggire. Ma il prezzo di tutto ciò fu non soltanto l’esaurimento economico-finanziario; ma anche il tracollo politico-diplomatico e, dalla metà del XVIII, una fase ultra-secolare di stagnazione economico-sociale e di emarginazione dalla scena internazionale, costellata della perdita dell’impero nell’America Latina.
Insomma, l’attivismo politico-militare spagnolo coincise con il ‘picco’ dell’espansionismo madrileno. Dopo, a causa dei suddetti eccessi, l’impero spagnolo si ritirò, fino ad assumere la sua dimensione fisiologica.
Come per la Madrid del XVIII secolo, anche la Washington del XXI secolo vale lo stesso discorso. L’iperattivismo di Washington, che si esplica sul piano diplomatico, geostrategico, militare, ideologico e propagandistico, si sta risolvendo in un fallimento clamoroso, epocale e storico. Anche gli USA, coe la Spagna imperiale, stanno esaurendosi nello sforzo di crearsi una loro, contemporanea, e fallimentare, ‘Invicible Armada’. Ma procediamo con ordine.
Gli Stati Uniti d’America, in questi giorni, stanno vivendo una politica estera, diplomatica e internazionale, particolarmente tribolata. In pratica, nel settore meridionale del blocco continentale eurasiatico, a seguito di una lunga serie di eventi, Washington ha perso praticamente quasi tutti i suoi alleati.
Nell’Asia Centrale ex-sovietica, gli USA hanno dovuto mollare la presa sull’Uzbekistan; mentre in Kyrgyzstan hanno dovuto diminuire di parecchio la loro ingombrante presenza. La carta che giocano, in quello scacchiere, è Dushambè, la capitale del Tajikistan. Secondo fonti moscovite, cercano di coinvolgere le autorità tajike nella gestione del traffico di droga afgano.
Effettivamente la ritirata dal Turkestan ex-sovietico è iniziata, quando nel 2006 è esplosa, nella città meridionale dell’Uzbekistan di Andijan, una rivolta islamista e antigovernativa. Il bersaglio, così sembrava, puntava proprio sul presidente Islam Karimov. Le origini e genesi della rivolta appaiono oscure, ma subito dietro di essa, si sono scorte le ombre dei servizi d’intelligence occidentali (inglesi e statunitensi). Infatti, apparve strana l’improvvisa presa di posizione, di Washington e Londra, a favore dei rivoltosi islamisti. Le solite ONG occidenatli invocarono interventi della cosiddetta ‘Comunità Internazionale’ contro il governo di Tashkent. Ciò non fece altro che consolidare i sospetti delle autorità uzbeche sulle vere mire e le vere intenzioni degli statunitensi; perciò Tashkent agì di conseguenza: veniva chiusa e sgomberata la base aerea locale utilizzata dall’USAF per appoggiare le operazioni dell’ISAF in Afghanistan, inoltre venivano limitati i sorvoli del territorio uzbeco da parte dei velivoli della NATO e degli USA. Per sovramercato, Islam Karimov, anche per proteggersi le spalle, decideva di aderire al Trattato di Shanghai, avvicinandosi a Mosca e Beijing. Washington perdeva una prima pedina.
In Kyrgyzistan, all’indomani della rivolta antigovernativa, a cui non erano estranee le solite
ONG teleguidate dallo speculatore finanziario internazionale George Soros, si
imponevano al governo uomini vicini al Kremlino. La carta delle ‘rivoluzioni colorate’ incominciava a non dare più i risultati sperati. E anche da lì, gli USA venivano sollecitati a togliere le tende, soprattutto dopo che, davanti alla base aerea di Manas, che ospita un gruppo di cisterne volanti dell’USAF, una guardia statunitense uccise un camionista del posto. Alla fine l’USAF non se ne è andata, ma ha visto imporsi un affitto assai più elevato, la restrizione del traffico aereo e, peggio di tutto, Bishkek autorizzò l’espansione della vicina base aerea di Kant, utilizzata dall’Aviazione Russa.
Questa era la seconda pedina che se ne andava, veleggiando verso le rive della Moscova e del Fiume Giallo. Anche Bishkek stringeva ulteriormente i legami con il Trattato di Shanghai.
Non va citato il Kazachstan, poiché Astana ebbe cura di eliminare qualsiasi opportunità interventista alle ONG di Soros: le aveva fatte sciogliere e bandire, per tempo, dalla repubblica ex-sovietica. Il film ‘Borat’ è la risposta, stizzosa e rancorosa, della banda Soros alla lezione inflittale dal governo kazaco. Inutile dire che il Kazachstan è uno dei pilastri del Trattato di Shanghai.
