Il Social Forum Mondiale e il bisogno di teoria

 di P. Pagliani

1. Si è aperto oggi il Social Forum Mondiale di Belém, in Brasile.

So che alcuni di voi non saranno d’accordo, ma io auguro ai partecipanti un buon lavoro (ad alcuni di meno, ad altri di più).

Tuttavia non credo che con le premesse della convocazione ne potrà uscire un “buon lavoro”. Anzi, ne dubito. E cerco di spiegare perché.

Siamo di fronte, a mio avviso, a una contraddizione toccabile con mano: mentre da una parte il neo-imperialismo statunitense inizia a segnare il passo, frenato dalle sue stesse contraddizioni politiche, economiche e militari, da una Russia rediviva e non più disposta ad accondiscendere, da una Cina depositaria della gran parte dei mezzi di pagamento mondiali e infine da una serie di potenze che stanno approfittando di questa congiuntura, dall’altra parte al contempo assistiamo allo spettacolo di un movimento che si concentra sugli effetti e non sulle cause.

 

2. Ad esempio, la scelta di Belém, nella foresta amazzonica, ha un dichiarato significato ecologico. L’emergenza ambientale sarà il tema principale dei lavori, a quanto ho letto. C’è chi si fermerà alla biodiversità e chi invece lavorerà sulla connessione tra conflitti ambientali e conflitti sociali (cosa che, comunque sia, reputo un punto di vista più avanzato). E’ un movimento composito. E alla fine c’è il rischio, come è già successo, che verranno proposte  in un unico documento cose che a me sembrano totalmente contraddittorie, come ad esempio la decrescita e contemporaneamente l’aumento dei consumi da parte di quel 75% delle persone che ora consuma solo il 20% delle risorse (e a ricomporre la contraddizione non basterà né la diminuzione dei consumi dell’attuale famelico 25%, né l’attesa dello sviluppo equosostenibile – i consumi e le risorse non fluiscono per vasi comunicanti).

Chi ha letto i miei contributi sa che benché non condivida la priorità data alla questione ambientale (per me subordinata ai movimenti storici della società in senso ampio) e benché sia molto cauto sui suoi assunti scientifici, tuttavia non nego che il capitalismo induca una questione ecologica. Ma sono molto imbarazzato di fronte a proposte incoerenti, perché in definitiva, si ha l’impressione che ci si trovi di fronte a una profonda difficoltà a interpretare ciò che sta succedendo.

 

3. Ho citato un esempio legato all’ecologia. Ma prendiamo adesso due temi attualissimi di carattere differente.

La crisi.

Anche qui c’è un’inversione, perché quella che vediamo non è una crisi che tra le tante conseguenze ha anche quella di ridefinire i rapporti di forza globali (e purtroppo è già tanto quando queste conseguenze vengono contemplate). Il problema sta all’inverso: quello a cui assistiamo è l’esito della difficoltà statunitense a far sistema, è il sintomo della difficoltà di governare una crisi già iniziata negli anni ’70. Una crisi di carattere sistemico, cioè relativa ai rapporti di forza globali, sia quelli direttamente politico-militari, sia quelli che si manifestano nella sfera economica e finanziaria. Nonostante tutti gli effetti di feed-back, non è lecito  scambiare il carro coi buoi.

Per intenderci, il problema non è tanto che la guerra in Iraq sia una three trillion dollar war, come contabilizza il premio nobel Stiglitz, il problema è che quei three trillion dollar, proprio quelli lì che servono agli USA, ce li ha la Cina, una potenza nucleare con 1.300.000 abitanti. Quello è il punto.

E’ una crisi, quindi, che non ha un andamento monotóno e prevedibile, proprio perché non è  una pura crisi economica e finanziaria, anche se è dalla finanza che sono iniziati i sintomi più evidenti. 

