IL VIAGGIO PREMIO, di Giuseppe Germinario
L’incarico ad Enrico Letta segna indubbiamente l’epilogo di una lunga agonia iniziata negli anni ’90; ci avvicina decisamente al punto di svolta della situazione del nostro paese. La statura del personaggio corrisponde esattamente al passaggio dalla liquidazione massiccia dei “gioielli di famiglia” di quegli anni alla odierna offerta della residua bigiotteria di casa compresa obbligatoriamente nel campionario degli ultimi monili (ENI, Finmeccanica) rimasti a disposizione degli offerenti. Ho parlato di “offerenti” evitando il canonico attributo di “migliori” giacché sappiamo benissimo che il libero mercato, la pura competizione economica è per lo più un ipocrita capestro riservato agli ultimi della gerarchia geopolitica planetaria; nella fattispecie italiana abbiamo da tempo notato che la selezione degli acquirenti è sempre stata preliminare all’offerta economica.
L’aura discreta, quasi dimessa, curiale che infonde il personaggio, propria di una aristocrazia da secoli in stretta simbiosi con gli ambienti ecclesiastici romaneschi, la naturalezza con la quale ama immergersi nei gruppi informali, dissimula naturalmente la capillarità dei propri potenti legami e la pervicacia dei propri propositi non corrispondenti, però, alla necessaria statura richiesta dagli eventi.
Mario Monti ne è stato l’ultimo epigone; a quanto pare il campionario non è ancora completo; è destinato ad arricchirsi.
IL NOVIZIO
Enrico Letta, ne ho scritto compiutamente già un paio di anni fa, è il personaggio politico in quota PD che, assieme a pochi altri, sostiene ardentemente da anni un processo abnorme di concentrazione della miriade di aziende municipalizzate di servizi sino a ridurle a poche holding. I propositi iniziali apparivano più che plausibili e giustificati; si trattava di razionalizzare, introdurre criteri privatistici di gestione delle aziende e dei servizi, di adeguare l’attività ad una dimensione territoriale e ad una massa critica superiore a quella dei confini comunali e più adatta ad ottimizzare i costi di gestione. Pian piano, però, l’obbiettivo si è trasformato nella necessità di creare unità aziendali e finanziarie di dimensioni tali da poter essere cedute a grossi investitori stranieri. La ulteriore valenza del personaggio consiste nella profonda motivazione politica e morale di questa scelta: la cessione e liquidazione del patrimonio e la garanzia delle necessarie cedole agli offerenti servirebbero a sostenere, sarebbe più corretto dire, procrastinare per qualche tempo l’attuale welfare redistributivo.
Qualche piatto di lenticchie in cambio della cessione del campo di legumi.
Il classico atteggiamento di una aristocrazia decadente pronta ancora una volta ad intaccare inesorabilmente il patrimonio pur di garantire temporaneamente lo status ed elargire spocchiosamente qualche prebenda e monetina alla plebe sacrificando il futuro di un paese; un atteggiamento che, sotto mutate spoglie, sta pervadendo però tutta la formazione sociale italiana e trasformando ulteriormente la funzione di quelle associazioni e strutture intermedie, compresi i sindacati confederali, le quali costituiscono uno strumento fondamentale di coesione. Si tratta della predominanza di quel collateralismo assistenziale e redistributivo fine a sé stesso, un tempo ormai lontano funzionale ad una parvenza di progetto politico.
Quel progetto, indipendentemente dalla volontà politica, fa una gran fatica a procedere; al momento è praticamente arenato. Ci ha messo, per fortuna, lo zampino involontario Mario Monti, con la sua manifesta incapacità di procedere ad una qualsiasi seria riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni e con le sue ingerenze nella gestione delle amministrazioni locali.
Si tratta comunque, allo stato attuale, di un proposito velleitario almeno in queste dimensioni: le difficoltà gestionali sarebbero evidenti; le cedole da garantire agli oblatori richiederebbero un adeguamento astronomico delle tariffe a carico dei cittadini; il sistema capillare di strutture parassitarie e assistenziali che accompagna la fornitura dei servizi e la realtà di strutture efficienti, più capillare e pervasivo di quello offerto dalle strutture statali centrali, capace ancora di garantire stabilità sociale rischia di rimanere sconvolto; la posizione della piccola e media imprenditoria autonoma legata a queste attività sarebbe gravemente compromessa a favore di figure simili ad un Montezemolo qualsiasi.
