INGENUO SOSTENERE CHE I POPOLI DECIDONO IL LORO FUTURO (di Giellegi, 7 febbraio ’11)
Nel 1989 crollò il socialismo (ormai smascherato in quanto tale) e si trattò di un processo a macchia d’olio come quello che si dice potrebbe verificarsi dal nord Africa al Medio Oriente. I liberali, i filo-occidentali (cioè succubi degli Usa), inneggiarono ai popoli dell’Europa orientale che si rivoltavano mostrando il loro “meraviglioso attaccamento” alla libertà e democrazia, oltre a esigere migliori condizioni di vita. Poi si scoprì chi fosse il principale artefice di quella “liberazione”(lo scoprirono altri, perché io l’avevo già capito, anzi in parte preannunciato fin dal 1986, anche contro le idee del mio Maestro Bettelheim, che pure era stato lui ad insegnarmi come analizzare il “socialismo” senza gli orpelli ideologici di certo comunismo). Si tentò di espandere il movimento anche in Cina (fu Gorbaciov assieme al segretario del PCC, subito destituito, a tentarlo), ma Deng, senza tanti appelli al “meraviglioso popolo”, schiacciò il tentativo con i metodi che si devono usare in tal caso quando si ha il controllo della situazione. Ricordo ancora la balla del popolo che si ribellava a Ceausescu. Un cretino del TG3 (la ricordo come scena comica) fece la telecronaca del suo ultimo discorso e, quando la folla (questa volta veramente costituita da “ammaestrati”) lo interruppe, sostenne di averlo visto impallidire. Dopo si scoprì come tutto fosse stato preordinato tra Iliescu e i Servizi ancora sovietici. E si fucilò in velocità il “dittatore” (con moglie) per evitare spiacevoli verità.
Due anni dopo fu il laido e mediocre Gorbaciov a pagare il suo “oggettivo” tradimento, preso a calci nel sedere da uno ancora più marcio di lui (e traditore non più solo “oggettivo”). In tutta questa pantomima, i popoli festeggiarono certamente; più o meno come festeggiò il popolo italiano alla caduta del fascismo dopo essere stato in netta maggioranza sostanzialmente fascista o comunque “non scontento” del fascismo. E’ del tutto notorio come, quando il Pci o altri movimenti antifascisti inviavano qualcuno in Italia, fosse scontato che in poche settimane, a dir tanto, erano già scoperti e messi in galera o al confino; per il semplice motivo che non erano “pesci nell’acqua” (bensì fuor d’acqua) per riprendere la metafora di Mao. Però, alla fine, fu il popolo – nella testa di intellettuali e retori – a liberarsi del fascismo, così come del sedicente socialismo.
In ogni caso, chi oggi finge di non vedere dove sono finiti i paesi ex “socialisti” è un mentitore di professione, di quelli che ci hanno raccontato anche la storiella del genocidio in Kosovo per aggredire la Jugoslavia, quella delle armi di distruzione di massa per aggredire l’Irak, ecc. I popoli del “socialismo reale” hanno manifestato un disagio reale; sarebbe certo errato pensare che avessero in testa disegni reazionari, la loro protesta – non sempre, non in ogni caso, ma spesso – aveva ragion d’essere. Tuttavia, quelli che hanno manovrato e condotto ad un certo risultato, sostanzialmente favorevole al predominio statunitense (accentuandolo pure nei confronti della già succube Europa occidentale), non sono stati tali popoli, ma ben precisi centri strategici, agenti della superpotenza, che riuscirono a disfarsi dell’antagonista sovietico. Ingannandoci anche sul significato di tale antagonismo, fatto passare – con l’aiuto e connivenza di comunisti, a volte in buona fede altre volte no – per contrapposizione tra capitalismo e socialismo o tra “mondo libero” e popoli schiavizzati dall’Urss o tra “democrazia” e “totalitarismo”, e altre scemenze simili. Era semplicemente la netta contrapposizione tra i due grandi paesi vincitori del confronto mondiale che, con i patti di Yalta, misero in luce come tutte le altre potenze (non solo Germania e Giappone, bensì pure Inghilterra e Francia) fossero ormai sconfitte e ridotte alla subordinazione (o subdominanza).
