IN CAMMINO, VERSO UNA NUOVA EPOCA. IL NUOVO SAGGIO DI LA GRASSA
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Indice
Introduzione (Gianni Petrosillo)
LA TEORIA
PARTE PRIMA
Una storia (ragionata) dello stato della teoria
PARTE SECONDA
E adesso la teoria in senso proprio
LA STORIA
PARTE PRIMA
Una visione d’insieme
PARTE SECONDA
Riprendiamo e puntualizziamo
PAGG.176
1.Questo saggio di Gianfranco La Grassa si divide in due scritti che possono essere letti uno indipendentemente dall’altro. Tuttavia, gli elaborati in questione non sono slegati tra loro, anzi, costituiscono un solo corpo che sta insieme logicamente, in quanto la parte teorica iniziale è la chiave analitica per comprendere quella storica successiva.
La teoria, nella speculazione lagrassiana, costituisce il faro che illumina gli eventi, penetrando nella profondità degli stessi, oltre le apparenze e le ricostruzioni comunemente accettate. Dunque, benché egli non sia uno storico di professione, riesce ugualmente a fornire un’interpretazione originale degli avvenimenti sociali del secolo scorso (e di quelli più recenti), con un taglio di visuale particolare, ignoto ai professionisti della storiografia, ormai meri banalizzatori del passato, ad uso dei gruppi dominanti del tempo presente.
L’opera lagrassiana percorre la strada di un doppio revisionismo, teorico e storico, contrario alle vulgate in auge (i “revisionismi” ufficiali presentati come sola versione autorizzata degli accadimenti), che gli costa, ovviamente, isolamento intellettuale ed esclusione dai canali editoriali più potenti. In primo luogo, è bene precisare, come il Nostro afferma nel libro, che «la teoria è il massimo livello della pratica giacché serve in definitiva a guidare l’agire degli esseri umani», nelle loro iniziative intellettuali e sociali. Ma la teoria serve anche a setacciare nella Storia quelle concatenazioni evenemenziali, quei rapporti conflittuali tra soggetti “assoggettati” alle dinamiche oggettive, innervanti la società, che svelano meglio l’indirizzo di un’epoca e i suoi risvolti, visibili e meno visibili.
Non credo che vi sia nulla di più ardito e, al contempo, di meticolosamente e rigorosamente scientifico sul “mercato” delle idee, in questo momento in cui l’egemonia dei parolai, pro o antisistema, svolge il medesimo ruolo di puntellamento dello statu quo (in solidarietà antitetico-polare), al fine di rallentare quei cambiamenti indispensabili all’ingresso nella nuova fase, già sancita dalla incipiente ridefinizione di rapporti di forza mondiali nel multipolarismo.
2. La Grassa è un marxista che ha individuato gli errori analitici di Marx e da questi è ripartito per elaborare una teoria sociale – debitrice del marxismo, anche nel suo superamento – che fosse maggiormente corrispondente alle metamorfosi capitalistiche odierne.
La società capitalistica ottocentesca, rispondente al modello di sviluppo inglese, è stata il vero oggetto d’indagine del pensatore tedesco. Quest’ultimo credeva che il tipo di modo di produzione, a matrice anglosassone, che aveva sotto gli occhi, si sarebbe esteso alle altre formazioni sociali coeve ma arretrate economicamente (e storicamente). Chi ha derivato da questa affermazione che Marx avesse già individuato da questi elementi il germe della globalizzazione, appunto con secoli d’anticipo, dovrebbe badare a quel che dice. In ogni caso, non sarebbe una grande scoperta considerato che anche gli economisti della scuola classica avevano intuito questa inevitabile estensione del mercato, in quanto il capitalismo era produzione generalizzata di merci. L’espressione, mutuata dalle satire oraziane (è di te che si parla in questa favola!) da Marx, del resto, indica precisamente che l’espansione del capitalismo avrebbe presto o tardi toccato quasi ogni luogo: «Quel che io debbo indagare in quest’opera è il modo di produzione capitalistico e i suoi corrispondenti rapporti di produzione e di scambio. L’Inghilterra finora è la sua classica sede. Questo è il motivo principale per cui essa può essere presa d’esempio per lo svolgimento della mia teoria. Ma qualora il lettore tedesco dovesse farisaicamente alzar le spalle in merito alle condizioni degli operai inglesi, dell’industria e dell’industria o mettesse a tacere la sua conoscenza ottimisticamente pensando che in Germania le cose sono ben lontane da star così male, io debba gridargli: De te fabula narratur! In se stesso non si parla del maggior o minor grado di sviluppo degli antagonismi sociali, quali sorgono dalle leggi naturali della produzione capitalistica. Si tratta proprio di queste leggi, di queste tendenze che agiscono e si fanno valere con ferrea necessità. Il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare al meno sviluppato l’immagine del suo avvenire».
Qui Marx è persino categorico, nemmeno i potenziali conflitti e antagonismi tra capitalisti e proletari sono il suo specifico rovello, bensì lo sono le leggi che innescano le dinamiche dalle quali consegue tutto il resto, anche i conflitti tra le parti. Tale è il punto di partenza di Marx che si confronta con il contesto storico e le categorie della scienza economica “classica” dei suoi giorni. Come si può notare, non v’è traccia di approccio filosofico di Marx ai problemi che sceglie di affrontare. Nemmeno gli è sufficiente il metodo economicistico per “isolare” gli elementi che intuisce come centrali del sistema capitalistico. Il Moro, come lo chiamava affettuosamente Engels, intende indagare la struttura sociale della sua epoca per individuare la configurazione dei rapporti collettivi di cui il Capitalismo è figlio. Ovviamente, per andare oltre quello che direttamente si vede del modello sociale – che è già risultato della sedimentazione di molti processi, storici, politici sociali, culturali – occorre attraversare le “apparenze” epidermiche che gli sono connaturate: «ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero».
3.Marx, dunque, fonda una scienza (o, come sostiene Althusser, dischiude la scienza ad un nuovo ambito tematico), poiché per trovare conferma della sua intuizione ha bisogno di una concezione delle cose, fino a quel momento inesistente, adatta a spiegare meglio l’oggetto dei suoi pensieri: la scienza dei modi di produzione. Infatti, come chiarisce La Grassa, nel saggio teorico: «Con il concetto di modo di produzione (il cui aspetto principale è quello dei rapporti sociali di produzione), Marx pensò quindi di stabilire null’altro che l’astrazione più pura, scientifica. Tipo quella del “moto rettilineo uniforme” o della curvatura dello spazio. Poi, ogni analisi concreta del moto esige che si considerino corpi specifici, posti in relazione specifica, ecc.; ma intanto si stabilisce la “legge generale”, nel suo più “astratto” significato. Senza questa, ci si disperde nella descrittiva casistica dei tanti movimenti empirici, creando il solito pasticcio, nel cui ambito si muovono meglio i praticoni, gli imbroglioni. La stessa problematica vige per il pensiero di Marx; è indispensabile individuare il fulcro della sua teorizzazione allo stato “puro”, il più “astratto”, sfrondandolo delle sue “concrete” complicazioni che verranno semmai introdotte e analizzate in seguito. La maggior parte degli economisti e sociologi odierni, alcuni dei quali si danno arie di marxisti, non hanno in realtà capito un bel nulla della scienza di Marx».
Ogni inizio è difficile, dice Marx, quando si esplora un campo del sapere non battuto. Ma egli ha ben presente il punto da cui cominciare se si vuole andare veramente a fondo nell’analisi. Non il corpo già formato e perfetto ma la forma di cellula che contiene il messaggio genetico dell’intera massa, in questo caso, sociale. Tale è la merce nel sistema capitalistico, secondo Marx, che porta in sé il codice di “comportamento” di tutte le merci tra loro, quale nesso sociale fondamentale dell’intera società. Le merci devono necessariamente transitare sul mercato, che è il loro apparato di connessione circolatoria, dunque di accostamento e scambio. Perché? Perché nello specifico modo di produzione trattato i beni prodotti sono il risultato di tanti lavori privati i quali si “socializzano” solo “mediatamente”, tramite il passaggio nella sfera delle compravendite, dove ciascuno “si reca” a scambiare l’esito del suo lavoro con quello di altri. Dunque, in questo “regno mercantile” che copre l’intera superficie sociale vige l’apparente eguaglianza tra gli scambisti. Non c’è sfruttamento sul mercato, se non di posizione dominante, conseguente all’offerta di prodotti migliori e meno costosi, ed anche eventuali raggiri o truffe, quali deviazioni dalle normali leggi di funzionamento dello stesso, condizionano solo marginalmente l’andamento degli affari. Questo perché il rapporto sociale che regola tutto viene stabilito in altro ambito, a livello storico, prima degli scambi e prima della medesima produzione.
Nella società capitalistica la produzione è avviata dallo scambio, tuttavia bisogna produrre per poter scambiare. Siamo di fronte ad un ciclo, di fatto, non c’è nulla che segue o che precede qualcos’altro, tuttavia, è nella produzione che si forma “quantitativamente” il plusvalore che poi si realizza sul mercato. Specificando ciò possiamo stabilire un prima e un dopo, o meglio, un sottostante (la produzione) ed un soprastante (il mercato) ma senza aver compreso ancora il rapporto sociale generale (e fondamentale) che fa sì che nella produzione si possa “valorizzare” (estorcendo pluslavoro) ciò che sul mercato si deve “concretizzare” (plusvalore). Ci manca quell’ “intorno” che contiene il sotto e il sopra, infatti, scrive La Grassa: «La produzione, quella considerata sottostante alla circolazione, non va però identificata con i processi lavorativi. Non sono le condizioni di lavoro – i ritmi, la salubrità o meno dell’ambiente, l’esistenza di precauzioni contro la possibilità di incidenti, ecc. – a rappresentare il “sotto” della circolazione. Tutto ciò che riguarda le condizioni di erogazione della forza lavoro nei luoghi della sua estrinsecazione sta grosso modo sullo stesso piano della circolazione mercantile. Ed infatti, come in quest’ultima, anche le condizioni nel processo di lavoro sono in ultima analisi affidate alla contrattazione, al “braccio di ferro”, al prevalere dell’uno o dell’altro contendente; non ne è sempre avvantaggiato uno, come accadeva nelle società dell’ineguaglianza, cioè dei rapporti di dipendenza personale, della schiavitù o servitù».
