IL VASO DI PANDORA di R. D.

Devo riconoscere di aver molto sopravvalutato il ritorno di potenziale strategico statunitense, all'inizio di questa sua “offensiva mediterranea”: La Tunisia prima, l'Egitto poi ed in mezzo l'Italia e l'Albania. Situazioni e contesti all'apparenza tanto diversi, ma tutti uniti dal comune affacciarsi sul “mare interno”. Ho davvero creduto ad una inaspettata capacità di reazione, strategicamente fondata e preparata da lungo tempo. C'era tuttavia qualcosa che già in quelle prime settimane non quadrava: la “rivolta albanese” spenta nello spazio di pochi giorni, il defenestramento berlusconiano ancora una volta apparso imminente e di nuovo rimandato sine die, il ritorno di fiamma egiziano di Mubarak ed infine, con il nuovo governo egiziano già insediato, l'annuncio del passaggio di navi da guerra iraniane nel canale di Suez.

Ciò nonostante, quello che ai miei occhi appariva come un enorme e possente processo di riallineamento interno al proprio campo di forze, nell'area mediterranea, sembrava procedere con una sostanziale capacità di successo. Improvvisamente e del tutto inaspettatamente (almeno per me), è esplosa la “crisi libica”. Da quella che ritenevo una dimensione tutta “interna”, al brusco passaggio ad una condizione di offensiva verso l'esterno, cioè verso un paese assolutamente non sottoposto (sottomesso) al diretto dominio statunitense. Anzi un paese pienamente parte di quel “meccanismo multipolare”, in fase avanzante, segno tangibile del venir meno dell'esclusivo primato nord-americano. C'era è vero, il precedente ripetuto dei tentativi di destabilizzazione contro la Repubblica Iraniana, ma mai così violenti e così diretti. Nominazione di Gheddafi come “Rais”, a chiaro collegamento con il defunto Saddam e l'appena estromesso Mubarak, congelamento dei beni di famiglia, deferimenti (veri o presunti) al comodo Tribunale Internazionale dell'Aia, accenni al rispolvero di termini tipo “genocidio”. Aperto appoggio economico e logistico agli “insorti” ed infine minacciosi riferimenti all'intervento militare diretto. Senza contare le “voci” riguardanti una vile fuga del Colonnello, o una sua pretesa volontà di trattare. Insomma una serie di chiari atteggiamenti aggressivi che non potevano avere altro sbocco se non la caduta del regime libico.

Ma ecco appunto l'intoppo, il verificarsi di quella condizione, neanche poi tanto remota che mi aveva portato ad escludere la Libia (ma anche ad esempio, la Siria) dal processo di “ristrutturazione mediterranea” che aveva coinvolto la Tunisia prima e l'Egitto poi, arrivando a sfiorare paesi come il Marocco e la Giordania. Un blocco per così dire, riassumibile in una frase: “E se Gheddafi non cede?” Se Gheddafi non dovesse cadere (esito che a me sembra più che possibile), cosa accadrebbe? Al di là dell'azione americana, il mondo arabo mostra da tempo un potente fermento, non più semplicisticamente comprimibile nella formula del fondamentalismo islamico. Un più che trentennale flusso migratorio verso l'Europa e di ritorno, più o meno volontario, da essa, ha costretto la componente più giovane di questi paesi ad un drammatico confronto, dai contorni non ancora ben definibili, tra aspettative di vita crescenti ed immobilismo di una classe dirigente bloccata e priva di ricambi. Una situazione, vale la pena sottolinearlo, che riguarda in primo luogo, anche se non in via esclusiva, proprio i paesi più prossimi agli interessi occidentali.

