IL RELATIVISMO

Nel suo saggio intitolato L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Max Weber scriveva: <<Per quale concatenamento di circostanze è avvenuto che proprio sul suolo occidentale, e qui soltanto, la civiltà si è espressa con manifestazioni, le quali – almeno secondo quanto noi amiamo immaginarci – si sono inserite in uno svolgimento, che ha valore e significato universale ?>>
Weber si riferiva in particolare alla “più grande forza della nostra vita moderna”, cioè al capitalismo, ma egli probabilmente se potesse stendere un elenco nella situazione attuale includerebbe anche altre istituzioni della modernità “occidentale”: la scienza, il liberalismo, la separazione tra società civile e Stato e quindi tra Stato e religione, lo Stato di diritto, lo Stato sociale, la democrazia, le convenzioni, dichiarazioni e carte – cosiddette universali – dei diritti. Il relativismo (filosofico, culturale e quindi politico), secondo l’interpretazione dei suoi critici, consisterebbe, in primo luogo, nell’affermazione che l’universalità delle istituzioni occidentali sarebbe un’illusione a causa della loro “particolarità” che le rende di dignità e valore “intrinseco” eguale e non superiore rispetto a quelle delle altre culture (civiltà). Nel suo famoso libro sullo scontro di civiltà Samuel Huntington ha sintetizzato questa tesi nei termini seguenti:
<<Nell’emergente mondo di conflittualità etnica e di scontri tra civiltà, la fede occidentale nella validità universale della propria cultura ha tre difetti: è falsa; è immorale; è pericolosa.>>
I critici del relativismo ritengono che sia necessario, prima di tutto, distinguere tra “giudizio” e decisione”, cioè tra “affermare una tesi” – in questo caso una tesi di valore – e “assumere un atteggiamento”, in questo caso un atteggiamento politico. Ad esempio viene ritenuto possibile affermare che l’Occidente è “migliore” dell’islam e, nello stesso tempo, tollerare e rispettare l’islam e dialogare con esso. Insomma un giudizio di valore che dichiarerebbe la superiorità dell’Occidente sull’Islam non implicherebbe la necessità di uno scontro ma è logico domandarsi, invece, se, inversamente, la presenza di conflitti “oggettivi” più o meno acuti uniti a un giudizio di questo tipo non determini una necessaria “lotta per la supremazia” che metta in moto l’uso della violenza e della potenza.
In termini propriamente filosofici il relativismo si coniuga, in genere, secondo due versioni principali: quella contestualista e quella decostruttivista. Si parte sempre dall’idea che non esistono fondamenti ai nostri valori e che non si possono addurre prove e argomenti solidi per stabilire che qualcosa è migliore o vale più di qualcos’altro. Il discorso inizia dal riconoscimento della pluralità dei valori e dalla ovvia constatazione della “non compossibilità di tutti i valori” nel senso che esiste sempre una circostanza in cui perseguire un valore è incompatibile con il perseguirne un altro e si prosegue fino ad affermare la “non confrontabilità” di culture e civiltà le une rispetto alle altre.
Ad esempio nell’impostazione del Wittgenstein delle Ricerche filosofiche viene avanzata la tesi che il significato di un termine è l’uso che se ne fa in un linguaggio e che ogni universo linguistico, qual è quello delle culture o delle civiltà, ha le proprie regole di costruzione, significazione e decisione. I contenuti, perciò, non possono essere separati dai criteri con cui li si giudica. Il vero, il bello, il buono in una comunità sono tali secondo i criteri con cui li si definisce in quella comunità. I criteri sono sempre infra-, mai inter-culturali. Né esistono meta-criteri che possano fissare il vero in sé oppure il “bello” o il “buono” universali. Tutti i criteri, si dice, sono contestuali.