Qui La Grassa vuole sottolineare un abbaglio atavico che persiste da secoli, dagli albori del marxismo: «…la non centralità del processo di lavoro per quanto concerne l’esistenza dello sfruttamento. Tale processo è soltanto mezzo di variazione della quantità del pluslavoro ottenuto dal capitalista in forma di valore (nel momento della sua successiva realizzazione). Sia i metodi del plusvalore assoluto sia quelli del plusvalore relativo indicano semplicemente tali variazioni quantitative, ma la causa decisiva della sua appropriazione è stabilita altrove: precisamente nel rapporto sociale di produzione di forma capitalistica. Occorrono processi storici di formazione di tale rapporto – quelli denominati da Marx sussunzione, prima formale e poi reale, del lavoro nel capitale (anche per questi concetti, chi non li conosce già compia uno sforzo di lettura, ad esempio del Capitolo VI inedito di chiarezza esemplare) – affinché venga in essere questa particolare modalità di estrazione del pluslavoro».
Il rapporto sociale capitalistico si genera, per così dire, antecedentemente al ciclo semplice MDM e a quello complesso DMD’ che possono essere considerati suoi effetti. Il rapporto sociale di cui trattiamo si determina, innanzitutto, storicamente.
Per uscire dall’impasse “dei cicli” delle varie trasformazioni capitalistiche che obnubilano la natura del capitalismo Marx parlerà di accumulazione originaria: «Abbiamo visto come il denaro viene trasformato in capitale, come col capitale si fa il plusvalore, e come dal plusvalore si trae più capitale, Ma l’accumulazione del capitale presuppone il plusvalore, e il plusvalore presuppone la produzione capitalistica, e questa presuppone a sua volta la presenza di masse di capitale e di forza-lavoro di una considerevole entità in mano ai produttori di merci. Tutto questo movimento sembra dunque aggirarsi in un circolo vizioso dal quale riusciamo ad uscire soltanto supponendo un’accumulazione «originaria» («previous accumulation» in A. Smith) precedente l’accumulazione capitalistica: una accumulazione che non è il risultato, ma il punto di partenza del modo di produzione capitalistico… Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione fra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro. Una volta autonoma, la produzione capitalistica non solo mantiene quella separazione, ma la riproduce su scala sempre crescente. Il processo che crea il rapporto capitalistico non può dunque essere null’altro che il processo di separazione dalla proprietà delle proprie condizioni di lavoro, processo che da una parte trasforma in capitale i mezzi sociali di sussistenza e di produzione, dall’altra trasforma i produttori diretti in operai salariati. Dunque la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. Esso appare « originario » perché costituisce la preistoria del capitale e del modo di produzione ad esso corrispondente. La struttura economica della società capitalistica è derivata dalla struttura economica della società feudale. La dissoluzione di questa ha liberato gli elementi di quella».
Avvenuta la primigenia separazione tra possessori e non possessori dei mezzi di produzione, determinatasi cioè la circostanza storica originaria, il resto segue per fattori necessitati ma anche aleatori (la famosa corrente dell’incontro di althusseriana memoria): le maestranze si ritrovano in sedi di lavoro più estese dove sono disponibili gli strumenti per lavorare (sussunzione formale, coincidente con la produzione del plusvalore assoluto, ovvero col prolungamento della giornata lavorativa nella manifattura, oltre il tempo necessario alla riproduzione della forza lavoro), di cui sono stati deprivati. Ma è solo con lo spossessamento dei saperi individuali (artigianali) che si parcellizzano e s’incorporano nelle macchine (sussunzione reale, coincidente con la produzione del plusvalore relativo, ovvero con l’aumento dell’intensità dei ritmi produttivi nella macchinofattura, via innovazione tecnica e tecnologica, con accorciamento del tempo di lavoro necessario a riprodurre la forza-lavoro), in virtù della rivoluzione industriale, che il sistema capitalistico diventa generalmente dominante, perfezionando il suo rapporto sociale e il suo modo di ri-produzione complessivo.
4.Gli individui si ritrovano ormai divaricati, dalla corrente storica, in due classi: i detentori di Capitale (mezzi di produzione e mezzi finanziari) e i detentori di mera energia fisica, finalmente liberi dai vincoli personali. Lo schiavismo non esiste più da un pezzo, se non in culture arretrate, ed anche i legami feudali, con i contadini legati alla terra dei signori, vengono pian piano superati. Si genera però una nuova interdipendenza tra i soggetti, tra chi ha gli attrezzi ma non ha la forza lavoro per farli funzionare e chi ha la forza lavoro ma non ha gli strumenti per impiegarla.
Il mercato garantisce l’incontro dei compratori e dei venditori, cioè lo scambio delle loro merci al giusto valore (in media). La forza-lavoro è venduta ed acquistata come qualsiasi altra merce ed il suo prezzo è determinato, al netto di oscillazioni congiunturali, dai beni necessari alla riproduzione della sua condizione fisica ma anche storico-sociale. Anche quando entra nel processo di lavoro, che è la fase in cui si crea quel plusvalore (forma astratta del pluslavoro) da realizzare successivamente nella sfera degli scambi, la forza-lavoro si trova sottoposta a regole di funzionamento impersonali. Il rapporto di dominazione precede entrambe le situazioni ed ormai risulta invisibile agli occhi. Cercarlo nel comando capitalistico nella fabbrica (il padrone con la spada in pugno) o nelle speculazioni sul mercato (l’azione dei cartelli che sofisticano i prezzi) è fuorviante. Esso è oltre questi campi dove si riscontrano soprattutto gli effetti (o accidenti) di una causa (storica) che è scomparsa dalla vista. Afferma a tal proposito La Grassa: «… è proprio necessario fare uno sforzo di astrazione (quella tipica della scienza, quella del “moto in assenza di attrito”) per comprendere come, al di là dell’evidenza empirica … nel processo di lavoro i giochi siano già fatti a causa della storica formazione del rapporto sociale di produzione capitalistico. Il capitalista vi entra già in possesso del diritto di proprietà e delle condizioni che gli attribuiscono il controllo (direzione) dei processi; il non proprietario (quello detto operaio in senso lato) vi entra invece come sussunto sotto quella direzione. Il processo, nella sua empirica concretezza, conosce solo i mutamenti quantitativi del pluslavoro/plusvalore grazie ai metodi assoluti o relativi della sua estrazione (prolungamento e intensificazione del lavoro oppure aumento della sua produttività, ecc.). Il rapporto ormai sussiste, si situa prima (in senso logico–scientifico) della compravendita dei mezzi di produzione e della forza lavoro per porre in essere un dato processo di lavoro».
5. Stabilita la vera dinamica capitalistica, il suo nesso sociale fondamentale, Marx individua quelle contraddizioni che, a parer suo, sviluppandosi ulteriormente contribuiranno alla fuoriuscita della società da quel particolare modo di produzione. I capitalisti avevano espropriato gli artigiani e la piccola proprietà mercantile.
La concorrenza sul mercato favoriva la concentrazione e poi la centralizzazione dei capitali, con la formazione di immensi trust in mano a pochi capitalisti. Il grosso dei competitori finiva riassorbito dal lavoro produttivo, benché nei ranghi direzionali. Quindi la trasformazione sociale è duplice. In alto, i proprietari superstiti si trasformano in rentier dediti alla speculazione, in basso la socializzazione dei processi produttivi contribuisce a far emergere una nuova figura collettiva: l’operaio combinato, dall’ingegnere all’ultimo giornaliero. Le forze produttive si sentono imbrigliate in relazioni di produzione che ormai ne limitano la razionalità organizzativa. L’involucro del modo di produzione s’incrina fino a frantumarsi e dalle sue ceneri emerge un sistema più confacente ai concreti rapporti di forza e alla diversa base materiale formatasi nella realtà produttiva. Il comunismo in fieri è, dunque, già presente nelle viscere del capitale. Entro pochi decenni, non secoli, l’antinomia sarebbe definitivamente esplosa. Il general Intellect, sovrano dei processi lavorativi, si sarebbe sganciato dagli speculatori che parassitariamente continuavano a drenare preziose risorse al sistema collettivo, per fini personali o di casta ristretta, colpendoli infine anche nella sfera politica, dove restavano asserragliati, grazie al controllo degli eserciti e degli apparati coercitivi. La rivoluzione non sarebbe stata un pranzo di gala ma nemmeno una mattanza prolungata. I rentier, schiacciati nei numeri, avrebbero dovuto arrendersi alla maggioranza. Così Marx: «Ad un certo grado del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti o, per usare un termine giuridico, con i rapporti di proprietà nel cui ambito si erano mosse fino a quel momento. Da che erano forme di sviluppo delle forze produttive questi rapporti si tramutano in vincoli che frenano tali forze. Si arriva quindi ad un’epoca di rivoluzione sociale. Cambiando la base economica viene ad essere sovvertita più o meno rapidamente tutta l’enorme sovrastruttura. Nell’osservare tali rivolgimenti bisogna sempre distinguere tra il rivolgimento materiale, che si verifica nelle condizioni economiche di produzione, e che va constatato scrupolosamente alla maniera delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, in breve ideologiche, in cui gli uomini si rendono coscienti di questo conflitto e si battono per risolverlo. Come non si può giudicare un individuo dall’idea che si è formato di sé, così non si può giudicare una di queste epoche di rivolgimento in base alla coscienza che essa ha di se stessa; questa coscienza infatti va piuttosto spiegata partendo dalle contraddizioni della vita materiale, dal conflitto che esiste tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non scompare mai finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive che essa è capace di creare, così come non si arriva mai a nuovi e più evoluti rapporti di produzione prima che le loro condizioni materiali di esistenza si siano schiuse nel grembo stesso della vecchia società…I rapporti di produzione borghesi sono l’ultima forma antagonistica del processo sociale di produzione, antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale ma in quello di un antagonismo che nasce dalle condizioni sociali di vita degli individui; nello stesso tempo però le forze produttive che si sviluppano in seno alla società borghese creano anche le condizioni materiali per il superamento di tale antagonismo. Con questa formazione sociale si conclude quindi la preistoria della società umana».