Quando cadde il socialismo reale fui anch’io sostanzialmente soddisfatto; da tempo, seguendo la lezione dell’althusserismo e di Bettelheim, non mi lasciavo turlupinare dalla presunta esistenza di una qualsiasi forma socialistica. Non mi sentii quindi orfano come i residui comunisti pieni di nostalgia. Nemmeno però mi feci ingannare dalla presunta rivolta dei popoli, soprattutto dalla grande menzogna che si battessero per la “libertà e la democrazia” (che abbiamo visto in piena opera quando Eltsin fece cannoneggiare il Parlamento). Semplicemente, finiva la cristallizzazione del mondo bipolare, con i conflitti complessivamente “confinati” nel Terzo Mondo. Si rimetteva in moto la Storia anche in questo (primo) mondo piatto e torpido; si è ancora ai passi iniziali dopo vent’anni ma l’avvio, per quanto lento e con una serie di frenate, è ormai sicuro ed evidente. Per questo, e non per altro, vidi con favore il processo di dissoluzione del falso socialismo, che aveva nascosto per decenni la sostanziale sconfitta del movimento comunista e preparato la sua trasformazione in corrente reazionaria, fra le più pericolose ai fini della completa vittoria dei progetti “imperiali” statunitensi (paradigmatico al riguardo il Pci, la peggiore congrega di rinnegati e malfattori mascheratasi da “sinistra” per produrre quei terribili guasti sociali che stiamo vivendo).
Questa commedia dei popoli in rivolta per la propria “liberazione” è semplicemente irritante. Sono totalmente d’accordo con Shakespeare per come considera le masse nel suo “Giulio Cesare”. Sono così, i popoli, e non diversamente. Gli Usa si servirono di Saddam contro l’Iran. Poi nel ’91 costui, ingannato da una dichiarazione dell’ambasciatrice americana in Kuwait, pensò di ripagarsi dei suoi servigi; e fu bastonato da allora per circa un quindicennio fino a che lo portarono sulla forca. E i popoli, al momento, non lo ricordano gran che. Lo ricorderanno soltanto se, per gli strani giri e rigiri della storia, dovesse esserci la ripresa di movimenti di un certo tipo con formazione di uno Stato ben diverso da quello odierno, uno Stato che in qualche modo si rifaccia ai concetti di indipendenza di altri tempi. Così come oggi, pian piano, muta in Russia la considerazione di Stalin; si lascia perdere il suo credersi comunista e si comincia a capire che ha dato un notevole contributo alla formazione del paese odierno, una nuova potenza in gestazione.
Mubarak invece, ne sono convinto, non verrà più ricordato (salvo che nei libri di storia, per ovvii motivi, ma lo si tratterà in senso negativo); resta il fatto che ha servito gli Usa per trent’anni e oggi questi ultimi
hanno fretta, dopo qualche tentativo di compromesso, di mandarlo via perché altrimenti vi è il rischio che la situazione sfugga di mano. L’ultima resistenza di alcune forze del vecchio presidente – che probabilmente agiscono in proprio ormai, essendo troppo implicate nel vecchio potere al servizio degli Usa per potersi ritirare in buon ordine – è in fondo utile per disturbare il “manovratore”, che crede sempre di dare ordini e di essere docilmente obbedito. Sarebbe bene che si verificasse un tumultuoso scoordinamento nel “passaggio di consegne” (ma ne dubito). Se ciò fosse possibile, sarebbero favoriti processi diversi da quelli su cui si attestano, in mancanza di meglio, gli Stati Uniti. Senza dubbio, il processo in corso avviene sulla base della rabbia e del disagio di “masse popolari”; ma vi sono anche “masse” che vorrebbero mantenere il vecchio assetto sociale (perché ogni assetto di potere, dopo trent’anni, è sempre anche un assetto sociale); e la loro sconfitta è possibile solo con l’impegno degli Usa.
