IL PRESENTE ED IL FUTURO di R. D.
La strategia obamiana mostra come non mai la corda. Ci si domanda a volte, nel nostro piccolo, come si possano non vedere gli autentici iceberg che si profilano all’orizzonte di operazioni strategiche tanto pretenziosamente evolute ed importanti. E’ stato così nell’avventura irachena, lo è oggi, in misura forse maggiore, nella farsa tragica della cosiddetta “Primavera Araba”.
Nel contesto iracheno, o anche in quello afgano, gli S.U. hanno almeno ottenuto il vantaggio strategico, tuttora decisivo, di una presenza militare massiccia ed in pieno assetto bellico, in una delle aree geopolitiche più importanti del pianeta. Quello che non poteva reggere, né reggerà probabilmente nel lungo periodo, è appunto il massiccio dispiegamento di forze militari direttamente americane, in un contesto di guerra permanente, dove i nemici, si rinforzano quanto più è forte l’impatto che si intende esercitare contro di loro.
La strategia obamiana era nata proprio quale alternativa a questo insostenibile dispendio di energie. Consisteva in una falsa bonomia accompagnata da processi di penetrazione e destabilizzazione a vari livelli, delle aree interessate. In molti ricorderanno il premio nobel per la pace attribuito al primo Obama, per motivazioni del tutto inconsistenti. Quello era il segnale di un’operazione in grande stile, che non poteva né voleva tener fuori alleati e vassalli.
L’operazione in grandi linee si divideva in due direttrici fondamentali: A) Destabilizzazione “preventiva” dell’area araba mediorientale; B) Destabilizzazione finanziaria dell’area dell’Euro.
A sua volta, la direttrice A, era suddivisa in due fasi concomitanti: a) Guerra civile in Libia prima e Siria poi; b) Rovesciamento “pacifico” dei regimi tunisino ed egiziano. Il tutto condito con la solita cortina fumogena ideologica delle “Rivoluzioni Arancioni” democratiche, in lotta contro bieche e corrotte dittature. Fingendo di dimenticare però, il piccolo dettaglio che questa volta le dittature erano del tutto filo occidentali. In realtà, almeno nelle intenzioni, il discrimine era proprio questo: dove c’erano i già filo americani, semplice “Primavera”, dove invece dominavano gli anti americani, o anche semplicemente ormai, i non proprio sottomessi, guerra di annientamento. Questo è il destino toccato alla Libia.
Vale appena la pena di notare che contro la Libia è stata scatenata una vera e propria guerra di aggressione non dichiarata contro una nazione sovrana, sotto l’egida della NATO. Vale a dire, sotto comando americano, ma con partecipazione diretta dei servi inglesi, francesi ed italiani. Questi ultimi intervenuti rinnegando con il solito vigliacchismo nazionale, interessi e legami, bipartisan, con il regime di Gheddafi. Fu interessante in questo frangente il deciso rifiuto tedesco alla compartecipazione in questo teatrino buffonesco e tragico. A dimostrazione dell’eterna validità della proposizione di Don Abbondio: “Se uno (un popolo) il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare”. Tranne nobilissime, ma assolutamente minoritarie eccezioni, il popolo tedesco e quello italiano sono fatti di paste completamente diverse. Così pure i loro governi e la rispettiva visone degli interessi nazionali. I tedeschi vedevano bene che un così pesante intervento nell’area mediterranea era in realtà precursore di un rinnovato, invasivo intervento sui già precari equilibri europei ed in particolare su una certa eccessiva “autonomia di orizzonte”, molto guardinga e prudente per la verità, proprio loro ed in parte nostra, nei confronti della rinascente potenza russa.
