INVASORI CON PARTITA IVA? (di G. Gabellini)
Malgrado Giorgio Napolitano e altri seplcri imbiancati consimili siano assai restii ad ammetterlo, l'Italia è entrata in guerra come membro attivo della sedicente "coalizione di volenterosi", che si sono presi la briga di bombardare la Libia onde spingere il colonnello Gheddafi nell'angolo e costringerlo alla resa senza condizioni. La superficialità con cui era stata portata avanti l'intera operazione in sede diplomatica e la fretta con cui si era passati dalle parole ai fatti pareva fin dall’inizio rispecchiare piuttosto nitidamente i rinati sogni di "grandeur" francesi, l'opportunismo prudente e di basso profilo di Gran Bretagna e Stati Uniti, la consueta, vile doppiezza italiana, in cui Berlusconi non è parso che l'ultimo goldoniano "Arlecchino servo di due padroni", e l'incertezza ambigua e sibillina che accompagna ogni mossa dei governi di Mosca e Pechino. Ben presto, tuttavia, le contraddizioni intestine a tale coalizione sono venute a galla, evidenziando una netta divisione sull'intero fronte "umanitario". La rigidità con cui Sarkozy ha tentato di condurre l'aggressione ha da un lato suscitato grossi fastidi a Turchia e Russia, che non hanno mancato di esporre pubblicamente la propria contrarietà, e dall'altro insospettito le più bendisposte Italia e Gran Bretagna, che hanno espresso il proprio fermo auspicio che la NATO assuma il comando dell'operazione. Dal canto suo, la Norvegia ha fatto dietrofront e gli Stati Uniti hanno dichiarato che ridurranno il proprio supporto all'operazione. Se non altro, l'attacco contro la Libia ha avuto duplice il merito di mettere in luce gli antichi dissapori e antagonismi intereuropei che lacerano da decenni la tanto decantata ed auspicata "unità" del Vecchio Continente e di mostrare la disarmante incapacità da parte delle singole nazioni di progettare un disegno strategico credibile. I bombardamenti sono certo indispensabili a mettere in ginocchio un paese ma del tutto insufficienti a determinare la caduta di un regime radicato e consolidato come quello di Gheddafi. Solo un'invasione può garantire tale risultato, e di questo i vari Sarkozy, Cameron, Obama sono ben consci. Ed è proprio in forza di tale consapevolezza che è bene prendere in esame la possibilità che i "volenterosi" in questione decidano nei prossimi giorni (qualora non lo abbiano già fatto) di appoggiarsi a milizie private onde evitare di coinvolgere gli eserciti regolari in un pantano come quello libico. Si tratta di una strada già ampiamente battuta (in specie per quanto riguarda il Continente Nero) e rivelatasi vincente in passato. La fine della Guerra Fredda aveva infatti privato numerose nazioni africane (come quelle del Corno d'Africa) del loro capitale geopolitico, mentre il denaro dei paesi ricchi era stato spostato in altre e ben più remunerative aree di investimento, come quelle nazioni nate dalla disgregazione dell'Unione Sovietica che si accingevano ad aprire le proprie frontiere alle lusinghe del libero mercato. Posti in tali condizioni, gli Stati africani sono spesso caduti nelle mani di avidi e pittoreschi tiranni locali o in sanguinose guerre civili tra tribù in reciproco antagonismo. Le ingenti ricchezze presenti nel sottosulo di molti di essi hanno però continuato ad esercitare un certo fascino nei confronti delle potenze occidentali, che dovevano mantenere un sufficiente grado di governabilità in tali paesi per poter portare avanti i propri affari con successo. Chi meglio delle compagnie private di sicurezza poteva adempiere a questo compito? Esse entrarono in campo in forze, proteggendo gli impianti di estrazione e raffinazione, contrastando e reprimendo le insurrezioni locali, appoggiando o detronizzando governi in carica più o meno legittimamente. Così accadde in Angola e in Sierra Leone. Queste compagnie private, accollandosi buona parte delle mansioni normalmente affidate ai soldati regolari, permettono di norma agli Stati di mantenere un basso numero di militari sotto