6.Quanto illustrato brevemente fin qui, ma molto più dettagliatamente nel saggio da La Grassa, dovrebbe far recepire meglio l’oggetto di studio di Marx e le sue previsioni scientifiche. Perché Marx fonda «una concezione nuova di una scienza che racchiude una rivoluzione nelle espressioni tecniche di questa scienza», come afferma Engels, trattando dei rapporti sociali e dei modi storici di produzione, concentrandosi sull’ultimo per ordine di affermazione, quello capitalistico, quale chiave per comprendere «la struttura e i rapporti di produzione di tutte le forme di società passate». Per questo il pensatore tedesco non è un filosofo, non procede col metodo filosofico ragionando su categorie e enti generici (l’Uomo, l’Umanità, la Natura ecc. ecc.) o universali, di tipo etico o morale, valevoli in qualsiasi tempo ed in qualsiasi luogo. Non che questi siano problemi inessenziali ma attengono a dimensioni dalle quali Marx era uscito già trentenne, stanco di girare a vuoto nelle diatribe della sinistra hegeliana. All’approccio filosofico preferì quello economico ma non si fermò ad accettare gli assunti della disciplina economica “classica” a sua disposizione che peccavano di ideologia ed andavano depurati dalle mille tautologie concettuali, volontarie e involontarie.
Per una tale ragione non esiste una filosofia marxista e nemmeno esistono i filosofi marxisti, se non soit-disant. Alcuni bravi filosofi (penso a Lukács o ad Althusser) hanno dato il loro contributo allo studio del marxismo come persone dotate di una certa intelligenza, di molto superiore alla media, ma indipendentemente dal fatto che fossero filosofi. Althusser che lo sapeva sosteneva beffardamente: «conoscete molti filosofi che hanno ammesso di essersi sbagliati? Un filosofo non si sbaglia mai!». Proprio per i temi trattati i filosofi fanno discorsi che valgono per i millenni e non fanno in tempo a sbagliarsi. Dopo tanti secoli, le domande che si sono fatti restano intatte come le stesse risposte, con minime variazioni sui temi.
Nella scienza i riscontri avvengono più rapidamente e se una teoria dimostra di non funzionare, in tutto o in parte, deve rassegnarsi ad essere superata per una migliore conoscenza. Oggi, purtroppo, la preparazione dei filosofi è decaduta paurosamente. Sono soprattutto costoro che, non avendo dimestichezza con la materia marxiana, sospendono la realtà per mettersi a fantasticare di profezie di Marx in dirittura di arrivo o già avveratesi, trascinandosi dietro i meno attrezzati a scoprire la truffa. Non è possibile, ad esempio, prendere la principale tra le previsioni errate di Marx e farla diventare un inveramento inequivocabile. Popper se la ride e rivendica ogni ragione. L’epistemologo austriaco, scrive La Grassa, «invita ad esprimere con nettezza e senza contorcimenti qual è il proprio pensiero in merito a date ipotesi interpretative di fenomeni sociali, dai quali certamente si devono poter derivare, sia pure a grandi linee e per periodi non brevi (ma nemmeno millenari), date previsioni circa gli svolgimenti futuri. E’ questo che dà fastidio a certi filosofi che vorrebbero rendere Marx simile a loro. In questo senso, va criticato Popper; perché si è facilitato il compito polemizzando non con Marx ma contro suoi presunti interpreti, che ne hanno fatto la semplice caricatura, rendendo la sua teoria inadatta ad esprimere idee definite, da cui far discendere previsioni di massima per i prossimi tempi, previsioni però ipotetiche (cioè scientifiche) sempre passibili di correzioni varie in base ai segnali inviatici dagli errori commessi; e che sempre saranno commessi poiché “s’impara solo sbagliando”. E non dobbiamo essere sconsolati per questo; ben venga l’immersione nell’errore, dalla cui rilevazione soltanto risulta l’avanzamento della cosiddetta conoscenza, sempre in fase di fallimento; perché è così che essa si proietta nel futuro e non si avvolge nelle fetide nebbie dell’ideologia dei credenti per fede».
Invece, i filosofastri odierni, in compagnia dei sociologi, sostengono che il finanz-capitalismo imperante sarebbe la dimostrazione lampante che l’aristocrazia finanziaria avrebbe definitivamente preso il potere, determinando il passaggio dal capitalismo industriale a quello delle cedole. Come profetizzato da Marx. Ma questo presunto vaticinio di Marx non si è affatto avverato ed, anzi, costituisce il suo principale errore previsionale. Abbiamo già detto, innanzitutto, che Marx vedeva la trasformazione all’opera nella sua epoca senza dover attendere il nostro 2018. Ma una scienza che fa ipotesi da qui a più di 150 anni non serve a nulla, è divinazione.
Marx non era un frate indovino. La scienza non profetizza, la scienza, semmai, desume delle scoperte che possono attuarsi o meno, nel giro di qualche tempo, mesi o pochi anni, non secoli. Questo Marx lo sapeva benissimo perché non era un Nostradamus qualunque, come i suoi finti cantori odierni vorrebbero darci a bere. Difatti, egli scrive nel Capitale che il comunismo era già un parto maturo nel grembo della società, che il bambino avrebbe presto visto la luce, per effetto di una dinamica intrinseca al modo di produzione capitalistico. Secondo lui, la lotta nel libero mercato tra capitalisti avrebbe favorito processi di concentrazione (prima) e di centralizzazione (poi) dei capitali, con espropriazione di molti proprietari che sarebbero stati risospinti tra i salariati (anche se di più alto livello). Contestualmente, la socializzazione dei diversi processi produttivi, favorita dalla prima circostanza, non avrebbe incontrato più ostacoli, determinando la formazione, nella produzione, di un nuovo soggetto collettivo, il quale avrebbe avuto tutto il controllo delle fasi lavorative.
Come scrive La Grassa: «La proprietà si separa dalle potenze mentali (direzione) della produzione che vanno ricongiungendosi – non però allo stesso livello, con l’esistenza invece di scarti e separazioni che creano comunque contraddizioni (non antagonistiche) – alle attività di prevalente esecuzione (e manualità). Si viene cioè creando quella separazione, tendenzialmente duale, tra il cosiddetto rentier (solo proprietario delle condizioni di produzione ma tramite una specifica modalità, finanziaria, di controllo) e l’insieme dei venditori di forza lavoro che costituiscono l’operaio combinato (o lavoratore collettivo cooperativo)».
Sostanzialmente, questa classe di rentier è un gruppo dominante decadente che ha perso il dominio sulla base materiale (produttiva) e che sopravvive grazie al controllo politico degli apparati di coercizione dello Stato. Il rapporto sociale generale è già, anzi, favorevole al lavoratore associato che rappresenta il grosso della società, la sua parte più dinamica e propulsiva. I pochi capitalisti finanziari rimasti non avrebbero potuto nulla contro questa forza collettiva che avrebbe, infine, egemonizzato tutta la “sovrastruttura”.
Questo diceva Marx. Se i filosofi sono sicuri che il capitalismo (che definiamo così solo per comodità espositiva, essendosi metamorfosato con la fine della società borghese a predominio inglese e l’avvento della società dei funzionari privati di matrice americana) sia in decadenza o, persino, entrato nel suo stadio di putrescenza finanziaria, allora hanno le allucinazioni. Nientemeno, per costoro staremmo assistendo alla separazione tra proprietà e produttori, con annullamento dell’industria privata capitalistica, di cui l’irreversibile crisi sistemica globale sarebbe il segnale definitivo. Sono cose fuori di senno. Per Marx la massima finanziarizzazione nella sfera circolatoria sarebbe coincisa con la formazione del General Intellect nella produzione. Marchionne e Faussone, pur con qualche piccola differenza retributiva, sullo stesso fronte.
Il comunismo principiava proprio in questa alleanza, dettata dalla circostanza oggettiva di essere tutti dei salariati, opposti a pochi azionisti disinteressati della produzione.