Difatti, la ragione fondamentale di questo, per molti aspetti incredibile, rimescolamento di carte, era il contrasto preventivo all’evidente processo di penetrazione russo nell’area del Mediterraneo, accompagnato da un altrettanto preoccupante movimento cinese, assai meno visibile, ma non per questo meno pervasivo e potenzialmente pericoloso. Il passo successivo e decisivo era quindi l’attacco alla Siria. Il rovesciamento egiziano apriva la strada, come poi si è visto, ad una possibile espansione islamista, non certo filo americana. Vero che gli USA potevano contare sulla fedeltà dell’esercito (egiziano), ma il rischio era comunque forte, salvo appunto che si fosse proceduto in Siria rapidamente come in Libia. Del resto nel caso libico, i russi, come pure i cinesi, erano stati sostanzialmente a guardare e nulla, sul momento, poteva far pensare ad una loro già precisa e decisa strategia di impegno diretto. Il calcolo si è dimostrato del tutto errato. Il regime di Assad si è rivelato un osso durissimo. La Russia lo ha sostenuto via via con sempre maggior decisone. La penetrazione islamica è divenuta sempre più massiccia ed incontrollabile. L’ipotesi di un intervento diretto, garanzia imprescindibile di successo di tutta l’operazione è stata debellata dalla chiara disponibilità russa a fare altrettanto. Il risultato è stato un impantanamento che ha bloccato di fatto la stabilizzazione della “Primavera araba”. Il paese – cardine, l’Egitto è finito nelle mani degli islamisti e si è dovuto ricorrere ad un colpo di stato che si sta rivelando ogni giorno più sanguinoso e cruento e nello stesso tempo la presenza e l’affidabilità russe sono cresciute enormemente. Lo stesso Iran che sembrava essere pienamente nel mirino americano, sembra passato in seconda linea rispetto a queste inaspettate difficoltà. Ma erano davvero così imprevedibili?
In realtà anche per chi come me ha pochissime informazioni attendibili su ciò che accade, è apparso chiaro fin da subito che la strategia obamiana si stesse basando su di una serie di giocate d’azzardo, con altissimi rischi di intralci o addirittura di fallimento.
E’ possibile che i “think tank” americani non se ne siano resi conto? Io non credo. Mi pare assai più probabile che una serie di mosse siano state in un certo senso obbligate. Il punto è, a mio parere, che non sono state obbligate tanto dalla situazione internazionale, o per così dire “esterna”, quanto piuttosto da una situazione “interna”, caratterizzata da logoranti “frizioni” tra i più forti gruppi di potere statunitensi, circa la conduzione strategica dei prossimi dieci o vent’anni. Gli S.U., negli ultimi 40 anni, hanno poggiato la loro strategia, risultata vincente, su quella vera e propria “mossa del cavallo” escogitata dal duo Kissinger – Nixon, con la famosa “Diplomazia del ping pong” all’inizio degli anni ’70. Vale a dire, sul sistematico sfruttamento della storica inimicizia tra Russia e Cina. Questo “gioco”, ha fruttato, a partire dalla fine dei ’70, un vantaggio costante da parte americana, soprattutto nei confronti dei russi, che al di là di tutti gli sproloqui giornalistico – cinematografici sulla minaccia cinese, sono sempre stati ritenuti come gli unici veri avversari di livello. A partire dalla seconda Guerra del Golfo, questo caposaldo ha cominciato rapidamente a sgretolarsi. Grazie soprattutto alla ritrovata agilità diplomatica russa, scomparsa sin dai tempi della Guerra Fredda, i rapporti tra Russia e Cina si sono fatti molto più ravvicinati e strategici, al punto che, pur in assenza di una vera e propria alleanza, ora sono spesso gli americani a trovarsi triangolati. Vedi appunto il caso della Siria, come quello dell’Iran o della stessa politica statunitense nell’ex giardino di casa sudamericano.
Senza questo caposaldo della loro politica estera, gli americani si ritrovano ora in mare aperto. Le scelte si fanno incerte e contrastanti. Occorre guardarsi tanto dai nemici, quanto dai cosiddetti amici. Il caso della “talpa” della CIA, che rivela lo spionaggio di paesi “alleati” e che finisce per trovare asilo, guarda caso, proprio in Russia, è piuttosto emblematico; sia per quanto riguarda la natura e l’estensione del controllo, sia per il fatto che un segreto di simile portata sia stato così facilmente smascherato.
Gli Stati Uniti sono ancora la prima potenza del mondo, ma non sono più saldi in sella. Essi hanno tuttora un vantaggio fondamentale: sono gli effettivi padroni dello sviluppo tecnologico. A partire dagli anni ’80, gli USA hanno stabilito ed imposto su scala planetaria il primato della ricerca e dello sviluppo tecnologico su qualunque altra forma di progresso scientifico. In effetti nessuno è davvero a conoscenza di quale sia l’effettivo livello di tale sviluppo. Tutti siamo portati a misurare il progresso tecnologico sulla base dei prodotti che troviamo disponibili sul mercato, immaginando un’interazione per così dire “naturale” tra scoperta o potenzialità tecnologica e sua immediata traduzione in oggetto di commercio. Ma in realtà di ciò non abbiamo nessuna prova. Esiste invece la concreta possibilità che le scelte commerciali intorno allo sviluppo del potenziale tecnologico oggi disponibile siano accuratamente selezionate, tanto per strategie strettamente di mercato, quanto per priorità più segnatamente di gestione politica.
