IL SOGNO DI UN FILOSOFO RIDICOLO
Chi è l’uomo che sogna “il comunitarismo democratico e universalizzabile”, “l’idea di una comunità umana, composta da individui uniti da rapporti liberi, solidali ed all’insegna del riconoscimento reciproco”, l’ “ideale di comunità umana universalistica emancipata dall’alienazione”? Chi è questo “patafilosofo” eccitato, ciarliero e ciarlatano, che parla dell’irrealizzabile mentre si prende tutto il possibile, in contanti e con tanti tanti complimenti dall’Accademia e dai mass media? Chi è che, senza un’analisi seria dei rapporti sociali, senza capire che il Capitale stesso è, innanzitutto, un rapporto sociale, quello che dà forma e sostanza alle relazioni collettive nelle nostre formazioni sociali, scrive e non descrive, saltando di palo in frasca e da un canale televisivo all’altro, il capitalismo assoluto, la supremazia finanziaria, la mercificazione umana ecc. ecc.?
Chi è, simil marrano occhialuto che guarda lontano ma non vede ad un palmo di naso? Sicuramente un uomo ridicolo, come quello del racconto di Dostoevskij che riportiamo sotto. Eppure, la sua narrazione fintamente accalorata ed epistemologicamente inventata nasce da un fraintendimento del pensiero di Marx, come ha spiegato molte volte il nostro Gianfranco La Grassa. Quest’ultimo ha scritto, appunto, nel suo “Panorama Teorico” che: “… Il capitalismo ha comportato la generalizzazione del mercato a livello mondiale. Una “scoperta sconvolgente”, che farebbe di Marx soltanto un seguace minore dei “classici”, di Adam Smith, che già sapeva come il capitalismo fosse produzione generalizzata di merci; e rivendicava al mercato il grande merito di premiare chi produce meglio e a costi (impiego di risorse) minori. Era inoltre disincantato nel considerare i vantaggi della produzione mercantile, tanto da affermare che ci si deve aspettare la buona carne dall’interesse egoistico del macellaio e non dalla sua benevolenza. Una società che fa gli interessi dell’insieme degli individui in società, poiché spinge ognuno ad accrescere la quantità di beni prodotti e a migliorarne la qualità abbassandone anche i costi e quindi i prezzi (l’esborso di denaro per chi li acquista) – ed ottiene simili risultati non facendo “cristianamente” appello alla bontà, ma utilizzando invece l’egoismo individuale – non può che prevalere su ogni altro sistema produttivo sociale, espandendosi quindi a macchia d’olio a partire da un’area iniziale (che fu, storicamente, l’Inghilterra).C’era bisogno di Marx per capire questo? Solo per chi ha vagamente sentito parlare del marxiano feticismo delle merci e l’ha confuso con i processi di alienazione dell’essere umano. Il feticismo “che s’appiccica alle merci” ha in Marx tutt’altro significato; quello per cui egli sostenne che non ci sarebbe bisogno di scienza se l’apparenza sensibile delle cose e dei processi corrispondesse al loro reale “esserci”. La merce è un feticcio perché all’individuo, immerso nell’immediata cosalità della vita quotidiana, trasmette un dato significato della sua esistenza. Un significato che tale individuo dovrebbe accettare quale dato immodificabile, un processo retto da leggi oggettive cui egli deve semplicemente sottostare, cercando di volgerlo a suo favore; appunto in base a quanto sostenuto da Smith e appena sopra considerato….Se Marx avesse semplicemente “profetizzato” che il capitalismo portava al mercato globale, avrebbe allora affermato, come un liberale qualsiasi, che tale società assicurava l’eguaglianza tra individui in tutto il mondo, seppellendo con questa decisiva arma mercantile tutte le società arcaiche fondate su rapporti di dipendenza personale, sull’autoritarismo di dati gruppi sociali dominanti. Non a caso, la diffusione del capitalismo (anche all’interno di ogni singola nazione, in cui esso sconfisse le forme feudali o semitali, ecc.) condusse, contemporaneamente, al generale estendersi e allargarsi della “democrazia” fondata sul suffragio elettorale universale. Questo è quanto hanno capito di Marx alcuni che inneggiano alla sua grandezza? Credono che l’unico suo messaggio alternativo fosse l’esistenza dell’ingiustizia, della forza e dell’inganno? Non hanno capito proprio nulla di Marx e della sua critica anticapitalistica.
Per questo è importante comprendere quello che Marx ha “realmente” affermato, cioè quello che, sempre La Grassa, chiama il “I disvelamento” marxiano (ovvero l’eguaglianza formale sul mercato che è disuguaglianza effettiva nel processo produttivo, dove si confrontano detentori/proprietari di mezzi di produzione ed erogatori di mera forza lavoro), la sua scoperta scientifica più importante. Come ho scritto altrove nello spirito di Marx era presente una potente carica scientifica che permetteva di dipanare al meglio alcuni aspetti del modo di produzione capitalistico e della formazione collettiva ad esso associata, empiricamente non visibili o emergenti in maniera rovesciata sullo strato superficiale della realtà. Tale prospettiva ha aperto, per la prima volta, un continente sociale inesplorato, sia teoretico che storico, ed ha spazzato via certe bizzarrie ideologiche dell’economica dominante, classica e neoclassica, attraverso le quali, sacerdoti ed imbonitori di sistema, puntellavano e giustificavano l’esistente pro tempore facendolo risalire ad una romantica natura umana senza età, evitando così di penetrare nei concreti rapporti di forza informanti la società del Capitale.