Ma nella produzione non si è saldato, né adesso né all’epoca di Marx, il G.I. (proprio perché il capitalismo non portava affatto su quella rotta). Presentemente, è evidentissimo che gli strati superiori del management produttivo (per non dire di quello strategico) sono inseriti a pieno titolo nei gruppi dirigenti dominanti. Per Marx i rentier erano quelli estraniati dalla produzione, spossessati delle potenze mentali. Con la sola ricchezza, senza essere più attori preminenti di rapporti sociali oggettivi (e automatici) e senza disporre di supremazia militare ed ideologica, non si domina un bel nulla. Quello che i filosofi dicono e ascrivono a Marx è frutto della loro fantasia. Il pensatore tedesco non era stato così rozzo e antiscientifico nell’esprimersi, non vaneggiava di produzione neofeudale del capitalismo flessibile.
Cito ancora La Grassa: «Quando il profitto si stacca nettamente dal “salario di direzione”, quando il capitalista è mero proprietario e il possessore delle potenze mentali produttive diventa salariato, cessa anche la spinta innovativa, il capitalismo comincia a deperire poiché non garantisce più lo sviluppo che è stato, in un certo senso, la sua ragione storica, la sua funzione positiva, quella per cui Marx lo considerava necessario al fine di non aspirare ad un comunismo di povertà, di ristrettezza delle piccole comunità agrarie, di “idiotismo rurale” (una sua espressione). Soprattutto, però, nel lavoratore collettivo, per quanto l’alto dirigente (colui che possiede i maggiori saperi produttivi) si senta personaggio particolarmente indispensabile rispetto ai bassi livelli lavorativi, si diffonderebbe la sensazione di essere comunque depredati da chi vive in tutt’altro mondo, dedicandosi per di più ad un gioco, quello finanziario sui segni della proprietà, che talvolta precipita sulle spalle dei produttori sconvolgendo i loro piani e la loro vita stessa. A ben vedere, del resto, queste sono ancora oggi le concezioni dei critici (imbelli) del capitalismo che, ad ogni crisi dello stesso, si scagliano contro la finanza, in ciò facilitando il gioco dell’ideologia dominante, ben adusa a sostenere tali emerite idiozie, dando addosso ai finanzieri “cattivoni” additati quali veri responsabili della crisi, magari mandandone perfino qualcuno in galera o comunque consegnandolo al ludibrio delle genti così che, quando poi il capitalismo si riassesta, si possa tornare a parlare dei meriti di questa forma di società, dei meriti di coloro che la dirigono “onestamente”, “eticamente».
7. Che Marx fosse incappato in un abbaglio non è scoperta recente. I suoi successori, da Engels a Kautsky, dovettero fare degli aggiustamenti che inficiarono la teoria originaria, quasi snaturandola. Hilferding, considerato il continuatore del Capitale di Marx, fu tra quelli che travisarono maggiormente gli studi del pensatore tedesco sostenendo la possibilità della trasformazione socialistica tramite il controllo statale della Banca centrale, utile a dirottare il capitale creditizio nella pianificazione di attività favorevoli ai salariati. Un po’ quello che affermano i nostri modernissimi filosofi e sociologi che, per mancanza di idee, pescano a piene mani da ere sorpassate e si presentano ai contemporanei come innovatori. Numerosi altri adattamenti ebbero però importanti scopi politici ed ideologici.
Il marxismo era infatti divenuto il punto di riferimento della classe operaia e dei suoi partiti d’avanguardia che, con i rimandi a Marx, davano alle lotte tradunionistiche scopi più elevati ed esaltanti di trasformazione complessiva della società. Ma nessun mutamento di paradigma sarebbe mai avvenuto nei Paesi dove il capitalismo era un fatto compiuto ed i suoi gruppi dominanti ben strutturati e saldi. Invece, negli anelli deboli della catena imperialistica, dove i drappelli dirigenziali erano disorganizzati e divisi, le rivoluzioni erano possibili. Russia e Cina docent.
Lenin vede che le tendenze descritte da Marx non si formano spontaneamente nei gangli del capitalismo, i rentier non sono la superclasse ristretta e preminente, mentre piuttosto c’è simbiosi tra capitale bancario e industriale. I manager d’impresa non si fondono con gli operai dando vita al G.I. ma restano, anche se salariati, specialisti borghesi più vicini agli strati superiori, per mentalità e cultura, che alla manovalanza. Le maestranze (la classe in sé), infine, se lasciate alle loro lotte spontanee, non vanno oltre le rivendicazioni salariali. Solo allorquando queste si fanno guidare da avanguardie rivoluzionarie (composte da borghesi emancipati, dunque non dall’aristocrazia operaia ma da rappresentanti dei ceti medio-bassi della classe dominante) riescono ad esercitare una egemonia che va oltre la fabbrica (la classe per sé, quella con una coscienza collettiva).
Questa è una ulteriore ipotesi ad hoc che deve sopperire alle carenze della teoria marxiana la quale invece stabiliva la rivoluzionarietà del lavoratore collettivo cooperativo nei fatti, per automatismo del rapporto sociale, senza trucchi dialettici. In realtà, qui decade la previsione marxiana, come precisa La Grassa: «Il lavoratore collettivo era già basato su una visione abbastanza limitativa, secondo cui la sfera economico-produttiva (poiché senza produrre non si può vivere, anche questa una concezione piuttosto semplicistica) era la base essenziale della strutturazione sociale. Era insomma lo scheletro del corpo sociale; e dunque la sua forma (la “base economica” della società) condizionava la complessiva configurazione del corpo sociale e l’articolazione dei suoi “organi interni” (le “sovrastrutture politico-ideologiche”). Di conseguenza, quando il lavoratore collettivo avrebbe tolto ogni potere ai capitalisti ormai solo proprietari, esso sarebbe divenuto il raggruppamento sociale decisivo (i rapporti tra i suoi membri sarebbero stati il nuovo “scheletro” della società), attorno a cui ogni altra attività socialmente utile avrebbe dovuto ruotare. In questo modo, tale collettività dei produttori (associati e cooperanti) avrebbe sostituito una classe solo particolare (e minoritaria), qual era la borghesia, nell’egemonia sociale complessiva. La classe operaia però, se intesa come corpo lavorativo esecutivo, non è affatto capace di questa egemonia. In realtà, essa non è classe nel senso inteso da Marx, tanto meno è il “soggetto” della trasformazione, che non poteva essere il risultato di una semplice volontà “soggettiva”, ma della capacità di rimuovere gli ostacoli e i diaframmi frapposti al comunque oggettivo svolgersi della dinamica di questa formazione sociale; per cui, secondo il “Nostro”, la rivoluzione sarebbe dovuta essere “la levatrice di un parto ormai maturo” nel grembo della società».
8. Fu la situazione storica a far nascere il primo Stato nominativamente comunista (e non nel senso in cui lo intendeva Marx) della Storia. Esso non si fondò sulla preminenza del lavoratore associato e nemmeno sull’egemonia della classe operaia che in Russia era addirittura marginale rispetto ai contadini. Ci volle un’alleanza artificiale, imposta da un reparto avanzato di rivoluzionari, di estrazione non contadina e non operaia, per solidificare una massa critica rivolta all’abbattimento dello zarismo.
Ma prima ancora, fu la situazione internazionale di policentrismo geopolitico e, successivamente, di guerra aperta tra le grandi potenze a creare le condizioni per i rovesciamenti sociali nelle nazioni economicamente e socialmente arretrate. Lenin credette che lo scoppio dei moti russi avrebbe comunque funzionato da detonatore per un sovvertimento mondiale del capitalismo. Si trattava di resistere in Russia, paese non attrezzato ma ideologicamente e politicamente avanzato, fino a che anche i popoli più sviluppati non avessero compiuto il loro destino, rompendo l’isolamento della prima e fornendo ad essa lo slancio produttivo di cui abbisognava, in nome dell’internazionalismo proletario. La classe operaia occidentale, ben inserita nel capitalismo e sua parte organica, non solo non si svegliò mai ma fornì ai governi in guerra il proprio appoggio, mandando in frantumi il “cosmopolitismo” dei lavoratori. Le grandi narrazioni sull’imminente rivoluzione mondiale e sul mutuo soccorso socialista che gli stati fuoriusciti dal capitalismo si sarebbero dati sbatterono su criticità più prosaiche.
La Russia post-rivoluzionaria, devastata dalla guerra, isolata dal resto del mondo, con un apparato industriale inefficiente e non all’altezza, cercava in sé stessa le energie per la ricostruzione, evitando di cadere nei vecchi rapporti economico-sociali.
Lenin verificò in poco tempo che la rivoluzione non rilanciava la società russa, che il popolo stentava, non proprio come sotto lo zarismo ma qualcosa di simile, che le divaricazioni sociali (tra campagna e città) non si accorciavano, che i differenziali economici nel mondo contadino (tra kulaki e kombèdy) s’incancrenivano, che elementi disfattisti provavano a farsi largo nel malcontento, sostenuti da potenze straniere. Perciò varò la NEP, dando spago alla piccola produzione mercantile e rurale che rappresentava allora in Russia il modo di produzione economico-sociale più diffuso.
Si rischiava, certo, che da questi presupposti si risollevasse il rapporto sociale capitalistico vero e proprio ma per lui si trattava di una misura transeunte per riattivare la sussistenza sociale e le forze del cambiamento; ed infatti, questa situazione complicata fu poi superata con i grandi piani di industrializzazione successivi, un processo forzato “dall’alto” che non fece fare un solo passo nella direzione del socialismo o comunismo, impossibili per quanto ci siamo già detti, ma che portò alla creazione di una grande potenza tra occidente ed oriente, caduta soltanto nel 1989.