Come andrà a finire non sarà deciso del tutto univocamente dagli Stati Uniti; si tratterà del solito vettore di composizione delle forze di un certo numero di protagonisti in conflitto, che senz’altro approfitteranno del malcontento popolare, lo solleticheranno per volgerlo ai loro fini. Pensare che questi ultimi siano quelli desiderati dalle “masse” (le cui aspirazioni sono d’altronde le minime possibili, senza alcuna visione d’ampia portata, com’è nella loro natura di “popoli”) è ingenuo se non addirittura un consapevole inganno che sconfina talvolta nel disegno criminale di mestatori “sociali”, opportunisti e venduti. Che cosa vogliono le masse oltre il pane e un livello di vita non di pura fame? Vogliamo dire, come i liberali, che agognano la democrazia, o come dicono altri, ancora più fessi, che sono affamati di giustizia e moralità? O quali altre oscenità si diranno e faranno in nome del popolo?
E’ indispensabile sforzarsi di conoscere le determinanti, interne ma ancor più internazionali, dei processi in corso in quell’area, capirne il collegamento con quanto avviene nelle aree vicine, ma soprattutto seguire la maturazione dei rapporti di forza nello sviluppo ineguale che caratterizza l’attuale processo in via di divenire multipolare. Non si dia però per scontato che gli Usa sono già in irreversibile declino; si tenga invece conto della loro ancora maggiore forza in termini non esclusivamente militari (ma pure questi vanno valutati in tutta la loro rilevanza, senza ingenua sopravvalutazione del fattore culturale).
Piuttosto importante, nella congiuntura presente (da ormai alcuni decenni), è il tema della “democrazia”; è attraverso questo inganno, continuamente rinnovato e con ripetuti successi d’immagine, che i nuovi imperialisti riescono, malgrado le crescenti difficoltà del conflitto multilaterale, a reggere il confronto e a tenere spesso in scacco le forze contrapposte. La democrazia è al momento lo strumento principe della lotta degli Usa contro ogni forma di opposizione e sgretolamento delle loro aspirazioni alla supremazia monocentrica. In anni passati – ma erano gli anni del mondo bipolare – ci fu l’uso americano dei sistemi dittatoriali, in genere imposti con colpi di Stato militari. Oggi, tenuto conto della fine di quel mondo e della progressiva entrata in quello multipolare, le tattiche e strategie statunitensi si adeguano. Le nuove potenze in crescita devono superare uno scarto di forza per cominciare a contrastare con successo gli Usa. Si verifica quella situazione che, nell’800, si manifestò soprattutto in campo economico con la lotta tra il ricardiano “libero commercio internazionale” e il listiano protezionismo dell’“industria nascente”.
Si era ancora fondamentalmente nel capitalismo della sedicente libera concorrenza tra molte imprese di dimensioni relativamente modeste. L’economia poteva sembrare al posto di comando nel determinare la supremazia di un paese o dell’altro. Il problema centrale per tale supremazia (mantenimento della stessa da parte dell’Inghilterra) si supponeva essere quello di imporre (anche con la forza militare) la “libera concorrenza” sul piano mercantile. Per combattere il predominio inglese prevalsero le tesi listiane. E a tal fine fu pienamente impiegata la forza di Stati come gli Usa (attraverso una sanguinosa guerra civile, guerra tra Stati della federazione, non certo “di classe”!), come la Germania (che inflisse un colpo decisivo alla concorrente Francia), come il Giappone (in cui lo Stato diede un forte contributo alla formazione delle grandi concentrazioni industrial-finanziarie, gli zaibatsu); tuttavia sotto l’apparenza (reale) della protezione della propria industria in fase di forte sviluppo con coordinate in celere mutamento rispetto a quella inglese (non più il tessile ma la chimica, l’elettricità e, più tardi, il motore a scoppio).