Il tipo di critica che viene opposto a questo approccio contestualista è sostanzialmente comune a posizioni diverse dal punto di vista della visione politica del mondo. Ad esempio, il filosofo teocon Marcello Pera (già ex-presidente del Senato) afferma:
<<Per giudicare se una cultura A sia migliore di una cultura B non occorre un metacriterio comune ad A e B; è sufficiente che i membri di A e di B desiderino impegnarsi in un dialogo e sottoporsi alle critiche reciproche. Durante o alla fine del dialogo, un interlocutore si troverà in difficoltà con l’altro e la tesi di quest’ultimo non sarà la verità (la quale, essendo una proprietà semantica di enunciati, non può essere definita dai criteri epistemici con cui li si controlla) ma certamente sarà la posizione migliore.>>
Pera completa il suo ragionamento rispondendo all’obiezione di chi ritiene che il cambiamento di opinione di uno dei due dialoganti possa <<essere frutto di indottrinamento, di propaganda, di un abbaglio>> ribattendo che <<per riconoscere un abbaglio operante nella cultura B, dovresti avere un criterio di abbaglio comune ad A e B che consentisse di distinguere il reale dall’apparente in entrambe. Ma se c’è un criterio comune a due culture, allora il relativismo dei contestualisti cade.>>
Appare per certi versi simile, ma non certo identica, la posizione del filosofo di derivazione marxista Costanzo Preve:
<<In primo luogo la forma dialogica non è solo il modo in cui si “arriva” alla verità […]ma è anche e soprattutto la forma permanente, continua, ininterrotta ed inesauribile del modo di esistenza della verità per noi. [ …]In secondo luogo, il dialogo veritativo non è mai un semplice cortese e tollerante scambio di opinioni (anche se la cortesia e l’ascolto reciproco sono sempre precondizioni essenziali del dialogo, mentre non lo sono la rabbia ideologica, il fanatismo religioso e la supponenza pseudoscientifica), ma è un filikò agòna, una lotta amichevole per accostarsi al vero.>>
Apparentemente il modello del dialogo veritativo che Preve ricava dalla filosofia dell’antica Grecia e in particolare da Socrate e Protagora sembra riguardare la sola dimensione infraculturale della cultura occidentale ma l’approccio dialogico da lui ricostruito si presta, per il suo carattere universalistico, in un contesto pluralistico rispetto alle altre culture e civiltà – in grado anch’esse di produrre articolazioni linguistico-simboliche di carattere universalistico – ad essere utilizzato per procedure comunicative tra comunità simbolico-culturali differenti.
L’altra principale versione del relativismo è quella decostruttivista declinata in maniera diversa a seconda degli autori a partire da Nietzsche sino ad arrivare a Derrida (1). L’autore francese porta alle estreme conseguenze la capacità di mostrare l’aporeticità dei concetti supposti assoluti o universali. Il processo decostruttivo ha portato Derrida a mostrare che l’ospitalità è una forma di imposizione, che la democrazia è un esercizio di forza, che lo Stato “in quanto tale è una canaglia”. Particolarmente significativa è l’argomentazione relativa all’ospitalità. Riprendo qui una citazione tratta da un testo scritto da un autore che la pensa in maniera diametralmente opposta rispetto al francese, ovverosia proprio il sopra citato Marcello Pera:
<<Derrida parte dalla giusta osservazione che quando si offre ospitalità a uno straniero occorre proteggerlo, anche se la sua cultura ci è estranea. Sembra che il modo migliore per farlo sia quello di estendergli i nostri diritti, insegnandoli in primo luogo il nostro linguaggio in cui sono descritti, i nostri costumi in cui sono calati e le nostre tradizioni da cui sono giustificati. In una parola, il
modo migliore per ospitare uno straniero è integrarlo nella nostra cultura. Ma questo stesso concetto di integrazione, cioè di accettazione condizionata, si rivela aporetico: si finisce col trattare lo straniero non più come un lui, ma come un noi e gli si dà ospitalità nella misura in cui egli cessa di essere uno straniero. Paradossale. D’altro canto, proviamoci a considerare lo straniero precisamente come un lui, cioè ad accettarlo incondizionatamente. Alla riflessione, l’accettazione incondizionata dello straniero confligge con le leggi più elementari dell’ospitalità, perché accettare un altro come un lui senza che egli rispetti i noi distrugge le basi stesse su cui si fonda l’ospitalità. Paradossale anche questo. La conclusione ? L’integrazione – questo bel concetto di cui l’Occidente liberale va fiero – è in realtà una forma di imposizione. E il dialogo, la tolleranza, il rispetto, l’offerta reciproca di incontro e apprendimento ? Derrida non se ne cura, presumibilmente perché si potrebbero decostruire anche questi concetti.>>