9.Il limite di Marx, se così si può dire, di fronte ad una compenetrazione di sfere sociali, fu quello di aver posto quella economica (dentro la quale aveva individuato il fattore dirimente della proprietà o non proprietà dei mezzi di produzione che separava la strada delle due classi fondamentali in lotta) alla base del sistema, considerando quella politica e quella culturale delle derivate sovrastrutturali. Il complesso dei rapporti di produzione «costituisce la struttura economica della società, la base reale su cui si eleva una sovrastruttura giuridica e politica … Il modo di produzione della vita materiale è ciò che condiziona il processo sociale, politico e spirituale». Come sottolinea La Grassa, questa scelta ha condotto il marxismo «in una direzione non totalmente errata, ma troppo ristretta temporalmente e spazialmente».
Con le mutazioni subite dal capitalismo e lo spostamento del suo asse geografico e societario (non più borghese), dall’Europa agli Usa, gli argomenti del marxismo sono divenuti insufficienti. Il tema dell’indagine sociale deve essere aggiornato e ricollocato storicamente. Produzione e mercato sono ancora concetti non esaustivi che smuovono la superficie della nostra problematica.
Lo studio del modo di produzione ci dice molto ma non più abbastanza sulle dinamiche globali dei capitalismi attuali. Istanza fondamentale per approfondire la conoscenza della nostra contemporaneità non è più la proprietà dei mezzi di produzione (o il potere di disposizione degli stessi), come creduto da Marx, ma lo squilibrio incessante del reale che crea conflitti a varie “latitudini” e longitudini”, determinando stratificazioni e segmentazioni sociali. I più decisivi sono i conflitti tra agenti dominanti che lottano per la supremazia nelle diverse sfere umane: politico-militare, ideologico-culturale, economico-finanziaria. Non vi è preminenza prestabilita di una sfera sull’altra ma tutte sono il precipitato di una “sostanza” comune: le mosse strategiche (politiche) per l’egemonia nel campo d’azione (o di stabilità) prescelto.
Gli attori non possono immergersi direttamente nel flusso del reale se vogliono agire nel mondo. L’attività degli individui (nei gruppi), dei gruppi sociali (nelle formazioni particolari, in definitiva i vari paesi), dei paesi (con i loro Stati, con gli organismi detti internazionali, ecc.) nel mondo (ciò che c’è oltre lo specchio che riflette la suddivisione in sfere), tende sempre a cristallizzare la “realtà” (una specifica realtà) in un dato equilibrio, perché ogni azione, sempre preceduta da un progetto e dalla fissazione degli obiettivi da realizzare, ha bisogno di creare dei punti di riferimento, dei campi di stabilità, che, per quanto provvisori, sono dotati di consistenza e cogenza per una specifica fase. Infatti, vi è sempre un “movimento” nelle viscere della società che alla lunga muta gli equilibri faticosamente raggiunti trascinando i soggetti, agiti da questa corrente, in molteplici tenzoni volte ad imporre la propria visione della situazione, la quale, ovviamente viene ritenuta più giusta ed adeguata di quella in essere mentre chi già detiene il potere lotta per l’esatto contrario, per mantenere quelle condizioni storiche e sociali che garantiscono il suo predominio.
Scrive La Grassa che «la realtà è movimento di cui supporre parti in relazione interattiva fondata sul conflitto a causa dello squilibrio sempre attivo. Lo squilibrio è a fondamento del (è soggiacente al) conflitto strategico. Gli attori sono maschere di rapporti sociali configurati dal conflitto, ma comunque essi agiscono sempre nell’ambito di detti rapporti e quindi non possono non sentirsi “soggetti attivi”. Per agire hanno bisogno di fissare stati di quiete, quindi campi di lotta in cui sviluppare le loro strategie.
Lo svolgimento di strategie è politica; lo è nella sfera detta politica (Stato e suoi apparati, partiti e lobby, associazioni nate per influenzare la lotta in tale sfera, ecc.), nella sfera economica (imprese che si confrontano nel luogo denominato mercato), in quella ideologico-culturale (con i vari apparati che la caratterizzano e i suoi particolari ambiti e metodologie di confronto-scontro). Noi trattiamo, sempre per scopi pratici, lo Stato come un “soggetto”, ma in realtà in esso si confrontano vari centri di elaborazione di strategie in urto fra loro.
Lo stesso vale per le imprese, trattate abitualmente quali entità unitarie, mentre il vero fulcro di tale loro unitarietà si situa nei centri direzionali di vertice addetti all’espletamento della politica (strategie per il conflitto), dalla quale deriva la funzione di attori da esse esplicata nel mercato. Lo squilibrio spiega il motivo per cui, malgrado i desideri e le aspirazioni degli umani, il conflitto (con il corredo delle strategie, cui è subordinata la razionalità del minimo mezzo) è l’elemento dominante nelle azioni dei “soggetti” (individui, gruppi sociali, formazioni particolari), mentre la cooperazione esiste solo in quanto funzionale alla lotta. Lo squilibrio situa ogni “soggetto” in posizione dissimmetrica rispetto agli altri quanto a rapporti di forza, generando reazioni tese a recuperare la simmetria. Ogni alterazione dell’equilibrio, che i “soggetti” si erano illusi di stabilire, suscita subito sospetti, diffidenze; si pensa immediatamente che l’altro, o gli altri, abbiano agito subdolamente, per raggiro, non mantenendo fede alla propria parola, ecc. E si pongono in essere le contromisure. Poiché questo avviene incessantemente, senza sosta, alla fin fine, in nessun momento dato, vi è un qualche “soggetto” che agisca con sincerità, in modo aperto; ognuno ha dal suo punto di vista ragione a vedere nell’altro (negli altri) solo falsità e menzogna, sorriso e disponibilità all’accordo mentre si preparano pugnalate alle spalle, per cui ognuno è convinto di stare agendo per semplice contromisura, di essere pienamente giustificato nel comportarsi secondo le stesse modalità di ogni altro. Naturalmente, si cercano le alleanze (sempre aperte allo scioglimento e a possibili cambi di campo) per premunirsi da quelle che vengono avvertite come congiure di nemici in combutta tra loro; i quali si adoperano ovviamente nello stesso senso per i medesimi motivi e preoccupazioni. I “soggetti” in interazione conflittuale, “causata” dallo squilibrio, non sono semplicemente i gruppi sociali; e questi ultimi non sono le classi disposte in verticale (dominanti e dominati, oppressori e oppressi, sfruttatori e sfruttati, ecc.) secondo un pensiero semplicemente, e semplicisticamente, duale. I “soggetti” sono, come sopra già segnalato, gli individui nei gruppi, i gruppi nelle formazioni particolari (paesi o aree a “struttura” considerata sufficientemente omogenea), queste ultime nell’arena globale, cioè nella formazione mondiale” ».
Per questo non è possibile stabilire a priori la supremazia di una sfera sociale sull’altra perché è la stessa lotta per la supremazia, in ogni sfera sociale, per il tramite di “portatori soggettivi di antagonismi”, l’elemento determinante. Questa lotta è lotta di strategie politiche, anche quando non avviene nella sfera detta politica. In ogni caso, possiamo però stabilire una predominanza relativa della sfera politico-militare sulle altre proprio perché il conflitto, portato al suo più alto grado, attiene agli Stati e a gruppi che agiscono in esso. E’ il conflitto per la preminenza geopolitica che richiede un coordinamento ed uno sforzo direzionato di tutti i settori sociali verso quell’obiettivo massimamente strategico. Questa è una vera rivoluzione teorica, pregna di intuizioni che però devono essere affinate e sottoposte alla sfuggevolezza delle cose (che sfuggono, soprattutto, perché il pensiero non è in grado di coglierle nella loro interezza o nella loro esistenza in sé).
10. Con queste premesse teoriche La Grassa legge i fenomeni e gli avvenimenti dell’epoca appena trascorsa per arrivare ai giorni nostri. La sua valutazione del capitalismo (sub)dominante italiano, totalmente dipendente dal centro gravitazionale statunitense, dalla fine della II guerra mondiale, sgombra il campo dai luoghi comuni che si sentono spesso ripetere sulla base economica e sociale del nostro Paese. Se durante l’epoca bipolare Roma ha goduto di una rendita di posizione, per il suo essere piattaforma di confine tra due mondi contrapposti, l’implosione dell’Urss l’ha retrocessa a provincia marginale dell’impero, riproponendo in maniera aggravata molti dei suoi atavici problemi.
La struttura produttiva ed economica nazionale, per tutto il secolo precedente, è stata forgiata da un capitalismo di tipo familiare, affiancato, tra mille attriti, dai monopoli di Stato che si curavano di intervenire nei campi ad investimenti più alti e rischiosi. Sotto il fascismo accadde qualcosa di simile, con Mussolini che dopo aver risanato alcune attività inserite nell’IRI le mise a disposizione di Agnelli ed altri. Gli industriali rifiutarono, per scarsa lungimiranza, l’offerta, timorosi di accollarsi imprevisti e di sperperare capitali che tenevano al sicuro con i soliti sistemi, ignorando però l’esigenza di sviluppo di una nazione dalla quale prendevano più di quanto davano.
Per questo habitus mentale, individuale e di casta, l’economia italiana, anche in seguito, è risultata competitiva solo a tratti ed ha esplorato raramente i settori tecnologici più progrediti, accontentandosi di ambiti industriali già maturi, seppur ancora molto profittevoli, sempre sotto l’egida americana. Quando ha provato ad alzare la testa, ponendosi all’avanguardia, per esempio, della chimica o dell’elettronica, grazie all’azione di alcuni gruppi strategici statali, le sentinelle americane nel nostro Paese hanno agito per rimetterla al suo posto, con le buone o con le cattive maniere.