le armi, di agire senza essere direttamente chiamati in causa e di ridurre al minimo l'esposizione dei propri coscritti agli inevitabili rischi che comporta la guerra. Questo ultimo aspetto è indubbiamente primario in relazione allo spirito del tempo, in specie per quanto riguarda gli Stati Uniti. Essi ambiscono a estendere la propria influenza sul resto del mondo ma la loro opinione pubblica è assai recalcitrante ad accettare, anche laddove approvi l'operato del governo, la morte di qualche soldato americano sul campo di battaglia. Così accadde all'indomani dell'estenuante battaglia di Mogadiscio del 1993, quando la morte di qualche ranger innescò un'ondata di "orrore" in seno alla società statunitense che spinse Bill Clinton a ritirare il proprio contingente. Così accadde in Ruanda e accade tuttora in Afghanistan ed Iraq. Come se fosse straordinario morire in guerra. E' forse una degenerazione inevitabile che dinnanzi agli occhi di un paese che, smarrito ogni senso del limite, aspira all'invulnerabilità la morte di un soldato appaia come una colossale difatta. Il problema è che questa tendenza si è espansa a macchia d'olio, frutto maturo nato dal delirio di onnipotenza statunitense di cui era intrisa la sconsiderata retorica da "zero morti" che animò la prima Guerra del Golfo. Una retorica simile accompagna ancora oggi – e il discorso non vale certo solo per gli statunitensi – la morte di qualsiasi soldato caduto, cui quelli che il mai troppo compianto Leonardo Sciascia avrebbe definito "professionisti della politica" sono soliti concedere il funerale di stato per pulirsi pubblicamente la coscienza e seppellire ogni spunto di riflessione obiettiva e feconda al riguardo sotto i dogmi politicamente corretti attualmente imperanti. Alla luce di tutto ciò, risulta assai probabile e sensato che le potenze invischiate nell'aggressione alla Libia tornino a far ricorso alle compagnie private di sicurezza per far si che Gheddafi capitoli una volta per tutte. Il problema è che il comportamento dei dipendenti di queste agenzie non è, all'atto pratico, soggetto ad alcun tipo di monitoraggio. Se di soldati ufficiali non si tratta non vi sarà alcuna (per quanto formale e affarista) Corte Marziale a (eventualmente) chiamarli a rispondere del loro operato, così come è accaduto in Iraq, ove i loschi affari della ditta "Blackwater" non sono mai venuti definitivamente a galla. Sulla natura di simili congreghe di guerrieri a partita IVA, il franco generale Fabio Mini scrive che: "Come era previsto e prevedibile i mercenari sono diventati tanti, potenti, onnipresenti, e ormai fanno parte del problema della sicurezza e non più della soluzione. I mercenari o cosiddetti contractors privati di oggi ormai hanno poco in comune con i contractors di sevizi ausiliari dei primi anni Novanta. Somigliano sempre di più alle formazioni dei mercenari che nelle terre D'Africa, Asia e Sudamerica, lavorando per conto di Stati e di corporazioni, si sono macchiate dei crimini più insensati e orrendi della storia". Posta questa dura ma inoppugnabile premessa, Mini prosegue la sua riflessione, prendendo atto che: "Con le crescenti difficoltà nei reclutamenti che tutti gli eserciti professionali incontrano, con il massiccio ricorso degli eserciti all'outsourcing, con il ritiro dei contingenti militari dalle zone operative e con i lavori da fare sempre più sporchi, le compagnie priv
ate sono destinate ad avere crescente peso nella sicurezza. Il problema è che se esse lavorano e traggono vantaggi dall'insicurezza, è difficile che contribuiscano a combatterla". A questo punto, non resta che tenere gli occhi aperti e ben puntati sulla situazione, e sperare che gli aggressori, che già aggredendo la Libia hanno fornito prova sublime della propria pochezza strategica, non si dimostrino talmente incoscenti da far ricorso a queste milizie private, magari per appagare le proprie ambizioni di "grandeur" senza incorrere nel rischio “inaccettabile” che qualche soldato regolare ci rimetta la pelle.