Non è l’unico blasone offerto da Enrico Letta. Il suo pedigree offre ben altri contenuti e ben altre ascendenze.
Mi sono dilungato volutamente su questo singolo aspetto, perché emblematico di quale direzione abbia ormai preso la quasi totalità dei nostri centri decisionali e del vicolo cieco in cui stanno cacciando il paese; meno importante dal punto di vista strategico, rispetto alla liquidazione di vent’anni or sono di un patrimonio industriale strategico gestito da centri manageriali isolati e compromessi, ma molto più complesso da gestire e molto più destabilizzante.
Quest’ultimo, per altro, è un processo giunto ormai agli ultimi atti e che conoscerà l’epilogo malinconico, a meno di sussulti, quasi per inerzia. Una volta completata la rete SNAM, ENI cesserà del tutto il ruolo di compagnia nazionale in grado di contrattare con altri paesi per assumere le caratteristiche di una multinazionale “tascabile” soggetta alle mire, alle manipolazioni e alle brame di paesi e aziende più forti; Finmeccanica alimenta i progetti di scorporo e cessioni di settori d’avanguardia negli scorsi decenni.
È un processo che richiederà, probabilmente, ancora un ulteriore cambio di governo.
I TRE PROTAGONISTI
Ricapitoliamo brevemente gli eventi che hanno portato a questa puntata piuttosto sorprendente.
Berlusconi in poco più di un anno passa dalle prodezze goderecce, al netto di notizie su eccessi gastronomici alquanto improbabili per un salutista dichiarato, di un novello Trimalchione, all’umiliazione di essere sospinto “consensualmente” fuori dalla porta del Governo, al recupero elettorale miracoloso, quantunque parziale, fondato sulla critica di provvedimenti governativi da lui stesso avvallati e sull’alimentazione di un fantasma, l’anticomunismo, dalla facile suggestione su alcune nicchie, sino all’aura dello statista ritrovato disposto a un governo di coalizione, ovviamente per il bene del paese, addirittura con il suo aspirante “smacchiatore” “comunista”; non senza il brivido di aver rischiato, sino a qualche attimo prima, l’esilio se non il soggiorno nelle patrie galere per sentenza politica sovrana e parlamentare ad opera del suo “avversario” dal cognome con la stessa radice Ber….. e dei neo arrivati grillini. L’unica contrarietà, ben celata del resto dall’immancabile sorriso a cinquanta denti: la perorazione e l’acclamazione al reinsediamento di quello stesso sovrano sabaudo, nemmeno scollatosi dal trono, il quale aveva provveduto alla sua defenestrazione appena pochi mesi prima.
Il suggello alla resurrezione e al ritrovato successo? Il viaggio premio di questa settimana negli States, unico italiano al cospetto di ben cinque presidenti americani superstiti.
Nemmeno le missioni a Washington riescono a mantenere più l’aura solenne o l’aplomb diplomatico. De Gasperi ci andò in rappresentanza di un paese sconfitto ed occupato, trattò e tornò con l’investitura e una valigia piena di dollari, anche se in buona parte una partita di giro con interessi; Napolitano ci andò la prima volta negli anni ’70 sotto le mentite spoglie di accademico e ci è ritornato un’ultima volta poche settimane fa alla luce del sole per ricevere un sentito ringraziamento e qualche “suggerimento”; Monti ha ricevuto pacche poderose sulle sue fragili spalle, poco aduse al contatto fisico e alla battaglia; l’ultimo Berlusconi si dovrà accontentare di qualche saluto a distanza e l’ammiccamento complice di Obama a sottolineargli il rispetto della promessa bonaria di “caduta in piedi” e… risurrezione e la sottintesa minaccia di proseguire su questa strada. Un uomo che probabilmente non troverà mai pace.
Questi americani bisogna pure comprenderli; gli ospiti italiani aumentano esponenzialmente alimentati dalla frammentazione politica e sociale di un paese, così propedeutica alla creazione di un vero e proprio protettorato esterno e alle mire di controllo della potenza egemone, ma potenzialmente così dispendiose con risorse imperiali disponibili sempre più esigue; cosi piccini, rischiano di far saltare la fitta agenda di un mondo multipolare incipiente.