In alcuni contesti si è potuto resistere, non senza difficoltà, sottoponendosi a ridimensionamenti o mutamenti giuridici di proprietà delle aziende (vedi Eni, Finmeccanica, Enel, etc.), in altri si è abdicato per non tirare troppo la corda col potente alleato d’oltreoceano, il quale non gradiva la concorrenza dei sottoposti nei comparti avanzati. Qualcuno ci ha pure rimesso la pelle, in circostanze che resteranno misteriose, almeno finché chi comanda in Italia sarà legato ai poteri forti occidentali a cui è perennemente subordinato, ora più di ieri. La Grassa ricorda che la guerra a questo settore “pubblico”, particolarmente attivo nelle iniziative industriali di punta «inizia assai presto (subito, di fatto) e ne è simbolo l’assassinio (mascherato da incidente) di Mattei, con ogni probabilità preparato da ambienti americani (troppo facilmente identificati con le “sette sorelle”, il problema è più vasto e complesso) con la manovalanza della mafia siciliana (legata da mille fili al gangsterismo statunitense). Si è però sempre trascurato l’altro filone, più interno: quello dell’industria privata (dei “traditori” filoamericani del ’43) con le numerose e vaste lobbies politiche (nell’ambito governativo, non credo proprio vi fosse a quel tempo un coinvolgimento nemmeno minimo del Pci) e la presenza di “quinte colonne” perfino dentro il settore pubblico dell’economia e nella stessa Eni».
I “privati” nel nostro paese, piuttosto che agire sinergicamente col pubblico per esprimere maggiore potenza nazionale, da sfruttare nei rapporti con l’estero, hanno utilizzato lo Stato come un taxi o come un bancomat, pretendendo che fosse esso a pagare i conti, limitare i rischi d’impresa ed accollarsi le difficoltà conseguenti alle numerose scelte sbagliate dei padroni del vapore e dei loro manager, opzionati in circoli ristrettissimi di privilegiati, non disdegnando il ricorso al ricatto occupazionale (si pensi alla Fiat) per alzare il prezzo (socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti). Ad ogni modo, quando le cose andavano storte, la responsabilità non ricadeva sui loro progetti fallimentari e di corto respiro ma sull’ingerenza della “bestia” a cui occorreva addebitare i vari passi falsi ed il mancato progresso generale.
Questo rapporto malato tra pubblico e privato non fu compreso nemmeno dal Pci, il più grande partito comunista d’Europa, con residenza italiana. Togliatti aderì al teorema del capitalismo straccione o arretrato ridimensionando con ciò le colpe e le mancanze degli attori in campo, assecondando una previsione errata circa la putrescenza del capitalismo, giunto al suo canto del cigno. Chi ha letto quanto c’è scritto nei paragrafi precedenti e quanto ritroverà nel saggio che ha in mano può ben intendere a quali malintesi politici e pratici possa condurre una teoria “starata”.
Le sconfitte a cui porteranno quegli abbagli negli anni successivi non saranno casuali, anche se è facile dare giudizi post-festum. La classe operaia rivoluzionaria, che aveva un destino di vittorie predestinate davanti a sé, a detta dei marxisti, prima fu battuta dalla Fiat che «…assestò, con l’appoggio del sistema politico imperniato allora sulla Dc, la prima sconfitta al “movimento operaio” nel 1955 (elezioni della “Commissione interna”), ma eravamo prima del boom. Con quest’ultimo – lo ribadisco: nell’ambito di un “capitalismo organizzato” e coordinato da un centro (Usa) – si verificarono due fondamentali processi destinati ad caratterizzare l’intera storia italiana». Poi si vide contraddetta anche nella previsione, desunta dalle teorie marxiane, dell’allargamento della sua base collettiva, dovuta alla crescente proletarizzazione della forza-lavoro. Invece, si verificò un «processo di trasformazione del contadino piccolo-proprietario – arricchitosi per il valore preso dalle sue terre in presenza di vasti fenomeni di inurbamento legati appunto alla trasformazione della società italiana non più a prevalenza agraria – in industrialotto, quello poi detto del nord-est. Fenomeno che si sviluppò più impetuosamente nelle zone “bianche” veneto-lombarde, ma anche, e ampiamente, in quelle dette “rosse” emiliane (in Toscana più tardi e con minore impeto)».
11.Negli anni ’70, il cortocircuito ideologico all’interno del Pci (principiato nella fase post-bellica, anche come effetto della spartizione delle zone egemoniche tra Usa e Urss che fissavano i limiti di espansione dei blocchi) diventò irrimediabile, accelerando le deformazioni della “linea” (rammendata da lunga pezza e oramai ridotta ad atto di fede verso i dirigenti e la causa) e le degenerazioni dell’apparato. Il compromesso storico ne fu l’apice. Il partito comunista diventò staffa di governo, benché esterna allo stesso per la ben nota conventio ad excludendum.
Quel clima di smobilitazione ideale e di rivestitura moralistica delle numerose falle teoriche, sospinte sotto il tappeto per decenni, garantì l’ascesa ai piani alti di Botteghe Oscure dei peggiori traditori filo-americani, cresciuti come serpi in seno nei gangli dell’organizzazione. Berlinguer (quello che nascondeva la testa sotto l’ombrello della Nato) e Napolitano, il comunista preferito da Kissinger, il primo tra i compagni ad approdare sulla “West Coast”, furono i principali rappresentanti del cedimento all’acerrimo nemico.
La resa fu totale ed a rimetterci fu l’intera nazione che continua a pagare la mancanza d’indipendenza, in ogni suo attore istituzionale e “corpo speciale”, anche adesso. Il Pci smise di alimentare alternative all’american way of life e ne divenne anzi ambasciatore, velatamente e via via scopertamente con la caduta del Muro di Berlino, modificando, già all’indomani di quell’evento spartiacque, simbolo e ragione sociale. Il processo però veniva da molto lontano. Occhetto e compagni(a), con finta sofferenza, liquidarono la baracca ma non furono loro gli artefici di quell’epilogo che, anzi, li aveva selezionati per autoadempiersi, prima ancora che costoro arrivassero ad occupare il davanti della scena. La storia crea giganti per le grandi imprese e nani per concluderle.
Nei primi mesi del ’91 si scioglie il Pci e pochi mesi dopo si dissolve anche l’Urss. La “patria” cosiddetta socialista, già dopo la morte di Stalin ed il XX congresso del Pcus (che ne demonizzerà la figura lasciando intatte le criticità strutturali di quella formazione sociale), mandò i primi segnali di cedimento: «In fondo – scrive la Grassa – la brusca svolta kruscioviana fu anch’essa attuata senza un minimo di riflessione autocritica; semplicemente distruggendo l’immagine di un paese – che era riuscito a costruire, in condizioni di isolamento, la seconda potenza militare del mondo, in grado di vincere nella seconda guerra mondiale e di influenzare i processi di decolonizzazione del dopoguerra con l’emergere di paesi “non allineati”, la formazione di un vasto Terzo Mondo che cominciò a contare nella storia – come se la “sesta parte del mondo” fosse stata per decenni in mano ad un pazzo criminale. Nemmeno un acerrimo anticomunista è mai riuscito a far meglio di Krusciov, vero “genitore” di Gorbaciov ed Eltsin».
Tuttavia, è negli anni 80 che la crisi del “comunismo irrealizzato” apparirà irreversibile, nonostante alcuni osservatori (qualcuno a 24 carati, come Bettelheim ed Althusser) vedranno in Gorbaciov e nelle sue fantomatiche riforme, dalla glasnost alla perestrojka, una via di scampo alla stagnazione sociale, economica e politica. Era l’ennesima illusione dei chierici per l’ultimo voltafaccia, quello definitivo, degli “uomini nuovi”, attori incapaci di fermare la decomposizione dell’Urss, divenuti, in men che non si dica, star dell’occidente vincente. L’immagine di Gorbaciov che reclamizza la pizza Hut e le borse di Vuitton è la fotografia beffarda della Storia sulla lapide del socialismo sovietico.
In questo scorcio di XXI secolo, ritroviamo quelli che si dicono ancora comunisti, progressisti o generalmente di sinistra ad appoggiare incondizionatamente le guerre che gli americani alimentano nel mondo, contro sedicenti dittatori o a favore di presunte minoranze oppresse, laddove, invece, si tratta unicamente di prepotenza del geopoliticamente più forte sul più debole e isolato o non abbastanza armato per il conflitto, mascherata sotto le bandiere della libertà e della democrazia, vessilli che non hanno sventolato mai così in basso.
Tutto ciò non sta accadendo per caso o per volontà dei singoli ma è il frutto di uno svolgimento inevitabile allorché, al cospetto di cambiamenti radicali, non è stata aggiornata la teoria e la pratica politica. Idee precedentemente rivoluzionarie diventano quanto di più reazionario possa esistere se l’approccio conoscitivo non si adegua al cambiamento di prospettiva storica.
Il comunismo, smentito dalla realtà, può sussistere esclusivamente in questo quadro nostalgico e retrivo, in cui la povertà di spirito ha sostituito l’energia, per quanto vana, dello spettro che si aggirava per l’Europa. Anche il cosiddetto politicamente corretto è figlio di questa degenerazione epocale e dell’inaridimento di precedenti dottrine che avevano messo al centro della loro attenzione le lotte dei dominati. Quando la spinta si è esaurita perché la “scommessa” dell’abolizione delle classi della società è stata persa, in quanto il proletariato si è dimostrato non essere il soggetto collettivo dell’intermodalità tra capitalismo e comunismo (qui ribadiamo che secondo Marx non erano i lavoratori del braccio che potevano sovvertire il capitalismo ma l’unione tra quelli e i lavoratori della mente), sono fiorite le deformazioni.