Ovviamente, non si poteva realizzare il protezionismo se non a due condizioni: a) sconfitta verticale dei gruppi dominanti interni, legati agli interessi del paese preminente (Inghilterra) in quanto ad essa fornivano materie complementari al suo sviluppo industriale, e che quindi del protezionismo erano nemici; b) sconfitta di altre potenze concorrenti in crescita (tipo Francia fatta fuori dalla Prussia, subito allargatasi a Germania nello stesso 1871, anno della vittoria in guerra; o tipo la Russia, sconfitta dal Giappone all’inizio del secolo successivo, causa della prima rivoluzione russa del 1905) per allargare le aree di influenza entro le quali poter vendere in modo privilegiato i propri prodotti industriali. Con la conseguenza politica primaria dell’imperialismo (fase storica policentrica, non “ultimo stadio” del capitalismo) e la rottura dell’equilibrio garantito dall’esistenza di un centro predominante in qualche modo coordinatore. Nello squilibrio, si affermò quale carattere prevalente dell’epoca, lo sviluppo ineguale che comportò, dato che alcuni paesi restarono indietro nell’ambito di un aspro conflitto, l’addensarsi di crisi di destrutturazione sociale negli anelli deboli.
Oggi esiste quello che è stato denominato capitalismo monopolistico, cioè quello delle grandi concentrazioni industrial-finanziarie, una forma economico-sociale su cui si sono depositate molte visioni distorte che hanno impedito una corretta valutazione della nuova epoca. Si è interpretato per instaurazione di un nuovo regime di mercato il processo che ha condotto alla trasformazione della formazione sociale; da considerarsi, lato sensu, capitalistica (guardando al
le forme economiche del mercato e dell’impresa), ma almeno con la comprensione dei cambiamenti intervenuti che hanno modificato anche gli aspetti della lotta detta “di classe”.
Molti sono stati gli equivoci incrociati sul carattere del monopolio. Interpretando la centralizzazione dei capitali soltanto come diminuzione dei centri in conflitto, si è arrivati alla conclusione di un capitalismo in via di organizzazione, dotato di capacità di coordinamento complessivo e con due sostanziali gruppi sociali in contrasto. Uno minoritario con proprietà reale (potere di disposizione) dei mezzi produttivi; o direttamente (possesso delle potenze mentali atte a dirigere la produzione) o indirettamente attraverso il possesso dei mezzi finanziari impiegati nei processi produttivi (acquisto sia dei mezzi che delle potenze direttive degli stessi). Dall’altra parte, si sarebbero trovati i lavoratori produttivi – con la posizione di mezzo dei dirigenti – che avrebbero rivendicato la loro “giusta” partecipazione alla distribuzione del prodotto globale, garantendo di fatto una notevole stabilità del complesso sociale.
Vi era però anche una visione pessimistica del monopolio, che non era dei soli marxisti. Questi ultimi arrivarono semmai spesso a posizioni crolliste per caduta (tendenziale) del saggio di profitto; la centralizzazione monopolistica dei capitali sarebbe stata soprattutto centralizzazione dell’investimento in capitale costante (quello fisso più che il circolante) con innalzamento della composizione organica del capitale, impossibile da contrastare per sempre, poiché i metodi del plusvalore relativo – innovazioni di processo tecnologico con aumento della produttività soprattutto nel produrre beni-salario, con riduzione verso lo zero del loro valore-lavoro e l’intero tempo di lavoro appropriato quindi dal capitalista quale plusvalore – non avrebbero potuto accrescere la massa del plusvalore (profitto) oltre il limite della giornata lavorativa. I giochi sono anche più complessi poiché coinvolgono vari rapporti di composizione organica, saggio del plusvalore e poi saggio del profitto, ecc. ma non ha alcun interesse seguire queste elucubrazioni. Si nota semplicemente la sostanziale dimenticanza dell’avvertenza di Marx secondo cui il capitale non è cosa ma rapporto sociale. I giochetti matematici sui valori delle variabili in gioco nel definire il saggio di profitto lasciano in sottofondo proprio i rapporti sociali, i mutamenti dei quali non hanno seguito le previsioni di Marx (questo l’effettivo fallimento del marxismo).