Questo primato è decisivo e permette ancora agli USA di proiettarsi nel futuro come la più probabile delle potenze dominanti del futuro. Tuttavia esso non è più sufficiente ad assicurarle un primato assoluto e costante. Ciò fondamentalmente per due motivi consequenziali: il primo è che il primato tecnologico non permette comunque agli Stati Uniti, un controllo di aree geopolitiche decisive come Russia e Cina, guarda caso i due più grossi rivali. Il secondo è dovuto proprio alla coesistenza del primato tecnologico e quindi di potenza (spesso di prepotenza), con l’impossibilità ad estendere completamente la propria capacità di controllo anche ai propri maggiori rivali. Ovvio che essi siano portati ad un livello di accordo, se non di vera e propria alleanza, che li metta in grado di affrontare il nemico di gran lunga più pericoloso. Altrettanto logico che dietro di essi, altre potenze “minori” cerchino di trovare il loro spazio.
Ecco dunque il nocciolo del problema per gli S.U.: la loro stessa forza, da un lato non garantisce più un pieno controllo sugli avversari, dall’altro è sufficientemente grande ed estesa da indurre questi ultimi a forme di cooperazione capace di superare anche storiche rivalità.
Queste rivalità molto probabilmente affioreranno di nuovo, ma non prima di un effettivo ridimensionamento della potenza statunitense.
Quale potrebbe essere la forma di questo ridimensionamento, laddove dovesse realizzarsi concretamente? E’ sempre possibile il ricorso a quella che io definisco “la Strategia del Pizzino”. La mafia, che è per sua natura, organizzazione dominante, cioè a dire autonoma, seppure relativamente, rispetto ad altri dominanti, ha trovato il modo di ovviare al suo gap tecnologico – informativo, con l’uso massiccio di percorsi per la trasmissione di ordini ed indicazioni anche strategicamente importanti, non comportanti l’uso di mezzi elettronici. Proprio nella consapevolezza della loro vulnerabilità e controllabilità. La stessa procedura è stata segnalata da alcuni media riguardo ai servizi di sicurezza russi. In altre parole, è possibile una serie di “ritorni al passato” nei confronti di modalità tecniche considerate obsolete, ma molto meno insicure e penetrabili di quelle attuali, tutte appunto, di matrice americana. Un ritorno ovviamente non pienamente sostitutivo, ma diciamo così, integrativo. La cosa non deve stupire troppo, se si pensa che l’economia cinese è decollata proprio attraverso l’uso massiccio di basse tecnologie e di manodopera a bassissimo costo.
Una modalità quindi possibile, ma più che probabilmente, assolutamente non sufficiente a porre seriamente in pericolo la leadership statunitense. La più realistica possibilità di ridimensionamento della potenza americana resta quella della perdita del primato nell’innovazione tecnologica e tecnico – militare. Attualmente nessun singolo paese è in grado, da solo, di produrre un simile risultato. Tuttavia, se esperienze di ricerca, capacità e potenziali produttivi di diversi paesi, dovessero trovare forme di sinergia, questa potenzialità potrebbe divenire realistica. Anche per questo gli Stati Uniti hanno bisogno di una “Strategia del Caos” che metta costantemente tutti contro tutti.
E’ inevitabile che questo intreccio di difficoltà, si traduca in una situazione sostanziale di stallo. Da un lato la più grande potenza industrial – militare che la storia ricordi, dall’altro potenze in crescita che già hanno eroso ampi margini alla prima, ma che ancora non sono in grado di contrastarla apertamente. Tuttavia, lo stallo in politica differisce da quello scacchistico per una decisivo particolare: non è ammesso il pareggio. Si può convivere per un periodo più o meno prolungato, in una fase di precario equilibrio, ma primo o poi giunge il momento della resa dei conti. La quale resa dei conti è pressoché da sempre, tragicamente segnata dall’esplodere di una guerra, o da una serie di guerre tanto più estese quanto più generalizzati e coinvolgenti sono gli interessi in gioco. Assai spesso, ad anticipare questa più ampia deflagrazione , concorrono una serie di scontri minori, su teatri “periferici”, dove le rispettive forze si confrontano e misurano se stesse. E’ questo appunto, il caso del conflitto siriano.