Napolitano, gran maestro, ma anche molto ben consigliato, ha concesso ogni possibile chance al suo partito di origine; ha cercato di infondergli il pragmatismo “migliorista” da cui trae origine la sua cultura politica ma, stridente rispetto a quello di Giorgio Amendola, completamente allineato all’atlantismo americano e per ciò stesso impraticabile. Ha fallito in questo proposito, ha salvaguardato per questo in qualche modo Berlusconi, ha ridotto a puro manichino Mario Monti, per avventurismo e manifesta incapacità del professore e ha dovuto, di conseguenza, rinunciare al meritato riposo per completare l’incompiuta, contrariamente agli annunci e ai propositi, almeno quelli dichiarati. Un Presidente che rimarrà senz’altro a pieno titolo negli annali della Repubblica; ma con colori sempre più opachi nella memoria degli italiani e più vividi in quelli di oltreatlantico. In questi mesi sarà sicuramente il deus ex machina quasi esclusivo delle vicende politiche, corroborato dalla mediocrità del nuovo incaricato; un arbitro-giocatore che ha consentito al più abile dei capitani di squadra, Berlusconi, di recuperare e raccogliere, nei prossimi mesi, ulteriori frutti.
Il dato certo di questa agonia, precipitata in questa ultima crisi, è il definitivo cambiamento di natura del PD, di quel che furono il PC e parte della DC confluiti in esso. L’ultimo sussulto del proprio retaggio culturale lo hanno offerto in questa campagna elettorale. Ha fondato l’alleanza con la sinistra di Vendola su vaghi impegni redistributivi senza alcuna garanzia di copertura finanziaria, ha taciuto completamente e rimosso ogni risposta alle denunce urlate da Berlusconi su fisco e Unione Europea, correndo invece a rassicurare in piena campagna elettorale le varie capitali europee, ha confidato senza entusiasmo su quella stessa Unione Europea che sta vessando e tartassando il paese. Ha sostituito una volta per tutte con una sinistra compassionevole la vecchia “sinistra dei produttori” ormai riesumabile solo in un progetto di rinascita nazionale e di difesa della propria sovranità. Un gruppo dirigente, quindi, capace di distruggere il proprio patrimonio politico, ma, prigioniero del proprio retaggio culturale e della propria base elettorale residua, incapace di gestire compiutamente il passaggio verso un partito di tipo liberal-progressista, lontano anche dal residuo carattere socialdemocratico presente ancora nella sinistra europea soprattutto tedesca e scandinava; guarda caso i paesi che riescono ad arrabattare meglio un minimo di autonomia nazionale nel cortile atlantico. Per garantirsi una possibilità di sopravvivenza ha sacrificato significativamente, alle elezioni, la componente liberal legata a Veltroni, Morando, Tonini e ha accantonato Renzi, bloccando così il travaso di voti dai ceti professionali e imprenditoriali e contando, evidentemente, ancora sulla forza residua dell’antiberlusconismo. Dietro questa maschera e questa forza d’urto in gran parte patetica e folcloristica, si nascondono però frammenti fondamentali dello Stato, in particolare settori della magistratura, i quali hanno lucrato potere politico e di interdizione da questa interminabile fase di transizione sempre più riconducibile ad una agonia. Sono frammenti, però, i quali, per la natura del loro compito istituzionale, possono assumere un ruolo di intervento preventivo, di interdizione e di destrutturazione; non hanno nessuna possibilità e capacità di costruzione politica. Rappresentano in realtà l’abbraccio mortale e la metafora di un partito che dalla fine degli anni ’70 ha fornito costantemente la truppa ed il supporto alle scelte politiche fondamentali del paese, ma non è mai riuscito, per intrinseca incapacità e per inesorabile discrasia tra la propria base elettorale ed effettivi propositi politici, ad assumerne direttamente la guida
Il probabile Governo Letta rappresenta l’epilogo della vicenda politica del PD. L’incarico al vicesegretario rappresenta il tentativo di trascinare in questa mutazione la maggior parte di quel partito e a limitare gli effetti di una eventuale scissione. Il successo, a questo punto, più che dalla capacità di un nuovo gruppo dirigente, compreso Renzi, ormai anch’esso logorato, può dipendere soprattutto da una eventuale crisi disgregatrice del PDL, alquanto improbabile al momento. La posizione preminente del PD nella Presidenza offrirà, anzi, all’“eterno” Berlusconi l’opportunità di decidere i tempi e la fine del nuovo governo; contrariamente alle previsioni terrifiche dei catastrofisti l’attuale compagine sarà in grado di giostrare almeno sulle tassazioni più odiose e di rinegoziare parzialmente con la Germania e l’UE, assieme ad altri paesi sotto gogna, le condizioni di rientro debito; il merito maggiore andrà soprattutto a chi ha rivendicato tutto questo in campagna elettorale, cioè Berlusconi. L’essenziale, cioè la subordinazione e il dissanguamento del paese, è stato ormai ampiamente assicurato da tutti.