Vogliamo ricordarci che anche negli anni ’70, all’inizio della crisi sistemica, l’America sembrava con le pezze al culo? Stava perdendo la guerra nel Vietnam (con 58.000 morti di leva, non i 4.200 volontari dell’Iraq), dovette dichiarare l’inconvertibilità del dollaro in oro, il debito iniziò a partire per la tangente così come la deflazione e il tasso di disoccupazione e la sua economia entrò in una profonda recessione trascinando con sé quella mondiale. Eppure trentacinque anni dopo, l’imperialismo americano era di nuovo in grado di scatenarsi a livello mondiale. Ma questo non è il mistero della resurrezione di Lazzaro, se solo ci si rendesse conto che inconvertibilità, disoccupazione, deflazione e recessione, benché legati da meccanismi tecnici interconnessi, non sono state conseguenze delle bronzee leggi dell’economia, ma di scelte politiche mirate al recupero della potenza statunitense. Come a dire, suppergiù, che se io decido di  buttare una bomba atomica su Hiroshima, quella è una decisione politica. Tutta la sequenza di lancio e la reazione a catena sono governate da leggi fisiche che però non si sarebbero poste in essere da sole. E anche l’effetto finale non pertiene alla fisica, ma alla sfera della società.

Vorrei di nuovo ricordare che anche nel ’29 gli Stati Uniti sembravano con le pezze al culo. Nel ’39, dopo dieci anni, il suo PIL non era ancora ritornato ai livelli pre-crisi. Ebbene, nel 1945 gli Stati Uniti erano i padroni del mondo.

E’ così difficile pensare a queste cose prima di mettersi a parlare di “crollo del capitalismo”, “fine della capacità del capitalismo di far sistema”, “fine del modello di sviluppo capitalistico” (come se poi fosse un modello di sviluppo – a dire il vero,  specialmente in Italia spesso si evita di usare il termine “capitalismo”: “modello di sviluppo” da solo è più ecumenico, meno impegnativo). E’ così difficile? Sembra di sì.

 

4. Curiosamente, mentre si sbizzarrisce a trovare il miglior termine per descrivere la “fine del capitalismo” preannunciata dalla crisi attuale, il movimento alteromondista interpreta la crisi stessa secondo uno schema che non porta necessariamente ad alcun esito fatale. Ma non perché abbia imparato le lezioni della Storia, ma per opportunismo o per semplice miseria teorica.

Tipicamente viene usato questo schema: collasso di un sistema insostenibile perché basato su un capitalismo liberista e per giunta in balia di una finanziarizzazione creativa.

Voglio far notare la catena: capitalismo-liberista-finanziario-creativo. In questi quattro termini ognuno si può riconoscere.

Vi si riconosce il ministro Tremonti, che critica la coppia “finanziario-creativo” a partire, come importanza, dall’ultimo. Vi si riconosce la sinistra riformista, che si focalizza sulla coppia “liberista-finanziario” con maggior enfasi sul secondo termine. Vi si riconosce la cosiddetta “sinistra antagonista” che concentra le sue critiche sulla coppia “capitalismo-liberista” privilegiando il secondo termine, onnipresente nei suoi strali e, infine, vi si riconosce la sinistra di classe dura e pura che invece con approccio più ortodosso riconduce tutto al primo termine, “capitalismo”, inteso come perenne lotta tra lavoro salariato e capitale.

Se si esamina la pubblicistica legata all’esperienza del Social Forum Mondiale, si vedrà che questo è il ventaglio delle posizioni, solitamente molto addensate sulla critica al neoliberismo; ma abbiamo anche esempi di chi prende in considerazione l’intera quadrupla, spostando l’accento di qui o di là a seconda di ciò che si vuole sostenere, secondo un tipico approccio confusionario e privo di rigore.

Quali sono le relazioni tra questi quattro termini, quale movimento dialettico li collega, quale ragione storica li fa emergere come categorie che si concretizzano e non come pseudo-categorie iperuraniche adattabili a ogni tipo di bla bla (come lo è “globalizzazione” madre di tutte le pseudo-categorie),  tutto questo rimane senza risposta.  

 

5. Il secondo tema riguarda l’incapacità di percepire i conflitti geostrategici in atto e farne oggetto di discussione politica. L’assunto in questo caso è: “L’imperialismo è conseguenza del capitalismo, ergo il conflitto capitale-lavoro è la contraddizione principale, con tutti i suoi risvolti internazionalisti”.

Possiamo ancora una volta citare il manifesto di convocazione della  manifestazione dell’11 ottobre scorso per il “rilancio della sinistra di classe e antagonista”, dove veniva denunciato l’imperialismo USA ma anche la “sindrome di grande potenza che sta impossessandosi della Russia di Putin”.

