INNALZARE LE FALSE PROFEZIE DI MARX PER SEPPELLIRE MARX
Ognuno dovrebbe parlare di quel che conosce. Certi filosofi, invece, di-ego sconfinato non perdono occasione di stravolgere il pensiero di Marx per farsi accogliere nei circoli dominanti dove, simili fraintendimenti, sono sempre i benvenuti, allo scopo di disperdere ogni lascito positivo di quella teoria rivoluzionaria, che si vorrebbe ridurre ad un unico osso di seppia.
Non è possibile prendere la principale tra le previsioni errate di Marx e farla diventare un inveramento ad usum popoli (raggirati). Non solo Marx si rivolta nella tomba, da vero scienziato qual era, ma, a questo punto, chi è intellettualmente onesto, dovrebbe, persino, dare ragione ad uno dei suoi critici più accaniti, a quel Popper che (pur confondendo il lavoro scientifico di Marx col marxismo ideologico successivo), pretendeva, giustamente, che certe ipotesi teoriche fossero sottoposte ad un processo di falsificazione, in maniera da attestarne la veridicità o l’assenza di tale requisito fondamentale (che, se riscontrato, avrebbe fatto decadere la teoria a grande narrazione).
In questo senso, una “profezia” è tale quando, appunto, per concretizzarsi abbisogna di 200 anni. Ma la scienza non profetizza, la scienza, semmai, fa delle previsioni che possono attuarsi o meno, nel giro di qualche tempo, mesi o pochi anni, non secoli. Questo Marx lo sapeva benissimo perché non era un Nostradamus qualunque, come i suoi finti cantori odierni. Difatti, egli scrive nel Capitale che il comunismo era già presente in fieri nelle viscere del capitalismo, che si trattava di un parto ormai maturo nel grembo di quella società, che di lì a breve il bambino avrebbe visto la luce, per effetto di una certa dinamica intrinseca al modo di produzione dominante che stava facendo esplodere letteralmente le sue contraddizioni. Abbiamo già spiegato tante volte in cosa si sostanziava questo vaticinio di Marx. Secondo quest’ultimo, la lotta nel libero mercato tra capitalisti avrebbe favorito processi di concentrazione (prima) e di centralizzazione (poi) dei capitali, con espropriazione di molti proprietari che sarebbero stati risospinti tra i salariati (anche se di più alto livello). Contestualmente, la socializzazione dei diversi processi produttivi, favorita dalla prima circostanza, non avrebbe incontrato più ostacoli, determinando la formazione, nella produzione, di un nuovo soggetto collettivo, il quale avrebbe avuto tutto il controllo delle fasi lavorative. Come scrive La Grassa: “La proprietà si separa dalle potenze mentali (direzione) della produzione che vanno ricongiungendosi – non però allo stesso livello, con l’esistenza invece di scarti e separazioni che creano comunque contraddizioni (non antagonistiche) – alle attività di prevalente esecuzione (e manualità). Si viene cioè creando quella separazione, tendenzialmente duale, tra il cosiddetto rentier (solo proprietario delle condizioni di produzione ma tramite una specifica modalità, finanziaria, di controllo) e l’insieme dei venditori di forza lavoro che costituiscono l’operaio combinato (o lavoratore collettivo cooperativo)”. Sostanzialmente, questa classe di rentier è già un gruppo dominante decadente che ha perso il dominio sulla base materiale (produttiva) e che sopravvive grazie al controllo politico degli apparati di coercizione dello Stato. Il rapporto sociale generale è già, anzi, favorevole al lavoratore associato che rappresenta il grosso della società, la sua parte più dinamica e propulsiva. I pochi capitalisti finanziari rimasti non avrebbero potuto nulla contro questa forza collettiva che avrebbe dato, infine, la spallata allo Stato in cui si erano asserragliati i vecchi prepotenti, rovesciandoli una volta per tutte.