La crisi, il processo quindi di destrutturazione e rideterminazione dei rapporti di forza tra le formazioni sociali, con le sue oscillazioni continuerà ad erodere e determinare i movimenti sul palcoscenico politico e su quello finanziario. È un argomento, però, rimosso che interessa molto poco; alla sinistra ancor meno che alla destra se non negli aspetti distributivi ed epifenomenici. La componente più a disagio, quella che minaccia dissensi e scissioni, che protesta con le chiacchiere, ha prodotto documenti semplicemente penosi; il presupposto più che di una scissione, di una inesorabile ulteriore disgregazione e frammentazione. Meriteranno di essere esaminati con maggiore attenzione; per il momento saranno sufficienti alcuni accenni.
LA SINISTRA DEGLI EPIGONI
Il Manifesto di Fabrizio Barca dedica 50 delle sue 55 pagine alla costruzione di un partito fondato sullo “sperimentalismo democratico” e sulla progressiva “costruzione cognitiva” determinata dal rapporto costruttivo tra le varie competenze di base e vertici della struttura politica. Una sorta di riproposizione pedissequa del tipo di relazioni intessuto dalla Comunità Europea con le strutture periferiche regionali e nazionali per la gestione dei fondi europei. http://download.repubblica.it/pdf/2013/politica/barca_manifesto.pdf Il succo, insapore, lo potrete trovare nell’addendum, nelle ultime quattro pagine, specie i punti 7 e 8, più che sufficienti a comprendere il senso dell’intero documento.
Altrettanto malinconico il recente piano del lavoro della CGIL. Basta sottolineare il fatto che la quasi totalità delle proposte vengono avanzate dal “lato della domanda”, cioè il mercato e gli incentivi, il reddito. L’offerta riguarda praticamente la formazione professionale e la ricerca, non le politiche di costruzione attiva dell’apparato produttivo industriale. Nessuna parola sul contesto politico, sulle dinamiche quantomeno europee. Solo il più bieco economicismo. A suo tempo Di Vittorio, pur sbagliando, quanto meno additò nell’alleanza tra monopoli e settori retrivi la causa delle piaghe del paese nel dopoguerra. http://www.cgil.it/Archivio/EVENTI/Conferenza_Programma_2013/Piano_Del_Lavoro_CGIL_gen13.pdf
Posizioni senza alcuna prospettiva e che faranno navigare nel vuoto e nello smarrimento queste componenti. Il M5S, del resto, non può offrire alcuna prospettiva a queste componenti legate a strutture e militanze classiche. Se gli eretici nella fase di incubazione, alla fine, finiscono per dare appoggio nei momenti decisivi all’istituzione ortodossa, è alquanto improbabile che quest’ultima garantisca ai primi il sostegno, una volta smarrito il predominio; piuttosto diventa essa stessa una setta o rimane complemento delle forze dominanti. È successo più volte nei rapporti controversi tra sinistra rivoluzionaria e PCI a fine secolo. In questa fase l’eccezione potrebbe riguardare solo quella componente di dissidenti del PD influenzata dalle fantasmagorie del web e dei blog.
Quanto a Bersani, ormai dovrà rinunciare al suo personale viaggio di investitura negli States. Berlusconi, se le forze lo reggeranno, sacrificherà una parte degli ipnotizzati dal suo anticomunismo, ma guadagnerà dai fautori della governabilità. Nel mezzo i turlupinati, coscienti della loro condizione, cui dovremo essere noi a guardare.
A prescindere dal destino dei contendenti, ne sta guadagnando la chiarezza della situazione. L’antiberlusconismo e l’anticomunismo sono in dirittura di arrivo, il primo più che il secondo; il secondo, per la verità, nei momenti migliori di polemica si è rivolto al costume e al retaggio culturale dei personaggi. Prima che sorgano altri ismi a confondere le acque, godiamoci questi sprazzi di luce. Di solito il re non rimane nudo per molto tempo; ma è quello il momento più facile da colpire.