Il politicamente è corretto è una di queste, come afferma lo scrittore americano Tom Wolfe esso «è diventato uno strumento delle “classi dominanti”, l’ idea di un comportamento appropriato per mascherare meglio il loro “predominio sociale” e mettersi la coscienza a posto. A poco a poco, il politicamente corretto è perfino diventato un marcatore di questo “predominio” e uno strumento di controllo sociale, un modo di distinguersi dai “bifolchi” e di censurarli, di delegittimare la loro visione del mondo in nome della morale».
12. A parere di La Grassa la struttura sociale italiana merita un’analisi più approfondita, anche per rendere maggiormente intelligibili i suoi risvolti correnti. La sua disamina è stato sovraccaricata negli anni dai racconti ideologici di varie scuole (liberali, marxiste, cattoliche ecc. ecc.) e di altrettante discipline (economia, storiografia, sociologia, ecc. ecc.) con risultati parziali e poco convincenti. Il pensatore veneto individua nella questione dei ceti medi il vero busillis da affrontare, quello che ha causato confusione, teorica e pratica, ad ogni livello.
Dopo il boom dei primi anni ’60 ebbe avvio una rigenerazione della società italiana non compresa dalle sue forze politiche. Quelle democristiane di governo riuscirono comunque a gestire la transizione, grazie all’aiuto americano, mentre i comunisti girarono un po’ a vuoto, nel tentativo d’individuare nei processi in atto qualcosa che riconducesse ai loro convincimenti sulla fine del capitalismo, anche se tutto andava in senso opposto. La Grassa scrive che i «mutamenti strutturali furono due, nel complessivo passaggio del paese alla fase della prevalenza industriale (e dei servizi all’industria), via via più accentuata nei decenni che seguirono…la solita trasmigrazione dalla campagna alla città e dalla condizione contadina a quella operaia; e la formazione di larghi strati dei “ceti medi produttivi” (piccola imprenditoria)».
Il primo mutamento vide lo spostamento di masse di contadini da sud a nord. Ciò riaprì la sempiterna questione meridionale che venne riletta come colonizzazione del settentrione sul meridione. In verità, le colonizzazioni “classiche” avvenivano «con l’installarsi di quote della classe dirigente del paese dominante in quello coloniale dove essa dà vita all’agricoltura delle grandi coltivazioni e ad industrie (ad es. minerarie o simili) che servono il sistema economico colonizzatore. Vi è certo una migrazione di mano d’opera dal paese dominato a quello dominante, ma quale fenomeno accessorio. Tutto il contrario nei rapporti tra sud e nord italiani».
Purtroppo, il ritornello del mezzogiorno impedito nel suo regolare sviluppo dalle razzie del nord, arricchisce, anche attualmente, gli scrittori che speculano su questo giudizio superficiale. L’esodo della manodopera da sud a nord fu temporaneamente sfruttato dal Pci per dimostrare la fondatezza dell’irrimediabile scontro Capitale/Lavoro nelle regioni industrializzate ma, più verosimilmente, gli attriti nelle fabbriche erano conseguenza di un disagio psicologico degli sradicati meridionali che si ritrovavano in un contesto diverso da quello di appartenenza, a svolgere lavori snervanti tra quattro mura.
Effettivamente, la spinta politicizzazione di questi operai neofiti illuse circa la loro irriducibilità al sistema ma furono sufficienti alcune generazioni per riconfermare la loro organicità al capitalismo e il loro spirito tradunionistico, man mano che s’integravano nel nuovo background.
Il secondo fenomeno, quello della formazione dei ceti medi produttivi, è stato territoriale ed ha interessato alcune regioni in particolare, con formazione di una struttura sociale proteiforme che in nessun altro paese capitalistico è risultata così estesa. Le PMI hanno sopperito alla carenza di grandi gruppi industriali, mettendo però in evidenza i limiti del modello di sviluppo italiano, affetto da “piccolismo” che non è affatto “bello” quando sui mercati internazionali si ha a che fare con giganti meglio equipaggiati, pronti a sbaragliare la concorrenza o a dettare le proprie condizioni a chi sconta dimensioni ridotte.
Il Pci cercò di egemonizzare, con alcune correnti (i miglioristi, per esempio) i settori del lavoro autonomo e della piccola imprenditoria per creare un blocco sociale (con gli operai), al fine di allargare la propria base elettorale e rafforzarsi nelle istituzioni statali. Infine, con l’influenza sull’industria di Stato, concepita come una specie di ente assistenziale per le masse picciizzate, avrebbe ottenuto la chance di competere con i partiti di sistema, opponendo il proprio blocco sociale a quello avversario, divenendo ago della bilancia se non, ipotesi ben più remota vista la pregiudiziale posta dagli americani, financo compagine di governo. Tale disegno ambizioso non si realizzò perché la Dc, considerato il clima internazionale ad essa favorevole, ma anche il maggiore realismo politico, unito a condotte clientelari piuttosto spregiudicate, mantenne facilmente il controllo sulle aree delle PMI (ad esclusione della “rossa” Emilia) e sull’industria di Stato, pur concedendo qualcosa ai comunisti in entrambi gli ambiti, ma non abbastanza per mettersi a rischio di scalata.
Negli anni ’70 qualsiasi velleità di gestione più o meno diretta del potere viene accantonata dal Pci mentre è accettata la “clausola” atlantica, senza tuttavia tranciare di netto i legami con l’est che assumono però connotati di massima doppiezza. A parere di La Grassa, in queste circostanze equivoche nascerà la risposta “antirevisionista” ad un Pci «non più diretto, come invece si continuava a credere, verso sbocchi limpidamente socialdemocratici e di rappresentanza diretta e semplice della “grande borghesia monopolistica” … E fu con ogni probabilità questa risposta contorta ad un revisionismo mal interpretato, non kautskiano, a rappresentare una concausa (non la causa) del fenomeno “terrorista”».
Il passaggio è estremamente importante perché affiora, in questa fase, quando il vecchio revisionismo “gradualistico” viene sostituito dal “revisionismo etico”, la presunzione di “quelli di sinistra” di essere moralmente superiori al resto del mondo. In realtà, già al tempo si erano dimostrati degli ipocriti abilissimi a puntare il dito per confondere le acque e coprire i propri misfatti.
Storicamente, è il golpe cileno del ‘73 l’evento rivelatore, quello che fa trasparire quanto si andava elaborando nella segreteria piccìista. In quell’anno Berlinguer, approfittando di un’interpretazione errata dei fatti della Moneda (e di quanto sarebbe potuto avvenire anche in Italia), s’inventò la necessità di un compromesso storico tra le forze responsabili del Paese. Si voleva evitare una possibile svolta autoritaria ma l’occasione fu più che altro propizia per un salto di campo dei comunisti, i cui vertici avevano ormai deciso di entrare a far pienamente parte del cosiddetto “occidente” a guida statunitense.
Nell’ottobre dello stesso anno il segretario comunista esce malconcio da un “incidente” in Bulgaria. I servizi segreti dell’est, non necessariamente il Kgb, vollero dare un preavviso al politico che si stava spingendo troppo oltre le sue possibilità, dettate dal contesto geopolitico. In ogni caso, la strada del dialogo tra Dci e Pci, approntata in quei termini da Berlinguer, non piaceva affatto a Moro, il quale non è mai stato vero interlocutore di quella svolta che si concretizzerà, sebbene in forma ancor più ambigua, solo nel ’76, con il governo della “non sfiducia” di Andreotti.
Piuttosto, all’interno della Dc furono gli elementi della sinistra ad intavolare le vere trattative. Sono gli stessi protagonisti che condivideranno, sempre con il comunista sardo, la linea della fermezza allorché le Br rapiranno Moro.
Su questa triste vicenda risultano interessanti le dichiarazioni rilasciate, qualche anno prima di morire, dal regista Pasquale Squitieri. Secondo quanto afferma il cineasta, il Presidente Leone aveva già firmato la grazia per alcuni brigatisti che non si erano macchiati di reati di sangue. Si sarebbe dovuto effettuare uno scambio con i terroristi per liberare il politico di Maglie ma Benigno Zaccagnini ed Enrico Berlinguer fecero saltare i negoziati. Era stato proprio Leone a rivelarlo, aggiungendo che quest’ultimi erano davvero pericolosi. E’ ovvio, tuttavia, che questi “pericoli pubblici” avevano le spalle molto coperte, essendo a contatto con ambienti Usa che stavano approntando una strategia di distacco del Pci dai sovietici.
L’eurocomunismo era il volto presentabile di questo piano internazionale che destrutturava i partiti comunisti europei per il medesimo obiettivo di allontanamento dalla “casa madre”. Non dimentichiamo che nell’aprile ’78, un mese prima dell’omicidio di Moro, c’era stata pure la gita culturale di Napolitano in America. Una insolita condensazione di eventi che produce significative alterazioni sulla vita politica italiana. Alterazioni che solo un quindicennio dopo, con il collassamento del campo socialista, si mostreranno in tutti i loro decisivi effetti. Basta mettere insieme i pezzi del puzzle per giungere a delle conclusioni: 1) delitto Moro, 2) implosione dell’URSS, 3) cambio di nome del PCI, 4) liquidazione giudiziaria della prima Repubblica. Chi si salva da questa immane tempesta storica che tutto cambia eccetto, appunto, qualcosa? Gli ex comunisti e la sinistra DC. Sono loro l’eccezione, i prescelti per gestire la transizione da un’America (quella del bipolarismo) all’altra (quella del monopolarismo), in tempi non sospetti, quando i sintomi del mutamento mondiale erano ancora emergenti.
