INDIETRO NON SI TORNA! A cura di G.P.

 

Noto, con favore, che su Il Giornale si siano nuovamente “eclissati” gli editoriali umanistici di De Benoist e che si sia tornati a riproporre articoli più sensati, comunque meno avvezzi a dare credito a certe idee balzane sulla responsabilità del genere umano per qualsiasi “deviazione” compiuta dalla Natura[1].

L’uomo ha certo le sue responsabilità (nessuno vuole negare che la campagna, rispetto alla città, possa offrire aria più salubre e maggiore distensività) ma questo è il prezzo da pagare per lo sviluppo, per tutto ciò che ci ha consentito di trasformare il nostro ambiente naturale e di adattarlo ad una vita più sicura e meno dipendente dai capricci della natura.

Non è un caso che, oggi, sia quasi un lusso vivere a stretto contatto con la natura, dove però ci si porta dietro tutti i comfort della modernità, al fine di rendere agevole quella che sarebbe meglio definire come una “villeggiatura” a caro prezzo.

Marx diceva che i rapporti sociali sono intimamente connessi alle forze produttive nel senso che: “Impadronendosi di nuove forze produttive, gli uomini cambiano il loro modo di produzione e, cambiando il modo di produzione, la maniera di guadagnarsi la vita, cambiano tutti i loro rapporti sociali. Il mulino a braccia vi darà la società col signore feudale, e il mulino a vapore la società col capitalista industriale”. Questo dovrebbe bastare a tacitare quegli stolti che propongono la decrescita quale soluzione ai problemi del mondo, senza prendere in considerazione una regressione generalizzata a rapporti sociali e produttivi che l’uomo ha faticosamente superato e che, semmai, dovranno essere ancora oltrepassati per dare vita ad un sistema sociale non più fondato sullo sfruttamento nella sfera produttiva. Ma ciò non implica un ritorno indietro quanto un ulteriore avanzamento, checché ne pensino i nostri campioni dell’opzione decrescista.

Probabilmente, il destino inevitabile dell’uomo è quello di piegare (almeno finché può e vi riesce) l’ambiente naturale a quello sociale, tanto che possiamo dire che la sua stessa “naturalità” sia andata irrimediabilmente perduta con il passaggio dallo stato di natura a quello societario (che, a sua volta, è in continua evoluzione), per lui molto meno imprevedibile e pericoloso.

So che a molti dei nostri lettori non piace quando avanziamo dubbi sullo stato climatico del pianeta e sull’origine non-antropica di tali fenomeni. Tuttavia, è indubitabile che dette questioni siano state ampiamente strumentalizzate dal potere dominante, per ragioni nient’affatto nobili, e che, pertanto, dobbiamo ormai valutare con molta più circospezione (e sospetto) il cosiddetto Global Warming, comunemente accettato dai media ma basato su dimostrazioni e calcoli scientifici che lasciano molto a desiderare.

 

 

LA BALLA SPAZIALE


di Paolo Granzotto (fonte: Il Giornale)

Adesso, se i membri dell’Accademia Reale delle Scienze disponessero di una seppur modica quantità d’amor proprio e volessero restituire al Premio Nobel quel poco di rispetto che tutto sommato si merita, dovrebbero convocare a Stoccolma Al Gore e Rajendra K. Pachauri, il presidente dell’Ipcc, Intergovernmental Panel on Climate Change. E lì, nella sala del concerto dell’Accademia Reale di Musica dove nell’ottobre del 2007 il Bibì e il Bibò del «global warming» ricevettero dalle mani di Re Gustavo il Nobel per la Pace – per la Pace! -, degradarli come si fa con gli ufficiali felloni o traditori. Con obbligo di restituire medaglia d’oro, diploma e, soldi sull’unghia, quel milione e centomila euri che ricevettero di prebenda.