Si è trattato di una fondamentale rottura epistemologica che, tuttavia, non basta più a sceverare ed esaminare l’attuale formazione dei funzionari (privati) del Capitale, di matrice americana, fondantesi su altri presupposti e relazioni di forza.
La Grassa va oltre questo impasse teorico frutto di un errore mai affrontato (per mancanza di categorie) e mai ammesso (per furba convenienza) dai marxisti della cattedra e della “strada”, ognuno tetragono al ravvedimento per motivi diversi ma speculari. La Grassa con il suo II° disvelamento, che non contraddice quello marxiano, acquisito ed entrato a far parte del nostro patrimonio scientifico (come egli stesso ama ripetere, senza Galilei non ci sarebbe stato Newton e senza quest’ultimo non ci sarebbe stato Einstein), cerca di oltrepassare il guado. Lo fa mutando prospettiva teorica e con ciò allargando il campo d’indagine precedente (il quale, seppur non strettamente economicistico, risultava ancora troppo schiacciato sulla sfera economica pensata quale base assoluta dell’intera società). Il II° disvelamento, sostiene La Grassa, “impone di mettere senza più esitazioni al centro dell’analisi il principio della “razionalità” strategica, applicata al conflitto in quella che è la politica tout court, ovunque venga svolta: nella sfera politica vera e propria, in quella economica, in quella ideologico-culturale. Tale politica si condensa nei vari “macrocorpi” (Stato e apparati politici, imprese, ecc.) che diventano gli “attori” della battaglia nel campo del suo svolgimento, i portatori soggettivi di dinamiche conflittuali oggettive; non colte in sé ma sempre interpretate con ipotesi che nascono dalle teorie formulate all’uopo (e sempre riviste e ri-formulate di epoca in epoca). Il conflitto (strategico), “essenza” della politica, pur essendosi esteso – durante il passaggio al capitalismo, cioè alla sua prima formazione sociale, quella borghese – alla sfera economica, non fa di quest’ultima quella ormai predominante e da cui tutte le altre dipenderebbero (deterministicamente o con “azione di ritorno”, che è un semplice “meccanicismo incrociato”, una mera interazione)’.
Ecco un buon “tentativo” di rinnovamento teorico, dopo anni di sragionamenti ideologici e identitari, caratterizzato dal riconoscimento dei precedenti abbagli, quelli che solo il rigore scientifico può, segnalare, individuare, correggere, conservare o accantonare. Lo scopo è di aggiornare la nostra comprensione del funzionamento sistemico e con essa la conoscenza del mondo, mondo ridotto a mondanità accogliente e ben pagante dalle false utopie propagandate dai filosofastri loquaci e presenzialisti.
Ed ora godetevi pure questa piccola parte del racconto di Dostoevskij, quella che narra dell’uomo ridicolo, vittima della cattiveria dei suoi simili. Costui raggiunge in sogno un altro pianeta dove la comunità umana vive in massima armonia e solidarietà, finalmente pacificata e libera dai suoi più bassi istinti. Tutto accade altrove, ça va sans dire, non sul nostro pianeta dove i rapporti tra gli uomini sono di differente tenore. Tuttavia, pure su quell’astro remoto accade qualcosa di imponderabile. L’arrivo del visitatore straniero insinua tra gli extraterrestri umanoidi il germe dell’imperfezione e della corruzione ed ogni cosa si altera e decade. Il protagonista della storia è, però, riuscito a scorgere la bellezza di quel posto e ritornando sulla Terra non può fare a meno di predicare quell’assurda allucinazione. E’ cosciente dell’impresa impossibile ma ci prova ugualmente. Proprio come i nostri assurdi filosofessi che non oso nemmeno immaginare che trip si siano fatti prima di venire a presentarci i loro miraggi.
F. Dostoevskij, il sogno di un uomo ridicolo (estratto)
…Un essere scuro e sconosciuto mi prese e noi ci ritrovammo nello spazio. A un
tratto riacquistai la vista: era notte fonda e mai, mai prima di allora aveva
fatto tanto buio! Noi volavamo nello spazio ormai lontani dalla terra. Non
domandai nulla a colui che mi trasportava: attendevo con fierezza.
Convincevo me stesso di non aver paura e venivo meno dalla gioia al
pensiero di non avere paura. Non ricordo per quanto tempo volassimo e non
ne ho alcuna idea: tutto avvenne come sempre avviene nei sogni quando
attraversi con un balzo lo spazio e il tempo, sei al di sopra delle leggi
dell’essere e della ragione e ti arresti soltanto sui punti dei quali sogna il tuo
cuore. Ricordo che a un tratto scorsi nell’oscurità una minuscola stella. «È
Sirio?», domandai, non riuscendo più a trattenermi, dato che mi ero proposto
di non fare alcuna domanda. «No, è proprio quella stessa stella che hai visto
in mezzo alle nuvole mentre ritornavi a casa», mi rispose l’essere che mi stava
trasportando. Sapevo che esso aveva un aspetto simile all’umano. Cosa strana,
quell’essere non mi piaceva, provavo anzi una profonda avversione per lui.
