IL PROBLEMA DELLA CONTRAZIONE DEL CREDITO ALLE AZIENDE E IL FALLIMENTO POLITICO-ISTITUZIONALE DELL’ITALIA
Sul Sole 24 ore di oggi (14.04.2013) Roberto Napoletano riporta il messaggio che, al convegno delle Piccole Imprese svoltosi a Torino , ha ricevuto direttamente da Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria:
«Le nostre aziende sono sane, ripeto sane, ha capito bene, ma possono comunque fallire da un giorno all’altro, un Paese ridotto così non è un Paese serio».
Napoletano continua criticando la politica del governo Monti nell’ultimo anno capace, secondo lui, di farci uscire dalla “terribile” crisi finanziaria e di credibilità della fine del 2011 ma altrettanto incapace di ascoltare e portare avanti una efficace politica di governo che ci ha così condotto a una serie di errori “capitali”, che hanno messo in ginocchio l’economia reale e hanno moltiplicato le paure, fino al punto di farle diventare contagiose e determinare un clima generale di sfiducia. Il direttore del Sole 24 ore, poi, interviene anche su uno dei temi cruciali della crisi: la mancanza di credito per le piccole e medie imprese. E, a tal proposito, avanza una proposta in questi termini:
<<un nuovo veicolo finanziario di diritto privato che metta insieme chi ci sta e possa offrire le competenze e la dote necessaria per garantire una serie di strumenti (partecipazioni di minoranza, finanziamenti a lungo termine, fondo di rotazione e così via) che possano mettere in sicurezza almeno le aziende italiane sane,[…] ma [che] soffrono pesantemente il morso di una crisi finanziaria determinata da una persistente politica di restrizione del credito>>.
Su questo tema erano intervenuti in maniera più ampia, sul medesimo quotidiano, anche Luigi Guiso e Guido Tabellini (07.04.2013). Il primo punto messo in evidenza dai due economisti riguarda la possibile durata dell’attuale contrazione del credito bancario che pare destinato a durare per anni, perché le banche devono ricostruire il capitale, ridurre la leva finanziaria (1) e ristrutturare per far salire la redditività. A questo punto si tratterebbe di trovare delle alternative al credito bancario; occorrerebbe cioè trovare investitori istituzionali “sviluppati” in alternativa alle banche permettendo a quest’ultime di ritornare in gioco, in futuro, di fronte a imprese più capitalizzate che risulterebbero, perciò, meno rischiose. Inoltre, un mercato delle obbligazioni corporate (2) più sviluppato consentirebbe alle banche di offrire altri servizi, come il collocamento, e libererebbe risorse per il finanziamento delle imprese più piccole, maggiormente dipendenti dal credito bancario. Il ricorso a fondi esteri, pur praticabile, appare abbastanza rischioso sia a causa delle garanzie che bisognerebbe fornire sia per quanto riguarda le loro immancabili pretese riguardo al contributo alla governance delle società partecipate. Tabellini e Guiso riprendono allora in considerazione la vecchia questione della necessità anche per il nostro paese dello sviluppo dei fondi pensione. E d’altra parte è assolutamente vero che siamo ancora agli inizi, in Italia, per quanto riguarda questi importanti investitori istituzionali. Così i due economisti riassumono la situazione attuale:
<<Oggi i fondi pensione amministrano circa 90 miliardi di euro, e vi aderiscono solo il 25% dei lavoratori, in crescita lenta del 5% all’anno. Ma soprattutto, i fondi esistenti sono troppo polverizzati. Nel 2011 se ne contano 545, di cui appena 10 hanno oltre 100 mila iscritti, mentre 137 ne hanno meno di 1,000 (Covip, Relazione annuale sul 2011). Inoltre, anche per via delle piccole dimensioni, i fondi pensione italiani hanno portafogli molto prudenti (investono in azioni solo il 20% dei mezzi) e ben poco in obbligazioni corporate>>.
Secondo Tabellini e Guiso la prima mossa sarebbe quella di promuovere l’aggregazione e la fusione tra i vari fondi che, con un capitale maggiore, potrebbero aumentare di molto la loro quota in azioni e obbligazioni corporate; a cascata, un rafforzamento di questo tipo dei fondi pensione, renderebbe maggiormente fattibile e relativamente rischioso anche il sovvenzionamento del credito alle piccole imprese. L’idea, invece, che una campagna di maggiore e più adeguata informazione potrebbe aumentare in maniera notevole le adesione dei lavoratori ai fondi, non mi pare molto convincente. Perché ciò possa accadere bisogna, infatti, che l’attuale congiuntura – che ha visto l’implementazione delle misure di austerità e della pressione fiscale con conseguente aumento esponenziale della disoccupazione e con l’erosione del potere d’acquisto e quindi del reddito disponibile delle famiglie – venga, in qualche maniera superata, in modo tale da permettere ai lavoratori di poter accantonare una quota di riparmio sufficiente a rendere conveniente investire nei fondi pensione.
Anche la crescita dell’industria dei fondi comuni potrebbe contribuire ad un miglior funzionamento del mercato creditizio italiano, affermano Guiso e Tabellini, soprattutto se si cercasse di superare il conflitto di interessi causato dal fatto che molti fondi sono controllati proprio dalle banche. Secondo i due economisti, infatti,
<<se le banche fossero indotte a separarsi dai fondi di loro proprietà, il sistema ne guadagnerebbe su due fronti. Le banche avrebbero più risorse con cui ricostruire il loro capitale. E l’industria del risparmio gestito riuscirebbe a disfarsi di un conflitto di interesse che danneggia i risparmiatori e ostacola lo sviluppo del mercato dei capitali>>.
Ma la questione più strettamente economico-finanziaria rimane sempre subordinata all’istanza propriamente politica che, nel caso dell’Italia, appare sostanzialmente eterodiretta. La mancanza anche solo di un barlume di aggregazione politica – appoggiata da forze economiche che potrebbero per il momento risultare anche non ingenti – che rivendichi un minimo di indipendenza e autonomia nazionale è il fattore decisivo che ci ha portato in quella situazione di stallo totale a livello politico-istituzionale, che sta riducendo ad una mediocre farsa non solo il teatrino delle istituzioni ”democratiche” e “rappresentative” ma la dimensione culturale, intellettuale e ideale di un sistema –paese ammalato e in procinto di entrare in coma.
- Il termine leva finanziaria o Leverage o rapporto di indebitamento è un indicatore utilizzato per misurare l’indebitamento di un’azienda. Indica concetti diversi a seconda che sia usata in economia aziendale o finanza aziendale. Per verificare che ci sia un corretto rapporto nell’ambito delle fonti di finanziamento si ricorre allora al “calcolo del leverage” secondo la seguente formula:
Nella ragioneria e nella finanza aziendale, il termine leva finanziaria è utilizzato con riferimento a un dato investimento o attività, e denota il rapporto tra indebitamento finanziario netto e patrimonio netto di un’impresa.
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Obbligazioni corporate. Sono le obbligazioni emesse da società private, essenzialmente banche e società industriali. Le obbligazioni corporate, a seconda della struttura si suddividono a loro volta in diverse tipologie. Alle più semplici, come le obbligazioni zero-coupon, a tasso fisso, a tasso variabile o indicizzate a indici di inflazione, si affiancano obbligazioni strutturate, il cui rimborso o la cui remunerazione è legata all’andamento di altre attività finanziarie (tra cui le principali sono tassi di interesse, indici, azioni, fondi e materie prime) ed obbligazioni subordinate.
Mauro T. 14.04.2013