Intervista a Bobo Craxi: “come forza socialista ci opporremo alla svendita dell’impresa strategica di Stato”. (di G. Petrosillo)
G.P. Onorevole Craxi, la crisi italiana è forse arrivata ad un punto di non ritorno. Da economica si è fatta istituzionale e sociale. Molte categorie produttive, ormai stremate, scendono in piazza e si uniscono in gruppi spontanei di protesta che non riconoscono i tradizionali canali di espressione e di rappresentanza. L’ “imminente” ripresa, annunciata dai governi succedutisi negli ultimi anni, più con le parole che con i numeri e i fatti, ancora non si vede. I partiti non sono in grado di dare risposte alla popolazione e reagiscono scompostamente al malcontento generale. C’è un crollo di credibilità e di iniziativa di questa classe dirigente che non ha saputo leggere i problemi della fase storica. Secondo Lei, qual è la via per arrestare questa pericolosa china?
B. C. La crisi economica che ha avuto origini negli Usa nel 2008 ha scosso l’occidente perché, per la prima volta dopo un secolo nel quale ci siamo sentiti al riparo nella nostra certezza di essere la civiltà più evoluta, improvvisamente la competizione ed il progresso di nuovi competitori internazionali ci hanno messo dinnanzi le nostre fragilità. L’Italia aggiunge alla crisi globale i ritardi accumulati nella II Repubblica e la crisi della classe dirigente politica, economica e sindacale. Nessuno può dichiararsi innocente. La via maestra resta quella della democrazia riformata senza demagogie, del rinnovamento e dell’efficacia nel promuovere questioni di giustizia sociale in Europa.
G.P. Molti imputano il tracollo italiano all’ingresso nell’UE e all’adesione alla moneta unica. Suo padre da Hammamet, in una delle ultime interviste, dichiarò che l’Europa per noi sarebbe stata “nella migliore delle ipotesi un limbo, nella peggiore un inferno”. Gli eventi gli hanno dato ragione. Perché, nonostante la dura evidenza, non si raccoglie l’invito lanciato all’epoca da Bettino Craxi circa la rinegoziazione dei trattati e dei parametri economici che ci tengono incatenati all’Europa? Dobbiamo necessariamente Morire per Maastricht, come ha scritto il Premier Enrico Letta in un suo libro?
B.C. E’ impressionante quanto quelle previsioni suonassero profetiche. Un signore che se ne stava lontano dal Continente e privato della libertà di movimento e di azione vedeva meglio dei governanti italiani innamorati dell’adesione alla moneta unica senza calcolarne le tragiche conseguenze economiche e politiche negoziando inadeguatamente i parametri. Oggi vedo che tardivamente si fa strada la medesima riflessione, persino il neo-capitalista Farinetti, consigliori di Renzi, ne parla. Quindi il tema è nazional-popolare, farà strada.
G.P. Questo discorso ci riporta alla sovranità dell’Italia. I “vecchi” socialisti, così come i “vecchi” democristiani, sapevano che la lealtà agli alleati non poteva contrastare con le nostre specifiche prerogative nazionali. Cossiga, per esempio, diceva che con gli Usa non si doveva passare mai dall’amicizia all’accondiscendenza, per non essere travolti. Anche suo padre, che non era certo antiamericano, a Sigonella diede un esempio di questo fondamentale bilanciamento, tra interessi interni e internazionali. Tali insegnamenti sembrano essere andati perduti e lo Stivale, soprattutto nelle questioni di politica estera, è finito ai margini del mondo. Dalla Libia al caso marò, siamo stati messi all’angolo. Nonostante lo status di grande potenza, siamo incapaci di fare valere le nostre legittime ragioni. Quali sono le sue proposte per ridare all’Italia il ruolo che merita sullo scacchiere regionale e globale?
B. C. L’Italia che riprende il suo ruolo economico è destinata a recuperare il proprio ruolo politico. Naturalmente ho avvertito anch’io una difficoltà di rappresentazione della nostra posizione all’estero anche se con Monti, va detto, il nostro prestigio internazionale sembrava ripristinato. Anche Letta è stimato nonostante la sua scarsa esperienza internazionale. L’Italia deve avere una politica per il mediterraneo, per l’America Latina, per l’Est Europa, cosa che sembra difettare. L’Italia deve rafforzare la sua visione nel continente Africano destinato a diventare un player di tutto rispetto. Dobbiamo incoraggiare i nostri imprenditori, dobbiamo cogliere queste nuove opportunità di lavoro e di sviluppo.
G.P. Enrico Mattei, compianto leader dell’Eni, riteneva che quest’ultima compagnia fosse uno strumento nelle mani dello Stato per penetrare i mercati esteri e agevolare i rapporti politici dell’Italia con altri Paesi. Con il Cane a sei zampe si facilitava, insomma, la politica estera della Repubblica. Tale valutazione può essere estesa ad altre grandi imprese di punta, a compartecipazione pubblica, che si distinguono, per competenza e affidabilità, fuori dai nostri confini. Purtroppo, pure questa brillante intuizione dell’ex Presidente dell’Eni è stata accantonata e adesso si parla di liquidare le aziende strategiche per ripianare il debito pubblico. Sul piatto finiscono bocconi prelibati come Finmeccanica, Telecom, e la stessa Eni. Potenti appetiti stranieri spingono in questa direzione. Lei ritiene che vendere in questo momento sia una buona idea?
B. C. Penso innanzitutto che l’ENI è destinata a mantenere intatto il suo prestigio ed il suo ruolo nel Mondo. La vendita di una sua partecipata non rappresenterà il principio della fine. Altre Aziende Pubbliche al contrario rischiano di essere considerate come agli inizi dei ’90 un boccone prelibato. Quel che è più grave è che la nuova leadership di centro-sinistra è capo-fila di questa svendita sottocosto. Ci opporremo come è naturale che faccia una forza socialista.
G.P. Sono passati più di vent’anni dal terremoto di tangentopoli, quello che spazzò via un’intera classe politica. Finalmente, possiamo dire che quell’operazione di moralizzazione, a suon di manette e avvisi di garanzia, è stata qualcosa di diverso dalle “mani pulite”. La verità storica sta lentamente avendo la meglio sulla narrazione dei moralisti e dei “cospiratori”. Attualmente la corruzione è persino aumentata e l’élite politica decisamente scaduta. Un altro socialista, Rino Formica, ha definito Mani Pulite un mero golpe di Palazzo in cui misero lo zampino attori stranieri e influenti cricche finanziarie. Qual è la sua opinione?
B.C. Giudico consolatorio ed assolutorio definire la crisi e la dissoluzione di un periodo così lungo della nostra Storia Repubblicana come il semplice risultato di un Colpo di Stato. Se ne fa riferimento troppo spesso e a sproposito. Certo, il Sistema fu rovesciato con violenza giudiziaria, con il concorso dei media ed appoggi internazionali espliciti ed occulti. I risultati politici di quella che Craxi padre chiamava Falsa Rivoluzione sono sotto i nostri occhi: negativi sotto tutti i punti di vista. Questo non ci allieta, anzi, le ragioni del nostro impegno nella denuncia e nella proposta devono aumentare. Si sono persi inutilmente venti anni e nessuno ce li restituirà .