Mi attendevo una totale inesistenza e a questo scopo mi ero sparato al cuore.
Ed ecco invece che mi trovavo nelle mani di un essere, non umano,
naturalmente, ma che c’era, esisteva: «Quindi, anche dopo la tomba c’è vita!»,
pensai con la strana leggerezza del sogno, ma la sostanza del mio cuore
rimaneva con me in tutta la sua profondità: «E se occorre essere di nuovo»,
pensai, «e vivere di nuovo per l’inesorabile volontà di qualcuno, non voglio
essere vinto e umiliato!». «Tu sai che ti temo e per questo mi disprezzi», dissi
a un tratto al mio accompagnatore, senza riuscire a trattenermi dal fare quella
domanda umiliante, nella quale era racchiusa la mia confessione, e sentendo
nel mio cuore, come una puntura di spillo, l’umiliazione. Egli non rispose alla
mia domanda, ma io a un tratto mi resi conto che nessuno mi disprezzava,
nessuno rideva di me, che persino nessuno mi commiserava e che il nostro
viaggio aveva una meta sconosciuta e misteriosa che concerneva me soltanto.
La paura cresceva nel mio cuore. Una sensazione muta ma dolorosa si
trasmetteva dal mio silenzioso accompagnatore a me e sembrava mi
permeasse tutto. Volavamo attraverso spazi oscuri e sconosciuti. Già da un
pezzo avevo cessato di vedere le costellazioni familiari al nostro occhio.
Sapevo che negli spazi celesti vi sono talune stelle i cui raggi impiegano
migliaia e milioni di anni per giungere sulla terra. Forse stavamo già volando
attraverso quegli spazi. Io attendevo qualche cosa con un’angoscia spaventosa
che mi straziava il cuore. E all’improvviso un sentimento noto e al massimo
grado allettante mi sconvolse: a un tratto vidi il nostro sole! Sapevo che quello
non poteva essere il nostro sole, quello che ha generato la nostra terra e che ci trovavamo a una smisurata distanza dal nostro sole, ma, non so perché, ero
certo con tutto il mio essere che quello era esattamente lo stesso sole che
splende sulla terra, una replica e un sosia di esso. Quel sentimento dolce e
allettante fece vibrare d’entusiasmo la mia anima: la forza familiare della luce,
di quella stessa luce, che mi aveva generato, si riverberava nel mio cuore
resuscitandolo, e io avvertii la vita, la mia vita di prima, per la prima volta
dopo la mia morte.
«Ma se questo è il sole, se questo è un sole assolutamente identico al nostro»,
proruppi io, «dov’è allora la terra?». E il mio accompagnatore mi indicò una
minuscola stella che brillava nell’oscurità di un fulgore smeraldino. Stavamo
volando diritti verso di essa.
«Sono dunque possibili simili ripetizioni nell’universo, è tale, dunque, la legge
naturale?… E se quella laggiù è la terra, possibile che essa sia uguale alla
nostra terra… esattamente uguale, disgraziata, povera, ma cara ed
eternamente amata, generatrice di un altrettanto tormentoso amore verso di
sé, anche nei suoi figli più ingrati, come la nostra?…», gridai scosso da un
incontenibile, entusiastico amore per quell’altra terra di prima che avevo
abbandonato. L’immagine della povera bambina che avevo offeso mi balenò
davanti.
«Vedrai tutto da te», rispose il mio accompagnatore, e nella sua voce si avvertì
una nota di tristezza. Ma stavamo avvicinandoci rapidamente al pianeta. Esso
si ingrandiva sempre più davanti ai miei occhi e distinguevo già l’oceano e i
contorni dell’Europa, quando, a un tratto, uno strano sentimento di grande,
sacra gelosia si accese nel mio cuore: «Come può esistere una simile
ripetizione e a che scopo? Io amo, io posso amare soltanto quella terra che ho
abbandonato, sulla quale sono rimasti gli spruzzi del mio sangue, quando io,
ingrato, sparandomi al cuore ho spento la mia vita. Ma mai, mai ho cessato di
amare quella terra, e persino quella notte, prendendo congedo da essa forse
l’amavo più tormentosamente che in qualunque altro momento. Esiste forse la
sofferenza su questa nuova terra? Sulla nostra terra noi possiamo amare
veramente soltanto con sofferenza e attraverso la sofferenza! Noi non siamo
capaci di amare in altro modo e non conosciamo altro amore. Io voglio la
sofferenza per amare. Io voglio, io ardo dal desiderio di baciare in
quest’istante medesimo, inondandomi di lacrime, soltanto quell’unica terra
che ho lasciato e non voglio, non accetto la vita su nessun’altra!…».