Resta il Tajikistan, organi d’informazione moscoviti accusano gli USA di volere coinvolgere le autorità di Dushambè nella gestione del traffico di droga originato dall’Afghanistan. Non si sa fino a qual punto sia efficace, e se esista, tale operazione. Dusahmbè, comunque, rientra nell’ambito del Trattato di Shanghai.
Ma è in quest’anno che si è esplicata, appieno, l’essenza della forsennata politica interventista di Washington. Non paghe dei fallimenti afgano e iracheno, e delle batoste subite in Libano, i circoli dominanti statunitensi e sionisti hanno, imperterriti, minacciato di aggressione nucleare la Repubblica Islamica dell’Iran. Nonostante Tehran perseguiti un conclamato programma elettronucleare civile. Riconosciuto tale anche dalla AIEA. L’Iran rappresenta un bastione del blocco continentale eurasiatico; e ciò è stato compreso non solo a Wall Street, alla City di Londra e presso il Centro Herzlyya di Tel Aviv; ma anche da Mosca, da Beijing e, nonostante le apparenze, anche a New Delhi. I giacimenti petrogasiferi iraniani sono un asset estremamente importante per lo sviluppo economico di Cina e India. Difficilmente Beijing e New Delhi sarebbero disposte a perdere tali fonti energetiche. L’Iran ha un governo forte, stabile e che si è dimostrato più che responsabile nel gestire il disastro statunitense in medio oriente.
Mosca, consapevole del carattere cruciale del ruolo iraniano e siriano nella regione, ha rafforzato i rapporti politico-economici e i legami militar-tecnologici sia con Damasco che con Tehran. Presso Latakia, principale porto della Siria, i russi hanno installato una base aeronavale che servirà a proteggere non solo le vie di comunicazioni e le pipelines che collegano la Federazione Russa al Medio Oriente, ma anche la stessa sovranità e indipendenza siriane. Mentre la consegna di una centrale elettronucleare e di sistemi d’arma (tra cui i motori per un nuovo velivolo da combattimento iraniano) a Tehran, da parte di Mosca, rappresentano una manifestazione, chiara e diretta, della volontà russa di difendere sia la e la stabilità regionale, che i propri interessi, sia immediati che futuri.
New Delhi ha incassato, agli Stati Uniti d’America, l’accordo che le permetterà di poter usufruire della tecnologia statunitense, nell’implementazione del proprio elettronucleare civile. Un programma energetico necessario a sostenere l’impetuosa crescita economicosocio-tecnologica dell”elefante’ asiatico. Ma nonostante ciò prosegue, stretta, la collaborazione tecnica, scientifica e militare con Mosca. Difatti, ad esempio, è stato siglato l’accordo tra l’industria aerospaziale indiana e quella russa, riguardante la produzione di un nuovo velivolo da combattimento (PKA-AF), di un missile da crociera strategico e supersonico (BrahMos), la consegna, in affitto, alla marina indiana da parte di quella della Federazione Russa, di uno o due sottomarini d’attacco a propulsione nucleare ‘Akula’ e della portaerei Vikrant (ex Admiral Gorshkov). Inoltre vi sono buone possibilità che
l’industria aerospaziale russa vinca il mega-concorso per il rinnovo della prima linea da combattimento dell’aviazione indiana.
New Delhi, inoltre, continua a lavorare per trovare una maggiore intesa con Beijing. Intesa che non ha esclusivo carattere economico, ma anche politico-diplomatico, soprattutto alla luce del maldestro tentativo statunitense di influenzare gli eventi in Myanmar. Effettivamente, mentre Bush consegnava a medaglia del Congresso al Dalai Lama, arnese della Cia e di Hollywood, irritando inutilmente e per l’ennesima volta Beijing, gli USA e le agenzie governative e non-governative collegate a Washington, hanno tentato l’attuazione di un colpo di ‘Roll-Back’, di capovolgimento, del processo di allargamento del Trattato di Shanghai. Il governo di Yangoon ha stretti legami con l’India, la Repubblica Popolare della Cina, l’Unione Indiana, l’Ucraina e la Repubblica Popolare Democratica di Korea. Presso i circoli dominanti statunitensi e inglesi, atlantisti, dev’essere apparsa assai ghiotta la possibilità di destabilizzare le autorità del Myanmar; soprattutto tenendo conto degli ampi programmi infrastrutturali (trasporti, pipelines e comunicazioni,) che vedono coinvolti Myanmar, Cina e India. Il Myanmar è diventato il campo su cui applicare le esperienze bellico-mediatiche che si esercitano nell’altro cruciale fronte di scontro: il Sudan.