Gli economisti non marxisti, dal canto loro, essendo quasi sempre liberali, vedevano nel monopolio l’affievolirsi della “benedetta” concorrenza – tendente a migliorare la qualità delle merci, prodotte inoltre a costi, e quindi prezzi, sempre minori – e quindi la possibilità di accordi che avrebbero rappresentato una distorsione del libero funzionamento del mercato, con danni per i consumatori (e loro conseguente “insoddisfazione”). D’altra parte la grande rivoluzione keynesiana – promossa da una crisi, di cui non si interpretò in modo corretto la reale causa profonda, tanto che fino a tempi recenti non si è mai voluto ammettere che solo la seconda guerra mondiale l’ha risolta in radice – si basava sulla incapacità della domanda privata di assorbire tutta l’offerta prodotta in sistemi “opulenti”.
Alcuni opinarono addirittura, errando in radice, che ormai l’oligopolio aveva spento l’esigenza di grandi innovazioni di rottura – quelle cui Schumpeter affidava il vero sviluppo capitalistico ad opera degli imprenditori appunto innovatori – per cui il sistema avrebbe avuto bisogno di continuo sostegno ad opera della domanda pubblica (non mai per grandi investimenti produttivi in settori innovativi di carattere strategico). Schumpeter fu fra i pochi a capire l’importanza delle innovazioni di prodotto più che di processo, quindi dell’apertura di completamente nuovi settori produttivi, restando tuttavia fermo all’idea della sfera economica in quanto predominante nella nostra società; inoltre, anche lui, con l’affermarsi della grande impresa oligopolistica, pensò all’affievolirsi della concorrenza e quindi dello spirito innovatore degli imprenditori.
I veri pensatori in controcorrente furono Lenin e Burnham. Il primo restò agganciato al modello tradizionale per quanto riguarda la caratterizzazione dell’imperialismo in quanto capitale monopolistico e ultimo stadio della formazione sociale capitalistica, per di più creduta in fase di crescente putrefazione. Tuttavia, egli non pensò il monopolio come semplicemente opposto alla concorrenza, che veniva invece portata ad un livello ancora più alto e acuto. Inoltre, pur considerando importante la competizione fra grandi concentrazioni monopolistiche, diede ben maggiore rilievo all’aspro conflitto tra potenze per le sfere d’influenza, con i corollari dello sviluppo ineguale e dell’anello debole in cui il tessuto sociale sarebbe stato strappato dalla rivoluzione. Il secondo, ex trotzkista americano, superò il semplice modello del capitalismo proprietario in direzione di quello manageriale. Concentrò pur sempre il suo interesse sull’economia, mettendo tuttavia in risalto il carattere strategico-politico dell’agente capitalistico; egli trattò dunque la direzione imprenditoriale della grande corporation non quale organo in via di burocratizzazione e di spegnimento dello spirito innovatore, bensì come fattore di ancora più elevata competitività.
Il passaggio dalla fase concorrenziale a quella monopolistica (dalle piccolo-medie alle grandi e grandissime dimensioni dell’impresa) non assopisce la conflittualità tra gruppi capitalistici. Tale passaggio – che è nel contempo transizione dalla formazione sociale borghese di tipologia inglese a quella dei funzionari del capitale a predominanza statunitense – mette in luce l’errore di prospettiva di Marx, nascosto dal marxismo di derivazione kautskiana, quello su cui tutti abbiamo dibattuto nel XX secolo, che eliminò il problema riducendo la “classe operaia” al lavoro esecutivo di fabbrica.