Ma il mio accompagnatore mi aveva già abbandonato. A un tratto, in modo
per me del tutto inavvertito, mi ero posato su quest’altra terra nella vivida
luce di una giornata assolata, incantevole, paradisiaca. Mi trovavo, credo, su
una di quelle isole che formano l’arcipelago greco, o in qualche luogo sulle
rive del continente limitrofo a questo arcipelago. Oh, tutto era esattamente
come da noi, ma sembrava che ogni cosa ovunque brillasse di una luce festosa
e di una grande, santa e finalmente raggiunta solennità. Il carezzevole mare
9color smeraldo sciabordava quietemente contro le rive, lambendole con un
amore evidente, palese, quasi consapevole. Stupendi, altissimi alberi si
ergevano in tutta la magnificenza del loro colore, mentre le loro innumerevoli
foglioline, ne sono convinto, mi salutavano col loro fruscio quieto e
carezzevole, e sembrava mi sussurrassero non so che parole d’amore. In
mezzo all’erba risplendevano fiori dai colori vivaci e profumati. Gli uccellini a
stormi attraversavano l’aria e senza alcuna paura mi si posavano sulle spalle e
sulle mani facendo frullare gioiosamente contro il mio viso le loro dolci,
trepide alucce. E, finalmente, scorsi e riconobbi gli abitanti di quella terra
felice. Furono loro ad avvicinarsi a me circondandomi e baciandomi. I figli del
sole, i figli del loro sole – oh, com’erano belli! Non avevo mai visto sulla nostra
terra una simile bellezza in un essere umano. Forse soltanto nei nostri
bambini nei primissimi anni della loro infanzia si può trovare un lontano e
pallido riflesso di quella bellezza. Gli occhi di quegli esseri felici brillavano di
una vivida luce. I loro volti risplendevano di intelligenza e di una sorta di
consapevolezza compiuta e serena, ma erano volti allegri; nelle parole e nelle
voci di quelle persone echeggiava una gioia fanciullesca. Oh, compresi
immediatamente tutto, tutto, fin dal primo sguardo! Quella era una terra non
lordata dal peccato, su di essa vivevano persone che non avevano peccato, e
vivevano in un paradiso simile a quello nel quale avevano vissuto, secondo le
tradizioni di tutta l’umanità, anche i nostri progenitori che caddero nel
peccato, con la sola differenza che tutta la terra qui era un unico e identico
paradiso. Quelle persone si affollavano attorno a me ridendo gioiosamente e
mi facevano ogni sorta di gentilezze; mi condussero con loro e ognuno voleva
tranquillizzarmi. Oh, essi non mi chiesero nulla, ma era come se sapessero già
tutto, così mi parve, e volessero scacciare al più presto la sofferenza dal mio
volto.
IV
Lo vedete, dunque, di nuovo? Mettiamo pure che sia stato soltanto un sogno!
Ma la sensazione dell’amore di quegli esseri innocenti e meravigliosi è rimasta
in me per sempre e io sento che il loro amore si effonde su di me di laggiù
anche ora. Io li ho visti coi miei occhi, li ho conosciuti e ne sono stato
convinto, li ho amati e in seguito ho sofferto per loro. Oh, avevo compreso
subito, perfino allora, che in molte cose non li avrei assolutamente capiti; a
me, come a qualsiasi odierno progressista russo e abominevole
pietroburghese, risultava inspiegabile il fatto, per esempio, che essi, pur
conoscendo tante cose, non possedessero la nostra scienza. Ma ben presto
compresi che il loro sapere veniva integrato e alimentato da ben altre
intuizioni delle nostre sulla terra e che le loro aspirazioni erano
completamente diverse. Essi non desideravano nulla ed erano tranquilli, essi
10non anelavano alla conoscenza della vita come ad essa aneliamo noi, perché la
loro vita era piena. Ma il loro sapere era più profondo e più alto della nostra
scienza; poiché la nostra scienza cerca di spiegare che cos’è la vita, si sforza
essa stessa di comprenderla per insegnare agli altri a vivere; loro invece
sapevano come dovevano vivere anche senza la scienza, e questo lo compresi,
ma non riuscii a comprendere le loro conoscenze. Essi mi indicavano i loro
alberi e io non riuscivo a comprendere il grado d’amore con cui essi li
guardavano: era esattamente come se stessero parlando con dei loro simili. E
sapete, forse non mi sbaglio se dico che essi parlavano con loro! Sì, essi
avevano scoperto la loro lingua e sono convinto che quelli, a loro volta, li
comprendevano. Allo stesso modo essi guardavano tutta la natura, gli
animali, i quali vivevano con loro pacificamente senza assalirli e li amavano,
vinti dal loro stesso amore. Essi mi indicavano le stelle e parlavano di esse con
me, dicendomi delle cose che non riuscivo a comprendere, ma sono convinto
che essi entravano come in contatto con gli astri celesti, non soltanto col
pensiero, ma per una qualche via vivente. Oh, quelle persone non cercavano
neppure di farsi capire da me, esse mi amavano anche così, ma, in compenso,
io sapevo che anche loro non mi avrebbero mai compreso e perciò non
parlavo loro quasi affatto della nostra terra. Baciavo solamente davanti a loro
la terra sulla quale essi vivevano e senza parlare li veneravo, e loro vedevano
questo e si lasciavano venerare, senza vergognarsi che io li venerassi perché
molto amavano essi stessi. Essi non soffrivano per me quando, in lacrime, a
volte baciavo i loro piedi, sapendo gioiosamente in cuor loro con quanta forza
d’amore mi avrebbero corrisposto. A tratti mi domandavo con stupore come
potessero non offendere mai uno come me e non suscitare neppure una volta
un sentimento di gelosia e di invidia in uno come me. Molte volte mi
domandavo come facessi io, millantatore e bugiardo, a non parlar loro delle
mie conoscenze, delle quali, naturalmente, essi non avevano alcuna idea, e a
non provare il desiderio di far colpo su di loro con esse, fosse pure soltanto
per amore verso di loro. Essi erano vivaci e allegri come bambini. Vagavano
per i loro bellissimi boschi e boschetti, cantavano le loro bellissime canzoni, si
nutrivano di cibi leggeri: i frutti dei loro alberi, il miele dei loro boschi e il
latte dei loro amorosi animali. Per procurarsi il cibo e gli indumenti
lavoravano soltanto un poco e senza fatica. Tra loro esisteva l’amore e
nascevano dei bambini, ma non ho mai notato in loro gli accessi di quella
feroce sensualità dalla quale sulla nostra terra sono affetti quasi tutti, tutti e
ciascuno, e che è pressoché l’unica fonte di tutti i peccati della nostra umanità.