L’abbiamo scampata bella. Se non interveniva la Natura con le sue gelate, le sue piogge e le sue nevicate, se non ci si fosse messa di buzzo buono per riempire fino all’orlo fiumi, laghi e bacini, per rimpinzare – in un fiat, fra l’altro – con trilioni e trilioni di tonnellate di ghiaccio le calotte polari di sopra e di sotto oltre che ghiacciai di tutto il mondo, ivi compreso il dato per morto e sepolto Perito Moreno, se non avesse, insomma, voluto dimostrare che lei fa quel che più le pare e piace strabuggerandosene delle proiezioni matematiche dell’Ipcc e delle quattro puzzette emesse da noi umani, Al Gore e Rajendra K. Pachauri sarebbero ancor qui a dettar legge. Lasciamo stare noi, che da anni battiamo e ribattiamo per denunciare la grande bufala del riscaldamento globale di origine antropica. Contiamo niente, noi. Ma i 650 scienziati – non cialtroneschi dilettanti, non improvvisati cultori della materia: scienziati, fisici, geologi, meteorologi – ai quali, grazie al provvido intervento della Natura del quale abbiamo parlato si presta finalmente orecchio, non è che abbiano smantellato il dogma del «global warming» solo ieri. È da sempre che lo picconano, è da sempre che lo smascherano rivelandolo per quello che è: una balla planetaria. Ma la stampa internazionale (con rare eccezioni), le tivvù, i blogger, i Michel Moore, le stitiche star di Hollywood, i rincoglioniti da Facebook o altri «social network» per finire ai pecorariscanio, alla minutaglia ambientalista nostrana, tutti a irriderla, la scienza. Tutti a crogiolarsi nel catastrofismo.
Mi ripeto, lo so e so anche che infierire sul vinto non è bello, ma tant’è: qualche tempo fa L’espresso sparò una mezza dozzina di pagine – con le solite fotografie delle zolle seccate dal sole, dello stento ciuffetto d’erba ingiallita – per annunciare al suo popolo di beoni che a far data 2022 la Puglia si sarebbe ritrovata totalmente desertificata. Niente più olivi e vigne. Solo sabbia e pietraie, pietraie e sabbia. E Repubblica? Avrà sfornato mille, duemila paginoni sul tema «Il pianeta ha un piede nella fossa». Attaccandosi a tutto, prendendo a pretesto i fatti più insignificanti o stravaganti. Come quella volta che lanciò l’allarme – e gli ci volle ovviamente un’intera paginata – per la diminuzione del numero delle farfalle in non ricordo più quale plaga del Sudamerica. Non si sa bene chi mai le avesse contate – prima e dopo – le farfalle, comunque sia, con matematica certezza i repubblicones attribuirono il calo della presenza dei lepidotteri all’effetto serra originato dalla dissennata attività umana. E gli orsi annegati per via dello scioglimento dei ghiacci polari? E il pesce flauto – uno, uno di numero – pescato nel Mediterraneo lui, lui il pesce, che bazzica abitualmente acque subtropicali? Ecco! Strillarono i repubblicones, il riscaldamento globale costringe i poveri pesciolini a risalire il canale di Suez e ciò dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio che tra due o tre anni il Mar Rosso entrerà in ebollizione.
E cosa dire della mattana che colpì la società che si dice civile? Cosa dire di Fulco Pratesi che andava predicando di tirare lo sciacquone solo una volta ogni due giorni, di farsi il bagno solo una volta al mese e di cambiarsi la biancheria solo al mutare delle stagioni? Il tutto per risparmiare anche solo dieci litri di quell’acqua che il riscaldamento globale stava velocissimamente evaporando? Cosa dire dell’ossessione per la «carbon print», per l’«impronta ecologica» che falangi di bischeri tenevano aggiornata, attenti a non sforare i parametri? Tram in luogo di taxi uguale tre punti guadagnati, quattro se al posto del tram s’è inforcata la bicicletta. Dieci piani a piedi in luogo dell’ascensore punti due, virgola uno. Panino con la Bologna in luogo di spaghetti pomodoro e basilico uguale (per via del risparmio d’acqua e di gas) cinque punti tondi tondi. Punti preziosi, estremo omaggio al pianeta in agonia, già alla canna del gas.


Che poi, se le conseguenze del canone catastrofista si fossero limitate al folklore del radicalume chic ambientalista o alle menate di Repubblica, amen. Potevamo anche farcene una ragione. Il guaio è che aveva finito per indurre eminenti statisti, tirati per i capelli dagli Al Gore, a sottoscrivere e giurare di rispettare i precetti di quell’incommensurabile bidone chiamato Protocollo di Kyoto. Bidone che all’Italia, cioè a noi contribuenti, sarebbe costato la bellezza di 180 miliardi (e qui è doveroso dirlo: puntando i piedi, mettendosi «fuori dall’Europa», rifiutandosi di sottostare ai diktat degli ayatollah ambientalisti, Silvio Berlusconi vide più lontano di tutti i Sarkozy e le Merkel e gli Zapatero messi insieme. Chapeau).


Ma sì, ci è andata bene. Seppure in zona Cesarini, l’abbiamo scampata. Vecchia cara Natura, sempre pronta a metterci una buona parola e a sputtanare, scusate il termine, i cialtroni. Non ci resta, ora, che rimboccarci le maniche e con tanta pazienza chiarire alle nuove generazioni, cresciute ahiloro a forza di balle sul clima condizionato dalle lacche per i capelli o dal forno a legna d’una pizzeria, che la neve, la pioggia, il sole, il caldo o il freddo sono fenomeni naturali. Anche i capricci del tempo – e il tempo può essere molto capriccioso – sono fenomeni naturali. E non invece, come hanno fatto loro credere bombardandoli di fregnacce ecologiste, reazioni più o meno inconsulte di una sussiegosa Terra Madre indispettita per scarsa sensibilità ambientalista dell’uomo cattivo. Ci vorrà tempo, ma si convinceranno. Anche perché fra una dozzina d’anni potranno sempre andare a dare un’occhiata alla Puglia e ivi controllare se quelle che gli avevano raccontato erano verità scientifiche o panzane di ciarlatano.

 

[1]

Certo, in queste settimane di guerra in Palestina, il quotidiano della famiglia Berlusconi ha dato ampia diffusione ai fondi menzogneri delle virago pro-israeliane che, senza pudore, hanno continuato a sostenere la legittimità dell’intervento di Israele nella striscia di Gaza con le motivazioni più insopportabili, forti del clima anti-islamico che l’ideologia dominante ha saputo alimentare negli ultimi anni per rendere tollerabile, all’opinione pubblica, la strategia aggressiva statunitense, volta a rafforzare il predominio degli USA nelle aree più “critiche” del pianeta.

Sono persino sobbalzato sulla sedia allorché ho letto, in uno di questi fondi a firma di Fiamma Nirenstein, la più invasata fra le sostenitrici dello Stato d’Israele, che quest’ultimo stava conducendo un conflitto tutto sommato onesto in quanto aveva preso la gravosa decisione di attaccare via terra, affrontando un corpo a corpo con l’esercito di Hamas, rischiando la vita dei propri soldati.

Tutto ciò però dopo 10 giorni di bombardamenti a tappeto, con armi non convenzionali (Fosforo Bianco e Dense inerte metal explosive), che, peraltro, non sono mai terminati nonostante sia appunto partita l’operazione di terra.