In realtà, come Marx aveva capito, il primo capitalismo (diciamo di concorrenza, pur se tale concezione è soltanto economicistica) univa nell’agente capitalistico sia la proprietà dei mezzi di produzione che la direzione della stessa. Con la centralizzazione dei capitali (il passaggio al monopolio, sempre nella limitata accezione di tipo economicistico), Mar
x era convinto che la proprietà si sarebbe separata dalla direzione, trasformandosi infine in semplice proprietà finanziaria, in possesso di pacchetti azionari, con tutti i giochi a questa connessi (quelli che ancora ritengono l’attenzione dei superficiali critici del capitalismo). La direzione si sarebbe unita all’esecuzione nell’operaio combinato (in quanto lavoratore collettivo cooperativo), schierato nel suo insieme contro il parassitismo dei puri proprietari (rentier), una classe di quasi signori (con rendita non terriera ma finanziaria). In realtà, il passaggio dalla minore alla maggiore (ed enorme) dimensione imprenditoriale mise in luce ciò che prima era soltanto in nuce e che quindi Marx non percepì: il capitalista è agente delle strategie del conflitto per la supremazia.
Ecco perché, come Lenin intuì, il monopolio portava la concorrenza (cioè il conflitto di strategie) ad un livello molto superiore a quello del capitalismo di concorrenza. Ecco perché, come Burnham intuì, non era la proprietà il carattere primario dell’agente capitalistico. E nemmeno era la direzione dei processi produttivi (in effetti, la prima traduzione dell’opera di Burnham portava il titolo La rivoluzione dei tecnici, del tutto sbagliato poiché il manager non è necessariamente il dirigente della produzione). Nemmeno è però tassativo che la proprietà sia completamente superata. L’agente capitalistico può essere magari anche proprietario, magari anche dirigente della produzione, o di qualche suo specialistico comparto. Può essere anche, o invece no, un innovatore. Il suo carattere più proprio è quello strategico-conflittuale, quindi egli è innanzitutto un politico. L’assunzione di grandi dimensioni da parte dell’impresa – e del resto Marx mai parlò di impresa perché per lui l’unità produttiva capitalistica era rappresentata principalmente dalla fabbrica, dall’opificio industriale, qualcosa di completamente diverso dall’impresa del XX secolo – porta in primo piano ciò che già esisteva fin dall’inizio, ma solo embrionalmente, quindi pressoché invisibile.
Il politico imprenditoriale ha tuttavia limiti di comprensione in merito al complesso della “guerra” in corso. Di conseguenza, l’agente capitalistico imprenditoriale intreccia necessariamente sempre più la sua azione con quella di colui che viene tradizionalmente considerato il politico per eccellenza, colui che agisce all’interno della sfera detta politica, che si compendia nello Stato, nei suoi apparati (non quelli di pura amministrazione, bensì quelli della forza, il cui uso è indispensabile nel conflitto strategico per la supremazia), nei vari organismi (partiti, media, istituzioni culturali, ecc.) utilizzati nella lotta per il controllo dello Stato e dei suoi apparati. Questo intreccio non è però mai pacifico, armonioso, poiché ogni sfera ha la sua relativa autonomia; così come avviene egualmente, nella sfera economica, tra la sua partizione produttiva e quella finanziaria. Tutto ciò provoca disarmonie, crisi, a volte disgregazioni vere e proprie con il manifestarsi delle “crisi” di vario genere (economiche, politiche, culturali).