Essi si rallegravano dei figli che nascevano loro in quanto nuovi partecipi
della loro beatitudine. Tra loro non v’erano litigi e non v’era gelosia, ed essi
non comprendevano neppure che cosa ciò significasse. I loro figli erano i figli
di tutti perché essi formavano un’unica famiglia. Tra di loro non v’erano quasi
malattie, sebbene esistesse la morte; ma i loro vecchi morivano placidamente,
come se si addormentassero, circondati dalle persone che si accomiatavano da
loro, benedicendoli, sorridendo loro, e, a loro volta, accompagnati dai loro
radiosi sorrisi. In tali occasioni non vidi mestizia o lacrime, ma regnava
soltanto un amore che pareva accrescersi fino all’estasi, ma un’estasi quieta,
11appagata, contemplativa. Si sarebbe potuto pensare che essi continuassero a
essere ancora in contatto con i loro morti, anche dopo la loro morte, e che la
comunione terrena tra loro non venisse interrotta dalla morte. Essi quasi non
mi comprendevano quando chiedevo loro della vita eterna, ma erano
evidentemente così convinti di essa inconsapevolmente che ciò per loro non
costituiva un problema. Non avevano templi, ma vivevano in una sorta di
connaturata, viva e incessante comunione con la Totalità dell’universo; essi
non avevano una fede, ma in compenso avevano la ferma consapevolezza che
quando la loro felicità terrena fosse giunta a compimento raggiungendo i
limiti della natura terrena, sarebbe sopravvenuto per loro, sia che fossero vivi
o che fossero morti, un allargamento ancora maggiore del loro contatto con la
Totalità dell’universo. Essi attendevano questo momento lietamente, senza
fretta, senza soffrire a causa di esso e come possedendolo già nei
presentimenti del loro cuore di cui si parlavano a vicenda. La sera, prima di
ritirarsi per il sonno, amavano intonare cori concordi e armoniosi. In questi
canti essi esprimevano tutte le sensazioni che aveva procurato loro il giorno
che se ne andava, glorificandolo e accomiatandosi da esso. Essi glorificavano
la natura, la terra, il mare, i boschi. Amavano comporre canzoni gli uni sugli
altri, lodandosi come bambini; erano canzoni di una estrema semplicità, ma
esse sgorgavano dal cuore e toccavano il cuore. Né ciò accadeva solo nei loro
canti: pareva che essi trascorressero la vita intera a compiacersi l’uno
dell’altro. Era una sorta di innamoramento reciproco, totale e generale. Taluni
loro canti, solenni ed entusiastici, quasi non li comprendevo affatto. Pur
comprendendone le parole non riuscii mai a penetrarne appieno il significato.
Esso rimaneva come inaccessibile al mio intelletto, ma, in compenso, il mio
cuore veniva sempre più compenetrato da esso inconsapevolmente. Sovente
dicevo loro che tutto ciò già da molto tempo io l’avevo presentito, che tutta
quella gioia e quella gloria mi si era manifestata già sulla nostra terra sotto
forma di pungente struggimento che a volte giungeva fino a una
insopportabile sofferenza; che avevo presentito tutti loro e la loro gloria nei
sogni del mio cuore e nei sogni del mio intelletto e che sovente sulla nostra
terra non potevo guardare senza piangere il sole che tramontava… Che nel
mio odio per gli uomini della nostra terra era racchiuso uno struggimento:
perché non potevo odiarli senza amarli? Perché non potevo non perdonarli?
Mentre nel mio amore per essi era racchiuso uno struggimento: perché non
potevo amarli senza odiarli? Essi mi ascoltavano e io vedevo che essi non
riuscivano a capacitarsi di ciò che dicevo, ma non rimpiangevo di averne loro
parlato: sapevo che essi comprendevano tutta la forza del mio struggimento
per coloro che avevo lasciato. E quando essi mi guardavano col loro dolce
sguardo pervaso d’amore, quando sentivo che stando insieme a loro anche il
mio cuore diventava altrettanto innocente e sincero del loro, allora non
rimpiangevo di non comprenderli. Una sensazione di pienezza di vita mi
faceva mancare il respiro e in silenzio li veneravo.