A differenza della guerra in Iraq o in Afganistan ed anche di quella lampo in Libia, la guerra “civile” siriana vede schierate in campo almeno due delle maggiori potenze: gli USA e la Russia. Lo scontro in realtà non è limitato solo a questi due contendenti ed ha implicazioni estremamente più ampie. Tuttavia, ciò che va segnalato principalmente è che si tratta del primo teatro bellico di questo genere dai tempi della caduta del Muro di Berlino. Non solo, ma mentre ai tempi della Guerra Fredda, quei modelli di confronto, piuttosto frequenti, erano una sorta di “camera di compensazione” del conflitto maggiore, non esplicabile, si diceva, per “ragioni nucleari”, questo siriano si pone come banco di prova concreto di tenuta politico – militare e di leadership interna tra i rispettivi contendenti.
Secondo il mio canone di interpretazione, trovo il ventilato intervento anglo – americano in Siria, assolutamente impossibile ed insensato. Solo una dirigenza completamente allo sbando ed incapace di intravedere una qualsiasi soluzione alla propria impasse potrebbe avere la follia di infilarsi in un contesto come quello che si aprirebbe in caso di intervento armato. I fatti potrebbero incaricarsi di smentirmi. Negli ultimi anni i gruppi dominanti americani hanno ben dimostrato il loro scadente acume strategico. Un ulteriore passo falso potrebbe non stupire, ma in questo caso avrebbe conseguenze incalcolabili. Per cui, oltre che a non prevederlo razionalmente, mi auguro caldamente che in concreto, l’azione militare non ci sia. Credo che l’esposizione mediatica di questi giorni circa un possibile intervento militare, sia piuttosto indirizzato al conseguimento di un margine di trattativa che impedisca, o quantomeno ammorbidisca il successo della fazione filo russa di Assad. Un conflitto interno come quello egiziano ad esempio, difficilmente potrebbe essere sanato di fronte ad una netta prevalenza anti – americana in Siria ed un suo indefinito prolungarsi potrebbe incrinare la compatta fedeltà dell’esercito del Cairo, sulla quale gli S.U. hanno fino ad ora potuto incondizionatamente contare.
Persino Israele non vede di buon occhio la possibilità di un intervento diretto di parte americana e si è premurato di farlo sapere pubblicamente attraverso la sua fedele portavoce italiana, Emma Bonino, “casualmente” attuale Ministro degli Esteri della nostra repubblichetta. Il senso del messaggio è: “Se perfino i servi italiani scalciano e scuotono la testa, allora non è davvero il caso…”. La crescita della presenza politica di Israele in Italia è dal mio punto di vista evidente. I radicali da sempre sono “ottimi amici” di questa potenza. Lo smembramento della forza politica palestinese, l’indebolimento dell’influenza vaticana operata dagli S.U. e lo stesso comportamento aggressivo ed ondivago di questi ultimi nei confronti di servi e vassalli, hanno contribuito ad indurre non pochi a porsi sotto questo non grandissimo, ma assai robusto ombrello. Tanto più che una sottomissione di questo genere non ha certo un sapore di possibile tradimento come le strizzatine d’occhio berlusconiane a Putin.
In queste ore l’intervento sembra sempre più certo ed imminente, io continuo a dubitarne. Tuttavia esiste sempre la possibilità che il calcolo americano conti su una sostanziale passività russa, al di là delle dichiarazioni di questi giorni. Del resto un precedente esiste, quando i russi, nella Guerra del Kippur, rifiutarono il loro appoggio all’Egitto contro l’intervento diretto degli americani in appoggio all’esercito israeliano sconfitto. Si era nel 1974 ed un intervento sovietico sarebbe stato più che logico, ma non avvenne. I russi pagarono cara la loro rinuncia. Infatti, conclusa la guerra con una pace di compromesso, l’Egitto passò armi e bagagli sotto lo scudo USA. Anche stavolta potrebbe accadere, data le scarse informazioni effettivamente disponibili, tutto è possibile. Ciò non di meno continuo a ritenere l’eventualità di un intervento diretto americano, non effettiva. Vedremo.