Incidentalmente c’è da sottolineare che per lo meno si è smesso di parlare di “Impero” alla Hardt-Negri (ma solo da parte di alcuni, comunque). E tuttavia non possiamo non sottolineare un “ma-anchismo” addirittura sfacciato dopo l’attacco della Georgia all’Ossetia del Sud di due mesi prima.

Non solo, non ho letto da nessuna parte un’analisi che inserisse l’attacco a Gaza  nel più generale contesto geopolitico (io ho cercato di farlo ma con poco seguito). Tipicamente ci si altalenava tra una iper-specificità del conflitto israelo-palestinese e una necessità da parte dei sionisti di finire lo scempio prima dell’insediamento di Obama.

Scartando la pseudo-giustificazione idiota che Obama sarebbe pacifista, il perché di questa “premura” non è dato a sapere. E ciò non meraviglia, ovviamente, perché c’è a monte un’incapacità di capire come mai Mr. Obama is in office. Il meglio che si possa ottenere è la ripetizione dogmatico-precauzionale della frase “Tanto non cambierà niente”. Il che non è molto. Anche perché non è vero. E non per il “pacifismo” di Obama.

 

6. Mi dispiace, quindi: con tutta l’amicizia e la stima che ho per diversi partecipanti al Forum di Belém, per il loro idealismo, i loro sforzi e le cose che mettono in pratica, devo con tutta franchezza dire che con queste premesse non ne uscirà un buon lavoro. Ne uscirà al più tanta buona volontà. Ma non basta. Non basta, specialmente quando questa buona volontà sarà avvolta dalla melassa della confusione teorica, che tutto impiastriccerà rendendo difficile ogni movimento reale, nonostante le cose che in un luogo o nell’altro qualcuno riuscirà  a fare con molti sacrifici.

Siamo da poco usciti dalla sconfitta storica del comunismo novecentesco. Un evento che, piaccia o no, tocca anche chi se ne sentiva soggettivamente lontano. Questa sconfitta – o più precisamente questo collasso, perché il comunismo storico novecentesco non è stato sconfitto in battaglia -, ha comportato la caduta di una teoria: il marxismo. Volenti o nolenti è così. Anche in questo caso i ciechi possono non vedere, mentre i dogmatici e i nostalgici hanno il diritto di mettersi le fette di salame sugli occhi.

Da una parte è un dramma storico, ma dall’altra è un’opportunità perché, come si sa, la nottola di Minerva spicca il volo solo quando sono calate le tenebre. Abbiamo quindi la possibilità di rivedere e vedere tutto con occhi nuovi. Finché il marxismo novecentesco lanciava ancora i suo barbagli tutto ciò non era possibile o non lo era sufficientemente. Bisognava aspettare lo smorzarsi degli ultimi scintillii di luce riflessa di quella teoria un tempo gloriosa. Ciò è quanto ci ha insegnato non solo Hegel, ma innanzitutto Marx stesso. Ora, a luci spente, possiamo finalmente applicare l’approccio scientifico di Marx per capire la parabola del marxismo e per capire ciò che ci si prospetta davanti.

Non c’è altra soluzione. E purtroppo non ci sono nemmeno scorciatoie, che sarebbero così utili in questo incalzare di eventi. In certi casi possiamo solo scansare per istinto ostacoli o  trappole rimandando la reale comprensione della loro natura a dopo. Non è un gran che, si possono fare errori, ma è meglio che seguire i pifferai magici. In altri casi riusciamo a usare qualche antenna teorica anche se ancora di modesta portata. Insomma, credo che siamo indietro, ma di sicuro non  siamo i peggio.

Ma perché fissarsi ancora sulla “teoria”? Ebbene, io sono ancora convinto che senza teoria rivoluzionaria, non solo non ci può essere rivoluzione, ma neppure una ben fondata resistenza.

Siamo avvolti nelle tenebre, andremo avanti a tentoni, è sicuro. Sbatteremo il naso di qua e di là, ne siamo certi. Ma se nel nostro cervello non avremo neppure una parvenza di coordinate concettuali entro cui elaborare i segnali inviati dai nostri sensi, saremo costretti a vagolare a casaccio o, peggio ancora, in balia degli eventi.

 

P. Pagliani

 

(Con l’occasione comunico che d’ora in avanti mi firmerò come “Piotr”).