Oh, tutti adesso mi ridono in faccia e mi assicurano che neppure in sogno è
possibile vedere particolari come quelli che io descrivo ora, che nel mio sogno
12ho visto o sentito soltanto una sensazione generata dal mio stesso cuore nel
delirio, mentre i particolari li ho inventati dopo, da sveglio. E quando ho
rivelato loro che, forse, effettivamente è stato così, Dio mio che risata mi
hanno fatto in faccia e che allegria ho suscitato in loro! Oh, certamente, io ero
stato soggiogato unicamente dalla sensazione di quel sogno ed essa soltanto
era rimasta intatta nel mio cuore ferito a sangue: ma, in compenso, le
autentiche immagini e le forme del mio sogno, ossia quelle che io
effettivamente avevo visto nel mio sogno, erano così piene di armonia, erano
talmente incantevoli e stupende e talmente vere che, dopo che mi fui
risvegliato, non ero naturalmente in grado di incarnarle nelle nostre deboli
parole, così che esse dovevano come sbiadire nella mia mente e, di
conseguenza, effettivamente, forse, ero stato costretto inconsapevolmente a
inventarmi poi i particolari, naturalmente deformandole, specialmente dato il
mio così appassionato desiderio di comunicarle almeno in una qualche
misura. D’altra parte, però, come avrei potuto non credere che tutto ciò
esisteva, ed esisteva, forse, in maniera mille volte migliore, più luminosa e
gioiosa di quanto io raccontassi? Fosse pure un sogno, ma tutto ciò non
poteva non esistere. Sapete, vi racconterò un segreto: tutto ciò, forse, non è
stato affatto un sogno! Poiché qui è accaduto qualcosa di un genere tale,
qualcosa di così terribilmente vero, che sarebbe stato impossibile sognarselo.
Ammettiamo pure che il mio sogno l’abbia generato il mio cuore, ma forse che
il mio cuore da solo sarebbe stato in grado di generare quella terribile verità
che poi mi è accaduta? Come avrei potuto inventarmela da solo, oppure
sognarla col mio cuore? Possibile che il mio meschino cuore e il mio
capriccioso e insignificante intelletto abbiano potuto elevarsi fino a una tale
rivelazione della verità? Oh, giudicate voi: finora l’ho tenuto nascosto, ma ora
dirò questa verità fino in fondo. Il fatto è che io… li corruppi tutti!
V
Sì, sì, finì che li corruppi tutti! Come ciò sia potuto accadere, non lo so, ma lo
ricordo chiaramente. Il mio sogno ha attraversato a volo i millenni e ha
lasciato in me soltanto la sensazione della sua totalità. So soltanto che la causa
della loro caduta nel peccato sono stato io. Come una cattiva trichina, come
un atomo di peste che infetta nazioni intere, così io infettai tutta quella terra
felice e innocente prima del mio arrivo. Essi impararono a mentire, presero ad
amare la menzogna e scoprirono la bellezza della menzogna. Oh, ciò forse
cominciò innocentemente, per scherzo, per civetteria, per un gioco d’amore,
forse, veramente, da un atomo, ma questo atomo di menzogna penetrò nei
loro cuori e piacque loro. Poi rapidamente esso generò la sensualità, la
sensualità generò la gelosia, la gelosia la crudeltà… Oh, non lo so, non ricordo,
ma presto, molto presto sprizzò il primo sangue: essi si meravigliarono e si
13spaventarono, e cominciarono a separarsi, a disunirsi. Nacquero le alleanze,
ma ormai degli uni contro gli altri. Cominciarono i rimproveri, le rampogne.