In ogni caso, è la politica – intesa nella sua “essenza” di complesso di strategie per il conflitto – a guidare le danze in tutte le sfere della società. Accanto all’indubbia limitatezza del marxismo – mai uscito dalla trattazione del primo capitalismo intravisto (sviluppatosi in Inghilterra) con formulazione del generale concetto di modo di produzione capitalistico, che ha ossificato ogni ulteriore ricerca – abbiamo la micragnosa celebrazione delle virtù del “libero” mercato, cioè della pura economia, che vorrebbe limitare in generale l’azione dello Stato. Non si comprende affatto che, al massimo, si può lottare contro una certa politica dello Stato, contro una certa politica di specifici agenti dominanti, le cui strategie favoriscono dati gruppi sociali e non altri. D’altra parte, ci sono poi gli statalisti, anch’essi predicatori di teorie in generale, che appoggiano in realtà altri gruppi sociali, contrabbandando lo Stato quale organo di regolamentazione e amministrazione degli affari di una presunta collettività del tutto inesistente.
E allora giungiamo alla conclusione. Se la politica, nel suo aspetto di insieme di strategie per un conflitto teso a prevalere, si porta con sempre maggiore evidenza in primo piano, è difficile fare gli interessi di dati gruppi dominanti (che si rappresentano, nel loro insieme, in una nazione predominante) sostenendo, come nell’ottocento, il semplice libero commercio mondiale (da mantenersi, se necessario, con l’uso della forza militare). E’ indispensabile unirgli un altro inganno, un’altra ideologia che maschera gli interessi di gruppi particolari, fingendo che siano quelli più generali della società. Ecco allora spuntare la “democrazia”, le “libere elezioni a suffragio universale” che accompagnano il “libero commercio”, la “globalizzazione dei mercati”. Come l’Inghilterra ottocentesca interveniva con azioni belliche per salvare il libero commercio, così gli Usa intervengono con la forza dove non si accettano libere elezioni. Salvo ovviamente protestare, sostenendo che vi sono stati brogli, se queste libere elezioni non vanno per il verso “giusto”. Tutto il resto – le guerre umanitarie, gli Stati canaglia da mettere all’indice, ecc. – sono il contorno della via maestra al predominio dei gruppi oggi dominanti, che si compendiano in una nazione predominante: bisogna preservare la globalizzazione mercantile, ponendo tuttavia quale obiettivo primario le libere elezioni democratiche.
Non esistono affatto queste libere elezioni democratiche, che presupporrebbero quella omogenea collettività dei produttori associati (il lavoratore collettivo) in cui fosse eliminato il conflitto per la supremazia, caratteristico invece di ogni presunta collettività. Se esistesse realmente una simile collettività (soltanto immaginata), non ci sarebbe più politica, in quanto essa è conflitto (anche se lo si maschera da pacifica competizione) per difendere gli interessi dei raggruppamenti particolari in cui è divisa ogni società. Non sto adesso a dilungarmi troppo, perché bisognerebbe allora affrontare altri problemi con ancora non so quante pagine. Mi limito a rilevare che la democrazia elettorale è appunto come il mercato cosiddetto libero. In realtà prevale in quest’ultimo chi è in grado di sviluppare una maggiore potenza extramercantile. Perfino quella che dipendesse da vantaggi di competitività (come fu per qualche decennio nell’ottocent
o a favore dell’Inghilterra, primo paese della rivoluzione industriale) verrebbe mantenuta con metodi di forza che impediscono ad altri gruppi di accedere ai medesimi vantaggi con i dovuti tempi.
