Il trionfo del “Pensiero unico” di Giacomo Gabellini

Il maestoso sfoggio retorico sulla libertà di pensiero e di espressione è indubbiamente uno dei riti più significativi che caratterizzano le nostre fiere democrazie occidentali. Fiumi di parole altisonanti che rimandano a concetti nobili e apparentemente sacralizzati nel "Vecchio continente" figlio della Rivoluzione Francese.
Come spesso accade, però, molto raramente dichiarazioni e azioni si trovano sulla stessa lunghezza d'onda. Nelle democrazie odierne, i cittadini estranei al feticismo di appartenenza destra/sinistra, si sentono disarmati, incatenati, stritolati in una sorta di morsa ideologica che schiaccia ogni ragionamento non allineato, lo inibisce, lo paralizza e finisce per distruggerlo. L'ideologia in questione, che alcuni hanno propriamente definito "pensiero unico", è la sola religione propagata e protetta da un'efficiente apparato di polizia dell'opinione. La protervia, l'arroganza mostrata da questo apparato ha raggiunto livelli insostenibili dal collasso dell'Unione Sovietica, tali da portare alcuni pensatori come Adorno e Horkheimer a parlare di totalitarismo. Il "pensiero unico" consiste essenzialmente nella tutela degli interessi economici degli agenti del capitale della grande finanza internazionale. Questa nuova ideologia dominante è stata formulata in occasione della conferenza tenutasi a Bretton Woods nel 1944. Le sue strutture di base sono gli istituti come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, concepiti ad arte per diffondere capillarmente, attraverso cospicui finanziamenti, i dogmi su cui si regge questa nuova religione laica. Organismi di propaganda, come il "Wall Street Journal" o il "Financial Times", spesso di proprietà dei gruppi finanziari dominanti, chiudono poi il cerchio con una costante opera di diffusione del credo, ben consci che in queste belle società dello spettacolo, la ripetizione ossessiva di una tesi equivale alla sua dimostrazione empirica. L'economia libera dal controllo statale, in favore della fluidità di un mercato dotato di una innata capacità di autocorrezione, fondato sulla concorrenza che stimola la spinta modernizzatrice; sono questi i fondamenti del "pensiero unico", deducibili dalle dichiarazioni di ogni uomo politico, di destra e di sinistra. La disoccupazione dilagante, la precarietà  a cui sono costretti ad adattarsi i lavoratori, la distruzione dell'ecosistema, gli spaventosi squilibri tra ricchezza e povertà sono considerati dei semplici difetti, quando non colpevoli illazioni volte a screditare questo mondo magnifico fiorito dai semi del "pensiero unico". E' paradossale che questa epoca congiunturale, sfociata nella profonda crisi economica tuttora vigente, coincida con un consenso ideologico schiacciante, imposto dai mezzi di comunicazione e rivelato da centinaia di sondaggi. I critici vengono invece regolarmente emarginati, isolati, messi all'angolo, ribadendo a quanti se ne fossero dimenticati la costante attualità del concetto espresso da Aleksandr Solzenicyn in occasione del famoso discorso di Harvard dell'8 giugno 1978, quando affermò che "In URSS per zittire gli oppositori occorre rinchiuderli, qui in occidente è sufficiente sottrarre loro il microfono". Si può tranquillamente convenire sul fatto che il "pensiero unico" si fonda sul primato dell'economia sulla politica, ridotta a mera "amministrazione"; una congrega di burocrati alle dipendenze dei mercati finanziari, autentici detentori del potere effettivo.  Una classe politica indifferente alle terribili problematiche che attanagliano milioni di persone ma pronta a tradurre in legge le direttive impartite dagli agenti del capitale, che reclamano una moneta forte, il rigore del bilancio, la diminuzione del costo del lavoro. Una logica pericolosa, che in nome della mondializzazione promuove la delocalizzazione delle imprese, che porta i salari e la previdenza sociale occidentale a livellarsi con quelli, molto più bassi, dei paesi concorrenti dell’estremo oriente, determinando un vero e proprio trasferimento di reddito dal basso all’alto. La miriade di misure palesemente ingiuste e squilibrate sono regolarmente portate avanti sotto la pressione dei mercati finanziari. L’Europa del “Trattato di Lisbona” ha dato l’ultima dimostrazione di ciò, e molti hanno parlato di “Passo avanti” e di “Progresso”. Sorge spontaneo chiedersi dove stia il “progresso”  nella degenerazione di un sistema che ha portato, tra le altre cose,  allo smantellamento dello stato sociale, alla diminuzione dei salari e alla precarizzazione del lavoro.
Giacomo Gabellini