Essi scoprirono la vergogna e la elevarono a virtù. Nacque il concetto di onore
e ogni alleanza innalzò la propria bandiera. Essi cominciarono a tormentare
gli animali e gli animali si allontanarono da loro nei boschi e divennero loro
nemici. Cominciò la lotta per la divisione, per la separazione, per la
personalità, per il mio e il tuo. Cominciarono a parlare in lingue diverse. Essi
scoprirono il dolore e presero ad amarlo, erano assetati di sofferenza e
dicevano che la verità si raggiunge soltanto attraverso la sofferenza. Allora tra
loro apparve la scienza. Quando essi furono diventati cattivi cominciarono a
parlare di fratellanza e di umanità e compresero queste idee. Quando furono
diventati colpevoli inventarono la giustizia e si prescrissero interi codici per
difenderla, e per far osservare i codici installarono la ghigliottina. Essi si
ricordavano a malapena di ciò che avevano perduto e non volevano neppure
credere che un tempo erano stati innocenti e felici. Essi ridevano perfino della
possibilità di questa loro precedente felicità e la definivano un sogno. Essi non
erano neppure in grado di figurarsela in forme e immagini, ma, cosa strana e
meravigliosa, pur avendo perduto ogni fede nella loro passata felicità e pur
definendola una favola, essi desiderarono a tal punto di essere di nuovo,
un’altra volta, innocenti e felici che caddero in ginocchio come bambini
davanti al desiderio del proprio cuore, lo deificarono, costruirono templi e
cominciarono a innalzare preghiere alla loro stessa idea, al loro stesso
«desiderio», perfettamente convinti nello stesso tempo della sua
irrealizzabilità e impossibilità, ma adorandolo in lacrime e inchinandosi
davanti a esso. E, tuttavia, se fosse stato soltanto possibile ritornare a quello
stato di innocenza e di felicità che avevano perduto e se qualcuno a un tratto
lo avesse mostrato loro di nuovo e avesse loro chiesto se volevano tornare a
esso, essi certamente avrebbero rifiutato. Essi mi rispondevano: «È vero,
siamo menzogneri, malvagi e ingiusti, però lo sappiamo e piangiamo per
questo, ci tormentiamo per questo, e ci straziamo, e ci puniamo persino più di
quanto, forse, farebbe quel giudice misericordioso che ci giudicherà e di cui
non conosciamo il nome. Ma noi possediamo la scienza e per mezzo di essa
noi ritroveremo la verità, ma questa volta la apprenderemo coscienti, la
conoscenza, infatti, è superiore al sentimento e la coscienza della vita è
superiore alla vita. La scienza ci darà la saggezza, la saggezza ci svelerà le
leggi e la conoscenza delle leggi della felicità è superiore alla felicità». Ecco
che cosa dicevano, e dopo tali parole ognuno prese ad amare se stesso più di
tutti gli altri, né potevano fare altrimenti. Ognuno divenne talmente geloso
della propria personalità che si sforzava con tutte le proprie forze soltanto di
umiliare e sminuire quella altrui riponendo in ciò tutta la propria vita.
Apparve la schiavitù, apparve persino la schiavitù volontaria: i deboli si
assoggettarono ai più forti al solo scopo che quelli li aiutassero a opprimere
coloro che erano ancor più deboli di loro. Apparvero i giusti che andavano da
quegli uomini con le lacrime agli occhi e parlavano loro della loro superbia,
della misura e dell’armonia smarrite e della perdita della vergogna. Essi
venivano derisi o lapidati. Sulle soglie dei templi fu versato sangue santo. In
14compenso cominciarono ad apparire uomini che cominciarono ad escogitare
come unirsi ancora tutti in modo tale che ciascuno, pur continuando ad amare
se stesso più di tutti gli altri, non desse tuttavia fastidio a nessuno, così da
vivere tutti assieme in una società per così dire concorde. Intere guerre furono
scatenate a causa di questa idea. Tutti i combattenti nello stesso tempo
credevano fermamente che la scienza, la saggezza e l’istinto di
autoconservazione alla fine avrebbero costretto l’uomo ad unirsi in una
società concorde e razionale, e perciò, nel frattempo, allo scopo di accelerare
la cosa, i «saggi» si sforzavano di sterminare al più presto tutti i «non saggi» e
coloro che non comprendevano la loro idea, affinché essi non fossero di
impedimento al suo trionfo. Ma l’istinto di autoconservazione cominciò presto
ad affievolirsi, apparvero i superbi e i sensuali che apertamente richiesero o
tutto o niente. Per procurarsi il tutto si faceva ricorso al crimine e, se questo
non aveva successo, al suicidio. Apparvero le religioni fondate sul culto del
non essere e dell’autodistruzione in nome dell’acquietamente eterno nel nulla.
Infine, questi uomini si stancarono di quell’insensata fatica e sui loro volti si
dipinse la sofferenza ed essi proclamarono che la sofferenza è bellezza,
giacché soltanto nella sofferenza v’è il pensiero. Essi esaltarono la sofferenza
nei loro canti. Io mi aggiravo in mezzo a loro torcendomi le mani e piangendo
su di loro, ma li amavo forse ancor più di prima, quando sui loro volti ancora
non v’era sofferenza e quando essi erano innocenti e così stupendi. Io presi ad
amare la loro terra, da essi lordata, ancor più di quando essa era un paradiso,
per il solo fatto che su di essa era comparso il dolore. Ahimè, io ho sempre
amato il dolore e l’afflizione, ma per me, soltanto per me, mentre su di loro
piangevo commiserandoli. Protendevo verso di loro le braccia disperato,
accusando, maledicendo e disprezzando me stesso. Dicevo loro che ero io, io
solo, il colpevole di tutto; che io avevo portato fra loro la corruzione,
l’infezione e la menzogna! Li supplicavo di inchiodarmi sulla croce e
insegnavo loro come costruire la croce. Non potevo, non avevo le forze di
uccidermi con le mie mani, ma volevo ricevere da loro dei tormenti, ero
assetato di tormenti, bramavo che il mio sangue fosse versato in questi
tormenti fino all’ultima goccia. Ma essi si limitavano a ridere di me e alla fine
presero a considerarmi un mentecatto. Essi mi giustificavano, dicevano che
avevano ricevuto da me soltanto ciò che essi stessi desideravano e che tutto
quello che avveniva ora non avrebbe potuto non avvenire. Infine mi
notificarono che stavo diventando pericoloso per loro e che, se non avessi
taciuto, mi avrebbero rinchiuso in manicomio. Allora la tristezza penetrò nella
mia anima con una tale forza che il cuore mi si strinse e mi parve di morire,
ma a questo punto… be’, a questo punto mi risvegliai!