All’epoca del declino inglese, solo una ideologia contrastante con quella del libero commercio poté far credere che fosse sufficiente il protezionismo a rafforzare le nuove potenze in crescita e in progressivo sopravvento sull’Inghilterra. Ci furono in realtà dure lezioni tutt’altro che soltanto economiche (com’è in fondo il protezionismo). Anche per la democrazia elettoralistica si verifica lo stesso fenomeno. Tale democrazia è semplicemente quella garantita da varie lobbies e gruppi di pressione in reciproco conflitto. Essa funziona appunto come democrazia quando uno di questi gruppi – o un’alleanza di durata indefinita tra i più forti d’essi – assicura una certa stabilità “riproduttiva” a quella data configurazione di rapporti; esattamente come l’esistenza di un sistema economico dotato di centro (la fase monocentrica del capitalismo) permette la riproduzione economica in assenza di gravi crisi (si hanno solo recessioni). Rispetto all’ideologia della democrazia (elettoralistica), la sua antitesi polare è la “lotta delle masse”; un’ideologia perniciosa che tenta di impedire la coagulazione, all’interno di movimenti confusi e indistinti, di forze realmente contrapposte e nemiche dei gruppi dominanti, in particolare di quelli della nazione predominante, che intendono affermare la loro preminenza appunto attraverso i metodi “democratici” .
Bisogna combattere insieme le due ideologie dell’inganno: la democrazia e la semplice lotta delle masse. Si deve “scoprire”, in ogni data congiuntura specifica, quali gruppi sono in azione dietro la maschera della democrazia (che tiene in vita il vecchio assetto di potere) e della lotta delle masse, in cui i vecchi gruppi dominanti si muovono tentando solo di sostituire alla ormai insostenibile configurazione passata dei rapporti una nuova, che tuttavia mantenga egualmente il potere nelle loro mani, al massimo con il complice coinvolgimento di nuovi gruppi collaterali. Solo quando si siano accumulate forze – spesso tale accumulazione è fortuita o legata al precipitare di eventi prevedibili per grandi linee – capaci di demolire la democrazia, e di neutralizzare i suoi sodali antitetico-polari della lotta delle masse, si verificano le condizioni per effettive svolte storiche, per mutamenti radicali d’epoca della formazione sociale.
Per l’innesco di tali mutamenti sono senza dubbio indispensabili sommovimenti delle masse, e anche tumultuosi (non sempre però così vasti come la propaganda sostiene e i media fanno credere). Tuttavia, le masse fanno la storia solo in alcuni discorsi o scritti propagandistici di grandi capi rivoluzionari (tipo Lenin o Mao, ad esempio), il cui modo di agire fu del tutto opposto a simili “frescacce”. Sapevano bene dove (non) conduce simile movimento di per sé e si ingegnarono a trovare le migliori condizioni per inserirvisi allo scopo di orientarlo, senza lasciare alcunché alla sedicente “spontaneità”; poiché, in realtà, nessun movimento è mai “spontaneo”. Chi predica in tal senso ci rivela che sta offrendo la sua complicità ai vecchi dominanti, chiedendo una qualche cointeressenza, una partecipazione al potere. Anche un simile obiettivo si può “correttamente” perseguire in date contingenze; con la consapevolezza, però, di ciò che si sta facendo e senza raccontare frottole sul grande movimento delle masse che cambia il mondo. E’ solo questione di rapporti di forza; in certi casi, si deve transigere, non si è ancora maturi per un vero rivolgimento.
Non esiste quindi democrazia, non esistono le Moltitudini e le Masse come “eroi della storia”. Anzi, non ci sono proprio eroi. Esiste soltanto chi lavora duramente, e non con semplice idealismo scevro di impurità, puntando ad un reale rivolgimento; cui si contrappone chi vuol mantenere il vecchio potere, rispettando il solito detto gattopardesco secondo cui tutto deve cambiare affinché tutto resti come prima. I due “attori” sono fra loro nemici; talvolta capita che debbano perfino allearsi o fingere di assecondarsi vicendevolmente, ma l’intento finale è di potersi annientare. L’uno non potrà vivere pacificato e sereno vicino all’altro in perpetuo; l’obiettivo ultimo è la soppressione di uno dei due. L’odio è profondo, non ci sono compromessi se non per inganno e raggiro, per necessità dipendenti dai rapporti di forza e per una durata mai prevedibile con improvvido e infantile determinismo.