Di questo Vaso di Pandora, gli Stati Uniti hanno voluto sollevare il coperchio. E' utile credo cercare di capirne i motivi. Io penso che vadano schematicamente focalizzati due fattori: uno esterno ed uno per così dire, interno. Ritengo che il “fattore esterno”, sinteticamente, vada ricercato nella ripresa di iniziativa “neo – sovietica” condotta dalla Russia nell'ambito del bacino mediterraneo. Un'iniziativa che comprende non solo il mondo arabo, ma anche i Balcani, L'Italia e la Turchia. Si tratta per adesso di una linea di sviluppo piuttosto sottile, condotta da una potenza che solo ora, dopo più di un ventennio, in condizioni geo-politiche completamente mutate e non senza incertezze, comincia ad affacciarsi fuori dai propri immediati confini. Il “fattore interno” invece, credo consista nei contrasti tra parti dell'establishment americano. I termini di queste tensioni non sono facilmente definibili. Credo tuttavia che essi abbiano origini assai lontane, almeno dai tempi della “Grande Crisi” del '29 e del successivo “New Deal”; passando per momenti drammatici come l'omicidio dei fratelli Kennedy negli anni '60 e l'11 settembre del 2001; fino ad arrivare alle guerra in Iraq e all'attuale “gestione Obama”. Si tratta in sostanza dei metodi d'approccio alla politica estera e dell'uso del mostruoso potenziale bellico della nazione. Restando ai periodi più recenti, si è da poco passati, dopo circa un quindicennio di uso intensivo della forza militare, ad una conduzione più accorta, basata essenzialmente su tattiche di pressione politico – propagandistico – economiche, nelle quali l'uso diretto dell'apparato militare, anche se spesso ventilato, viene sostanzialmente escluso. Non si tratta certo di scelte “pacifiste”, tutt'altro. Il principio strategico resta pur sempre quello della conquista e del mantenimento di un dominio esclusivo su parti determinanti del pianeta. Piuttosto si tratta di giungere ad un diverso dosaggio dell'uso della forza, evitandone la dispersione e l'eccessiva dispendiosità. Ovvio che tutto ciò generi un campo di tensione tra diversi gruppi di interesse. La mia interpretazione è che proprio questa tensione, probabilmente assai acuta, porti i vari “think tanks” operativi, ad una pianificazione accelerata, tendente ad anticipare un certo tipo di opzioni piuttosto che un altro. Alla “Guerra Preventiva”, con i suoi risultati tutt'altro che brillanti, corrisponde oggi una fase di “Rivoluzioni Colorate Preventive”, anche violente. Si è tentato prima con l'Iran e si tenta ora con la sponda africana del Mediterraneo. Solo che appunto, con l'Iran si è giocato troppo di anticipo, confidando su una debolezza di quel governo rivelatasi inesistente, o comunque non così profonda. Mentre con quest'ultima operazione nord-africana, si è sottovalutata la capacità di reazione e di tenuta del “Colonnello Gheddafi”. Cosa potrà accadere ancora, è difficilissimo da prevedere. Occorrerà innanzi tutto verificare l'esito del conflitto interno libico. Se il risultato di quest'ultimo dovesse essere sfavorevole agli interessi ed agli intendimenti americani, la conseguenza potrebbe una “messa in palio” dell'intera area, tra più potenze concorrenti. Non solo USA e Russia, ma assai probabilmente anche la Cina. Certo la Libia, comunque indebolita da questo scontro, cercherebbe l'appoggio di un qualche alleato forte. E forse, a quel punto, neanche l'Egitto potrebbe essere considerato un vassallo sicuro.

Non è possibile la momento andare oltre, senza correre il rischio di sconfinare nella fanta-politica. Tuttavia credo sia utile tentare una valutazione “di settore&
rdquo; che comprenda anche la nostra Italietta. Di realtà come quella turca o dei Balcani, non ho possibilità di dire quasi nulla. Per quanto riguarda invece la nostra situazione interna alcune considerazioni possono essere fatte. Come ho già scritto in altre occasioni, ritengo che il nodo strategico italiano sia costituito “dall'attrito”, non ancora risolto, tra Usa e Vaticano. Il cavalier Berlusconi, per una serie piuttosto articolata di circostanze, si trova, nell'ambito di questo confronto, a vestire i panni del cattolico devoto. Sono assolutamente convinto che tutte le cadute stile “Bunga-Bunga” del nostro, siano strettamente connesse alla soffocante sottomissione a cui quest'uomo, sostanzialmente laico e profondamente pragmatico, è costretto da questa alleanza subalterna con il Vaticano. Credo che se potesse, Berlusconi volerebbe tra le braccia della protezione americana senza neanche pensarci. Il suo problema è che non può perchè è dal benvolere vaticano che dipende la gran parte del suo consenso, diretto o indiretto che sia. Senza questo consenso, apparentemente inossidabile, del povero Silvio, molto probabilmente, non rimarrebbero che poche ossa spolpate. Gli Stati Uniti, attraverso il loro sito – civetta, “Wikyleaks”, hanno tenuto a far sapere che lo considerano un utile idiota, ma penso che in realtà si rodano di invidia per non avere a disposizione un subalterno tanto prono, servizievole ed efficiente. Il loro problema è proprio quello dell'individuazione di un personale politico in grado di produrre un minimo di coesione tra forze piuttosto eterogenee, per quanto tutte subalterne. Per adesso quest'obiettivo non è stato raggiunto, benché i tentativi comincino ormai ad essere numerosi. Senza dubbio, la situazione non potrà restare in un tale precario equilibrio per un tempo indefinito. E' possibile anzi che uno sbocco negativo (per gli Usa) della crisi libica, abbia come effetto “di rimbalzo” delle prese di posizione assai più dure nel contesto italiano. E' evidente come la gerarchia di rapporti tra interessi nord-americani e necessità vaticane non abbia ancora trovato un posizionamento condiviso. Tuttavia non pare fino a questo momento che vi sia stata, da parte statunitense, una seria volontà di inasprimento del conflitto, come è stato ad esempio nel caso “dell'offensiva pedofili”. Credo che nella situazione italiana abbiano cominciato da tempo ad agire anche altri attori per così dire “minori” (nel senso di non ancora abbastanza forti) che però sono dotati di appetiti non meno voraci dei maggiori protagonisti. Ritengo che probabilmente questi ultimi, siano stati indotti proprio da queste “presenze” non del tutto gradite, ad evitare un'eccessiva esasperazione del loro confronto. Ora però tutto potrebbe trovare delle accelerazioni impreviste. Il recentissimo “scoop” del “Giornale”, circa la pubblicazione delle email riservate dei magistrati, così come quello del “Corriere” sui conti correnti di Berlusconi, sono forse un segnale di un ulteriore appesantimento del gioco e di una sua possibile “ramificazione”.