Era già mattina, cioè non era ancora chiaro, ma erano circa le sei. Mi risvegliai
in quella stessa poltrona, la mia candela si era consumata completamente, dal
capitano dormivano e tutt’attorno regnava un silenzio inconsueto per il nostro
appartamento. Per prima cosa balzai in piedi in preda a uno straordinario
stupore; non mi era mai accaduto nulla di simile, persino per quanto riguarda
i dettagli e le minuzie: per esempio, mai prima di allora mi ero addormentato
15a quel modo, seduto nella mia poltrona. A questo punto, a un tratto, mentre
ero lì in piedi e stavo raccapezzandomi, a un tratto mi saltò agli occhi la mia
rivoltella pronta e carica, ma in un attimo la allontanai da me! Oh, adesso
vivere, vivere! Sollevai le braccia e invocai la verità eterna: anzi, non invocai,
piansi; l’entusiasmo, uno sconfinato entusiasmo faceva palpitare tutto il mio
essere. Sì, vivere e predicare! Oh, che avrei predicato lo decisi in quell’istante
medesimo e fu, naturalmente, per tutta la vita! Sarei andato a predicare,
volevo predicare, – che cosa? La verità, giacché io l’avevo vista, l’avevo vista
con i miei occhi, l’avevo vista in tutta la sua gloria!
Ed ecco che da allora io vado predicando! E inoltre amo coloro che ridono di
me più di tutti gli altri. Perché sia così, non lo so e non sono in grado di
spiegarlo, ma pazienza. Loro dicono che già adesso mi smarrisco, e se già ora
mi smarrisco, cosa accadrà in seguito? È la pura verità: mi smarrisco e, forse,
in seguito le cose andranno ancor peggio. E, certamente, accadrà ancora
numerose volte che mi smarrisca prima che trovi il modo giusto di predicare,
ossia con quali parole e con quali atti, poiché questo è un compito assai
difficile da eseguire. Tutto ciò lo vedo bene fin da adesso, ma sentite: chi non
si smarrisce? Eppure tutti (non è vero?) vanno verso una stessa meta, o per lo
meno tendono verso una stessa meta, dal saggio all’ultimo dei malandrini,
solo per vie differenti. Questa è una vecchia verità, ma c’è però una novità: io
non posso smarrirmi molto. Perché io ho visto la verità e ho visto e so che gli
uomini possono essere belli e felici senza perdere la capacità di vivere sulla
terra. Io non voglio e non posso credere che il male sia la condizione normale
degli uomini. Eppure tutti loro non fanno che ridere di questa mia fede. Ma
come faccio a non crederci: io ho visto la verità, non l’ho escogitata col mio
cervello, ma l’ho vista, l’ho vista, e la sua immagine vivente ha colmato la mia
anima in eterno. L’ho vista in una tale compiuta interezza che non posso
credere che essa non possa esistere tra gli uomini. E così, come posso
smarrirmi? Devierò, si capisce, e anche più di una volta, e forse parlerò
persino con parole altrui, ma non a lungo: l’immagine vivente di ciò che ho
veduto mi accompagnerà sempre, correggendomi e indicandomi la strada.
Oh, io sono fresco e vigoroso, e cammino, cammino, foss’anche per mille anni.
Sapete, dapprima volevo perfino sottacere che li avevo corrotti, ma era un
errore: ecco già il primo errore! Ma la verità mi ha sussurrato che mentivo, mi
ha protetto e mi ha indicato la strada. Ma come edificare il paradiso, io non lo
so, perché non sono capace di esprimerlo a parole. Dopo il mio sogno ho
perso la parola. Per lo meno tutte le parole principali, le più importanti. Ma
pazienza: mi metterò in cammino e continuerò a parlare, senza posa, perché,
nonostante tutto, io ho comunque visto coi miei occhi, sebbene non sappia
raccontare ciò che ho visto. Ma è proprio questo che i miei derisori non
comprendono: «È stato un sogno», dicono, «un delirio, un’allucinazione». Eh!
Vi sembra tanto intelligente questo? Un sogno? Ma che cos’è un sogno? E la
nostra vita non è forse un sogno? Dirò di più: sia pure, sia pure che questo
non debba mai avverarsi e che il paradiso non possa esistere (di ciò mi rendo
ben conto!) – cionondimeno io continuerò a predicare. E d’altronde è così
16semplice: in un sol giorno, in una sola ora tutto andrebbe a posto! La cosa
principale è: ama gli altri come te stesso, ecco la cosa principale, ed è tutto,
non occorre proprio niente altro: immediatamente si troverebbe come mettere
tutto a posto. Eppure questa è soltanto una vecchia verità che è stata ripetuta
e letta un miliardo di volte, ma che non ha attecchito! «La coscienza della vita
è superiore alla vita, la conoscenza delle leggi della felicità è superiore alla
felicità»: ecco ciò contro cui bisogna battersi! E mi batterò. Se soltanto tutti lo
vorranno tutto andrà a posto in un momento.