Si potrebbe allargare il discorso con altri esempi ma in definitiva il decostruttivismo vuole introdurre il “tarlo” del dubbio in chi ancora crede nell’esistenza di fondamenti “certi”, “ultimi” o “definitivi”; sarebbe possibile, comunque, affermare che, al di fuori dell’ambito delle fedi religiose, non molti continuano a dare credito ancora a fondamenti e/o essenze e in conclusione la decostruzione, – quando venga praticata senza essere inserita in un “progetto teorico” più vasto – sembra spesso rivelarsi incapace di suggerire decisioni pratiche, linee di condotta e scelte politiche. Alla fine la critica “estrema”, come vorrebbe essere quella del grande filosofo francese, mostra la sua debolezza pratico-politica. In Filosofia del terrore (trad.ita. Laterza, 2003) Derrida ha scritto, in riferimento ai conflitti internazionali e al “terrorismo globale”,:
<<Bisogna fare di tutto (compito immenso, spaventoso e di lunga durata) affinché le mancanze attuali, nella situazione presente, siano effettivamente sanzionate e realmente scoraggiate sin da principio da una nuova organizzazione, simile all’ONU, ma modificata nella sua struttura e nel suo statuto, affinché disponga di una forza d’intervento sufficiente e non dipenda più, per mettere in opera le sue decisioni, da Stati-nazione ricchi e potenti, realmente o virtualmente egemonici, in grado di piegare il diritto a loro vantaggio o ai loro interessi.>>
Anche ammettendo che il filosofo francese si esprimesse “in buona fede” (non rincorrendo, cioè, i pensieri più banali e “politicamente corretti”) come minimo dovremo ammettere che egli porta molta acqua “al mulino” di chi pensa che numerosi filosofi vivano con la testa tra le nuvole e non sappiano leggere le configurazioni politiche e sociali – concrete e congiunturali – che la storia, volta a volta, ci propone. Ma lui stesso, nel testo citato sopra, ha provato a giustificare, se così si può dire, il discorso, così irenico e in-fondato, da lui proposto:
<<Continuo a credere che è la fede nella possibilità di questa cosa impossibile […]a dover determinare tutte le nostre decisioni.>>
In conclusione sembra proprio che il relativismo, sia nella versione contestualista che in quella decostruttivista, sia in contraddizione con i fatti. Le tesi contestualiste dell’anarchismo epistemologico: <<Ogni teoria possiede la sua esperienza.[ …]I sostenitori di paradigmi opposti praticano i loro affari in mondi differenti.>> non sono accettabili per chi è interessato al concreto sviluppo delle dinamiche storico-sociali e lo stesso può essere detto in riferimento alle tesi decostruttiviste di Nietzsche:<<I fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni.>> e di Derrida: <<Non c’è fuori-testo. >>Infatti noi pensiamo, invece, che i fatti e il fuori-testo siano indispensabili quando formuliamo le nostre ipotesi che potranno e dovranno essere confermate o confutate; nelle scienze naturali si devono far valere i fatti degli esperimenti e in quelle storico-sociali i fatti storici
(seppure con diverse possibili interpretazioni) e fatti “sociali” come quelli relativi alle aspettative, alle preferenze e ad altre tipologie (di sistemi d’azione) scelte in base alla loro efficacia euristica all’interno di un paradigma teorico determinato.
Per concludere provo ad accennare ad una delle questioni fondamentali, per una seria discussione dei problemi qui proposti, ovverosia al rapporto tra scelte di valori e fede. La prima mossa per evitare un approccio “relativista” consiste infatti nell’assumere sin dall’inizio, come scelta e presa di posizione (individuale o di gruppo), alcuni principi e valori di base, che rimandano in ultima analisi ad una scelta morale, tale cioè da includere non solo la nostra razionalità ma anche la nostra sfera emotiva e il nostro “gusto” e giudizio. Una determinata scelta nel campo dei valori, in quanto vuole e deve tradursi in una pratica e un agire etico e politico, non può mai decadere in quella sorta di fideismo e di paralisi nell’azione (in particolare quella politica) che tende a manifestarsi quando i principi a cui noi abbiamo aderito vengono slegati dai fatti storici e quotidiani e trasformati in un assunto metafisico. Al di là di un elemento di carattere permanente il contenuto concreto di un determinato valore, ad esempio l’eguaglianza, viene stabilito nell’agone della storia, della lotta politica, del conflitto tra dominanti e tra dominanti e dominati all’interno di congiunture che si prolungano in fasi (storico-sociali) volta a volta individuate per comprendere meglio i processi con i quali vogliamo interagire. Termino qui per il momento ma con l’intento di riprendere più avanti il filo di questo discorso.
1) Jacques Derrida. E’ nato il 15 luglio 1930 a El Biar, quartiere di Algeri, terzo di cinque figli di una famiglia di ebrei sefarditi. Nel 2003 viene insignito della laurea honoris causa a Gerusalemme. La sua morte avviene l’anno dopo, nel 2004, in un ospedale parigino, a causa di un tumore al pancreas già in corso da lungo tempo. Prendendo spunto da alcuni motivi emergenti dalla fenomenologia di Husserl, dal pensiero di Heidegger e dalla linguistica strutturalista di Saussure, nonché riprendendo temi propri alla riflessione di Nietzsche e di Freud, Derrida ha elaborato un percorso filosofico, originale e provocatorio, che si caratterizza come decostruzione della “metafisica della presenza”. (Da Wikipedia)
Mauro Tozzato   14.09.2008