Gli anni ’80 ultimano, per così dire, le azioni del decennio precedente. La sconfitta delle maestranze della Fiat e la marcia dei 40.000 quadri chiudono definitivamente un ciclo lunghissimo di contrapposizioni parossistiche ma sterili fondate su paradigmi ideologici del tutto ossificati. Berlinguer, pur recandosi ai cancelli di Mirafiori per solidarizzare con gli operai, rimase in fondo soddisfatto «dell’insuccesso dello sciopero…In fondo venivano presi due piccioni…ecc. Si stabilì l’alleanza con la “sinistra” del partito (di cui la Fiom era la punta di diamante) e, nello stesso tempo, si dimostrò l’inanità di certa agitazione operaia radicale alla gran parte della base elettorale. Ne venne rafforzata la via del “moralismo”, dell’alleanza con i “cattolici” (in realtà con la Dc, soprattutto “di sinistra”) e dell’uso spregiudicato dei punti di forza conquistati nel campo culturale e nella magistratura».
Sono questi i fattori che vengono in evidenza con il terremoto di Mani Pulite, allorché i progressisti, rinnegato il comunismo, si faranno avanti, come una “gioiosa macchina da guerra”, senza più remore idealistiche di sorta, per sostituire Dc e Psi, diventati d’impaccio ai disegni americani in Europa, nel nuovo corso monopolare, in assenza di avversari geopolitici di rilievo. Il progetto dei post-piccìisti di “mangiarsi” l’Italia non si concretizzò fino in fondo per un’astuzia della Storia: la discesa in campo di Berlusconi. Quest’ultimo, essendo stato craxiano, temeva la vendetta contro le sue aziende, a favore di competitors in odor di progressismo (leggi De Benedetti). Lo spaesato elettorato della Dc e del Psi, orfano di riferimenti consolidati, non volle consegnarsi agli ex comunisti, scampati alla mannaia dei giudici, e riversò i propri consensi sul parvenu di Arcore.
I sinistri riusciranno, malgrado ciò, ad entrare, anche se con qualche anno di ritardo, nelle stanze governative a lungo “proibite” e negli altri gangli statali mettendo in pratica tutte quelle cattive intenzioni di svendita del Paese coltivate da lustri (e pretese dai poteri interni ed esterni che li avevano risparmiati dalle manette dei giustizieri del pool di Milano), trovando pure il tempo di bombardare i vicini (Belgrado 1999) su ordine di Washington.
13. Dunque, chiosa La Grassa, «Gli anni ’70 e ’80 sono i veri anni della gestazione dei fenomeni di degenerazione venuti a galla, poi, dagli anni ’90 ad oggi. Nei primi vent’anni di questo quarantennio c’è stata la preparazione, che all’inizio, come sempre accade, è lenta. Soprattutto, però, i fenomeni degenerativi non potevano venire troppo allo scoperto per l’esistenza del mondo bipolare. L’evento, che ha fatto infine saltare il tappo ai fenomeni ormai in fase di avanzata decomposizione, è stato il “crollo del muro”, ma assai più significativamente la dissoluzione dell’Urss. Da allora tutto è venuto a galla, ma pur sempre in forme deviate, distorte, quelle di cui siamo ancor oggi schiavi e che si traducono, nel nostro paese, in questa apparente follia, in questa autentica liquefazione del cervello e fine di ogni autentica politica… »
Senza un’opera di comprensione di quanto accaduto in quegli anni cruciali, in un diverso quadro mondiale, è difficile rendere accessibile l’involuzione della politica attuale, soprattutto in quel laboratorio di situazioni esasperate che continua ad essere il nostro Paese. E l’Italia è paradigmatica nel suo patire le contraddizioni della fase, in quanto ventre molle di questa Europa mero protettorato americano, come recentemente circostanziato da Steve Bannon, capo della campagna elettorale di Trump. Essere così deboli e sottomessi ci espone alle razzie di tutti, sia degli americani che degli altri membri europei. Ma a questo triste punto si è giunti a causa di cessioni di sovranità ininterrotte e svendita dell’autorità nazionale, particolarmente dopo “il golpe” di Mani Pulite.
La Grassa non ha dubbi in merito, le responsabilità maggiori della deriva nazionale ricadono su «quella che impropriamente continua ad essere chiamata “sinistra” alla quale sarebbe stato necessario opporre, a tempo debito, un’autentica forza di autonomia nazionale “che attuasse una feroce repressione dei rinnegati del piciismo, una loro definitiva eliminazione in quanto cellule cancerogene prodotte da un processo nato con la segreteria Berlinguer. Quella risposta non era possibile giacché restavamo all’interno di una sostanziale subordinazione alla Nato e agli Usa (la UE è nata con queste stimmate); cosicché ci troviamo oggi nel pieno della putrefazione, meglio ancora della metastasi».
Ora che siamo di nuovo all’inizio di un’epoca multipolare, dopo un breve intermezzo di unipolarismo incondizionato degli Usa, la mancanza di indipendenza nazionale si fa sentire. Ciò impedisce all’Italia di ricollocarsi, in base ai suoi interessi, sullo scacchiere regionale per affrontare i prossimi conflitti per la preminenza, tra potenze concorrenti, che si annunciano durissimi, anche se non è detto trovino ancora sbocchi catastrofici, tipo guerra mondiale.
Il policentrismo che ne deriverà nel medio-lungo periodo, riproducendo uno scenario simile a quello della prima metà del ‘900, graverà pesantemente sulla nostra condizione dettata da incapacità di agire autonomamente, in un contesto di fortissima ridefinizione dei rapporti di forza globali. Come Paese stiamo subendo passivamente questi processi che ci travolgeranno anche se le nostre classi dirigenti coltivano l’illusione di potersi ancora riparare sotto lo scudo della Nato. Ma proprio l’alleanza in questione è divenuta piuttosto una prigione nella quale siamo controllati a vista dagli statunitensi, i quali temono cedimenti verso le potenze revisionistiche che stanno rimettendo in discussione il loro primato. Se la Penisola, nel precedente periodo storico, era bastione avanzato del campo occidentale, che occorreva fortificare contro l’espansione sovietica (più potenziale che reale) adesso è zona di intrighi politici e di esperimenti economici al ribasso, per tenere sotto scacco la “colonia” europea, con la sua appendice italiana.
Anche la crisi economica, partita più o meno dal 2008, che vede l’alternarsi di piccole riprese e più estese recessioni, è conseguenza di tale scollamento geopolitico. Tentare di risolverla senza intervenire nella rivisitazione delle relazioni internazionali è opera vana.
L’assenza di un unico centro regolatore nel mondo accentua lo squilibrio economico, tuttavia, non bisogna confondere l’effetto con la causa. E’ il primo dato che determina il secondo. Volendo fare dei paragoni ritroviamo una simile sequenza di eventi a partire dalla seconda metà del secolo XIX. Il libero commercio internazionale, a trazione inglese, viene messo in difficoltà dalle politiche protezionistiche degli Usa. Contestualmente, Germania e Giappone imboccano la strada dell’industrializzazione, con i relativi Stati che sostengono le loro imprese di punta, respingendo le fantomatiche regole automatiche del mercato, dietro le quali si stagliava la supremazia di Londra. Queste potenze, che fanno concorrenza all’Inghilterra, accelerano lo scoordinamento sistemico generale. La grande stagnazione di fine ottocento è il risultato di tali mutamenti nei differenziali di potenza tra aree geografiche.
Nel 1907 c’è un primo crollo chiamato “panico dei banchieri”, allorché la borsa valori di New York perde il 50% del suo valore. Si proseguirà nell’instabilità e nell’incertezza complessive fino alla I guerra mondiale. Al termine della stessa, gli Usa riscontreranno un’ulteriore espansione economica ed industriale. Nel 1929 c’è il crac finanziario che si estende all’economia reale e dura almeno fino al 1933. Roosevelt lancia il New Deal, un piano di riforme sociali per alleviare le immani sofferenze del crollo. Nulla di veramente risolutivo perché è solo con lo scoppio della seconda guerra mondiale che i nodi vengono al pettine. Dal conflitto bellico emerge la superpotenza americana, quale unico Stato in grado di imporre la sua volontà a tutti, andando a sostituire l’Inghilterra nel dominio del campo occidentale. La stabilizzazione dei rapporti di forza mondiali, con la vittoria schiacciante di Washington sui contendenti, anche se in coabitazione con Mosca, risolve la crisi.
Presentemente, come detto, ci ritroviamo dentro una recessione altalenante, che, mutatis mutandis, sembra ricalcare la grande stagnazione ottocentesca. Gli Usa, come l’Inghilterra di allora, sono in relativo arretramento geopolitico. La situazione d’instabilità durerà finché il contrasto multipolare, già in corso, non sfocerà nel policentrismo apertamente conflittuale tra competitori convinti di poter avere la meglio sull’antagonista.
C’è da pensare che anche in questo caso, con tempi e con modalità non preventivabili, si giungerà ad uno scontro diretto che produrrà dinamiche ben più traumatiche di quelle rivenienti dalla crisi economica. Gli eventi saranno sicuramente più tragici per quei Paesi, come l’Italia, che hanno scelto di non ripensare i propri destini dimostrandosi eccessivamente conservativi e succubi delle logiche di un ordine mondiale in lenta ma inesorabile dissoluzione.