Questo diceva Marx. Vi pare che ci troviamo in queste circostanze? Ora, invece, leggo su internet, da parte di uno dei soliti ingarbugliatori di Marx, che la sua profezia si è realizzata (dopo due secoli? E chi era Marx, un frate indovino? Un oracolo ottocentesco? Un aruspice barbuto con l’accento tedesco?) perché il finanz-capitalismo imperante sarebbe la dimostrazione lampante che l’aristocrazia finanziaria attuale avrebbe definitivamente preso il potere, determinando il passaggio dal capitalismo industriale a quello delle cedole. Queste sono allucinazioni. Addirittura, si sarebbe concretizzata quella separazione tra proprietà e produttori con annullamento dell’industri privata capitalistica. Cose fuori di senno. Dove vede costui la formazione del General Intellect nella produzione? Dov’è il nuovo rapporto sociale comunistico che da tale situazione, come diceva Marx, sarebbe dovuto sgorgare? E, infine, quando sarebbe avvenuto il passaggio all’ ultimo stadio degenerativo del capitalismo, quello in cui la finanza predomina sull’industria e sullo Stato, dominando tutti gli Stati ed il mondo in maniera acefala e anomica? Nella produzione, non si è saldato, all’epoca di Marx, il G.I. (dal dirigente fino all’ultimo giornaliero) proprio perché il capitalismo non portava affatto in quella direzione, figuriamoci oggi in cui è evidentissimo che gli strati alti del management produttivo (non parliamo di quello strategico) sono inseriti a pieno titolo nei gruppi dirigenti dominanti. Siamo alle barzellette che non fanno ridere. I rentier per Marx erano quelli estraniati dalla produzione, spossessati delle potenze mentali. Con la sola ricchezza, senza essere più elementi principali (attori preminenti) di rapporti sociali oggettivi (e automatici) e senza disporre di supremazia militare ed ideologica, non si domina un bel nulla. Tutto quello che viene scritto da tali elementi e ascritto a Marx non esiste. Il pensatore tedesco non era stato così rozzo e antiscientifico nell’esprimersi, non vaneggiava di produzione neofeudale del capitalismo flessibile.
Cito ancora La Grassa, dal prossimo libro che spero esca in tempi brevi: “Quando il profitto si stacca nettamente dal “salario di direzione”, quando il capitalista è mero proprietario e il possessore delle potenze mentali produttive diventa salariato, cessa anche la spinta innovativa, il capitalismo comincia a deperire poiché non garantisce più lo sviluppo che è stato, in un certo senso, la sua ragione storica, la sua funzione positiva, quella per cui Marx lo considerava necessario al fine di non aspirare ad un comunismo di povertà, di ristrettezza delle piccole comunità agrarie, di “idiotismo rurale” (una sua espressione). Soprattutto, però, nel lavoratore collettivo, per quanto l’alto dirigente (colui che possiede i maggiori saperi produttivi) si senta personaggio particolarmente indispensabile rispetto ai bassi livelli lavorativi, si diffonderebbe la sensazione di essere comunque depredati da chi vive in tutt’altro mondo, dedicandosi per di più ad un gioco, quello finanziario sui segni della proprietà, che talvolta precipita sulle spalle dei produttori sconvolgendo i loro piani e la loro vita stessa. A ben vedere, del resto, queste sono ancora oggi le concezioni dei critici (imbelli) del capitalismo che, ad ogni crisi dello stesso, si scagliano contro la finanza, in ciò facilitando il gioco dell’ideologia dominante, ben adusa a sostenere tali emerite idiozie, dando addosso ai finanzieri “cattivoni” additati quali veri responsabili della crisi, magari mandandone perfino qualcuno in galera o comunque consegnandolo al ludibrio delle genti così che, quando poi il capitalismo si riassesta, si possa tornare a parlare dei meriti di questa forma di società, dei meriti di coloro che la dirigono “onestamente”, “eticamente” “.
Ne parleremo ancora (come nel prossimo saggio in uscita). Non ci stancheremo mai di rintuzzare le simulazioni filosofiche con cui si finge di esaltare Marx per affossarlo una volta per tutte. E’ una promessa che non teme minacce.