Anche in questo caso si sono distinte le ONG e certe ‘agenzie di informazione alternative’, nonché la solita multinazionale della propaganda di Soros. Ma oramai, anche questi mezzi, questi strumenti, registrano un loro logorio e una certa usura. Difatti, le grandi capitali del blocco eurasiatico hanno, de facto, ignorato la massiccia campagna mediatica bipartizan, avviata da Bush e da Soros. Mentre presso l’opinione pubblica occidentale, tale campagna non ha riscosso che un limitato successo, soprattutto presso ‘nicchie di mercato’, presso certi attivisti e alcune fonti d’informazioni, forse ‘alterative’, ma di certo particolarmente sensibili a certe strumentalizzazioni.
L’operazione sul Myanmar è stata un altro fallimento di Washington, che si accompagna allo stallo sudanese, dove l’Unione Africana, guidata dalla Libia, cerca di porre una soluzione, pacifica e mediata, alla questione del Darfur. Ma l’opposizione strumentale di alcune organizzazioni separatiste, certamente consigliate da ambienti statunitensi e israeliani (e di certo, anche da fazioni dell’establishment francese), per ora non permette all’Unione Africana e alla stessa ONU, di intervenire per porre una soluzione.
In sostanza Washington, sebbene non riesca respingere il processo di crescita dei suoi avversari, dall’altro riesce a bloccare l’azione diplomatica, perfino dei suoi alleati, come la Francia di Sarkozy, o l’India, che dopo gli eventi in Myanmar, osserverà con maggiore circospezione l’attività di Washington, anche se appare con vesti amichevoli.
Infine, i circoli atlantismi, hanno collezionato, in rapida successione, tre rovesci con potenziali, clamorose, conseguenze.
La Turchia, esasperata dalle azioni di guerriglia del PKK, che ha i propri santuari nel Kurdistan ‘libero’, ossia sotto il protettorato USA ed israeliano, non solo minacci di intervenire in forze nel territorio iracheno, ma ha avviato una politica di intesa con la Siria e l’Iran, volta a proteggere i propri interessi e a trovare una forma di stabilizzazione regionale. Elemento necessario, ad Ankara, per favorire la crescita economica della Turchia. L’avventurismo statunitense, chiaramente, ha dato assai fastidio al governo turco e, di certo, l’azione della guerriglia kurda che opera, de facto, con l’assenso delle autorità politico-militari statunitensi e israeliane, ha spinto Ankara a minacciare l’intesa con gli USA e a fare un primo passo, impedendo l’uso della base aerea di Incirlik, e promettendo che: ‘i rapporti tra Ankara e Washingotn non saranno più gli stessi’, come affermato dai massimi vertici politici turchi.
Il Pakistan, dopo l’arrivo di Benazhir Bhutto, oppositrice del governo nonché personalità politica legata agli interessi statunitensi, ha subito l’aggravamento della tensione interna. Il gravissimo attentato contro la Bhutto, dalle motivazioni oscure, è stato
l’ultimo segnale di minaccia contro le autorità di Islamabad. Difatti la Bhutto era giunta in Pakistan, all’indomani della vittoria alle elezioni presidenziali del Generale Perwez Musharraf. Musharraf ha imposto lo stato d’emergenza per affrontare quei poteri legislativi che non vogliono riconoscergli la vittoria elettorale. Il ricorso al pungo di ferro ha solleticato gli istinti ‘umanitari’ di Washington. Ma chiedendo spiegazioni al Generale Musharraf, le autorità statunitensi, però, si sono accorte di aver commesso un’altra gaffe geopolitica e geostrategica. Pertanto, lo stesso presidente Bush ha dovuto tentare una marcia indietro nei confronti di Islamabad. Ma come nel caso del Myanmar, anche il governo pakistano ha compreso che, nei momenti cruciali, Washington appare inaffidabile. Di certo Musharraf avrà preso nota della cosa.
3. La Georgia, dopo il colpo di stato ‘Made in Cia’ e presentato come ‘Rivoluzione della Rose’, secondo l’iconografia sorosiana, è sprofondata nel caos economico, sociale e politico, inoltre la banda di Saakashvili è passate alle vie di fatto; sentendosi con le spalle coperte, dalla NATO, Tbilissi ha minacciato le autorità delle repubbliche autonome di Ossetia del Sud, Adzharija e Abkhazija e, non contenta, ha anche infastidito le autorità russe, chiedendo il ritiro delle truppe moscovite poste a difesa delle comunità minacciate dal governo Saakashvili. Inoltre, all’interno dei circoli filoatlantici, sono scoppiate le faide, con tanto di morti, ‘suicidi’, strani incidenti, arresti, espulsioni. Le cosche atlantiste georgiane perdenti hanno fatto ricorso alla piazza contro il governo. Come Musharraf, anche Saakashvili ha imposto lo stato d’emergenza; e come Musharraf, anche Saakshvili ha subito i rimbrotti dai suoi padrini statunitensi. Sarà anche questa una gaffe geopolitica di Washington?
Se sul piano della diplomazia e della politica internazionale, Washington si trova in difficoltà, neanche sul piano militare e tecnologico le cose vanno troppo bene.
In breve, il Generale Casey, comandante dell’US Army, ha affermato che l’US Army avrà bisogno di quattro anni almeno, per riprendersi dal ‘trauma’ dell’Iraq e dell’Afghanistan. Inoltre si moltiplicano i problemi tecnologici riguardanti i nuovi sistemi d’arma i corso di acquisizione da parte dell’USAF e dell’US Navy.
Il caccia intercettore Lockheed F-22 ‘Rapier’ continua a dare noie, a più di dieci anni dal suo primo volo. Ad esempio: in un caso i computer di bordo hanno impedito, al pilota a bordo, di poter uscire dall’abitacolo del velivolo. È stato necessario l’intervento dei vigili del fuoco, e delle loro tenaglie tagliametallo, per liberare il militare dalla sua trappola ipertecnologica. In un altro caso, due F-22 in volo di trasferimento da Pearl Harbor ad Okinawa, al momento dell’attraversamento della linea del cambio di data, hanno subito il default dei computer di bordo. I velivoli sono potuti rientrare a Pearl Harbor grazie alla presenza, nelle immediate vicinanze, di una cisterna volante dell’USAF.
Neanche la US Navy se la passa bene, poiché deve radiare almeno due portaerei, mentre quando ha ricevuto in consegna le due nuove unità di appoggio assalto anfibio(LPD), classe ‘San Antonio’, le ha dovute rispedire al cantiere di costruzione, avevano così tanti difetti di costruzione da essere ritenute inaffidabili.
A tutto questo si aggiunge il ripensamento della Rivoluzione degli Affari Militari (RMA) di Rumsfeld. Una teoria che si è dimostrata, sul campo del tutto errata, dannosa e controproducente. La RMA, in pratica, capovolge il baricentro delle forze armate USA, mettendo al vertice le forze aerotrasportate: troppo leggere e con poca potenza di fuoco. Possono essere impiegate come forza da assalto, ma non di occupazione o anche solo per affrontare forze armate strutturate e motivate, come quelle iraniane. Inoltre, Rumsfeld affida la sua ‘supertecnologica’ forza d’assalto alle capacità logistiche dei vecchi e piccoli Lockheed C-130 Hercules; un vicolo cieco tecnico-dottrinario.
A fronte di tutto ciò, si assiste al lento ma continuo, ristabilimento della capacità strategica
della Federazione Russa, da una parte; mentre dall’altra, vi è una Repubblica Popolare
della Cina che sforna, a ritmo mensile, nuovi sistema d’arma. Se dopo il culmine, l’Impero
USA iniziasse a ritirasi, i vuoti che si creerebbero, molto probabilmente, verrebbero subito colmati dalle potenze del blocco continentale eurasiatico.
Per tutto ciò, vanno inasprendosi e aumentando i malumori, verso l’amministrazione Bush, tra le forze armate, della comunità dell’intelligence e del Dipartimento di Stato degli USA. Avranno, sperabilmente, effetti positivi?
Alessandro Lattanzio, Catania 10/11/2007 http://www.aurora03.da.ru/
http://sitoaurora.altervista.org/
http://xoomer.virgilio.it/aurorafile/
Fonti:
Aerei Superfile, Rivista Italiana Difesa, Rivista Eurasia, CP Eurasia, Resistenze.org, Freebooter.da.ru, SpaceWar, Global Research, ChinaDefence, IndiaDefence, Strategic Culture Foundation, VoltaireNet.