IPOTESI DI RICERCA SUL CAPITALISMO MANAGERIALE (2° parte)

Nel secondo dopoguerra (del Novecento) in Europa, il movimento taylorista dello “Scientific Management” assunse la veste di taylorismo sociale: si sommò cioè il taylorismo di fabbrica con la regolazione macroeconomica e sociale del Keynesismo, nell’aspetto più controverso della storia del Capitalismo europeo: il keynesismo nato in Usa, come studio sugli effetti positivi a seguito di interventi antidepressivi nell’immissione di Spesa Pubblica nel periodo Roosvelth degli anni Trenta (nel dopo crisi ’29), si diffuse soltanto in Europa, in particolare in tutte le politiche di programmazione e stabilizzazione dei rapporti sociali e produttivi, entrando a far parte nei programmi dai movimenti operai e sindacali europei, con una mutazione genetica di Spesa pubblica secondo l’impianto originario di Keynes, che può essere così riassunta: lo “ spreco di spesa pubblica che prevede di scavare buche per poi ricoprirle, genera reddito ed occupazione;” espressione propagandata ed amplificata dal Pci ed in particolare dalla Cgil (nel periodo di “Lama” segretario), come politica economica salvifica, nella missione storica del movimento operaio per il raggiungimento della massima-piena occupazione.
Ma per capire come l’input di management Usa immesso nel sistema organizzativo dell’ impresa, con alta densità di saperi non solo tecnici, viene successivamente coniugato in Europa in mediazioni sociali(stataliste) è un quesito la cui soluzione può essere trovata soltanto nella storia del Capitalismo Europeo e cioè nelle forti tinte ideologiche (a copertura delle rozze interpretazioni di analisi sul capitalismo considerato come parte intera, in un unico blocco), mutuate in parte secondo le necessità degli indirizzi ideologici prevalenti al momento, e riconducibili ad una perdita di competizione dovuta ad una accentuata centralizzazione del Capitalismo Usa. In questo contesto, l’introduzione in Usa del management vebleniano(1904) nel connubio tra industria ed affari, fu dapprima osteggiato poi mitigato dapprima negli anni Venti dal corporativismo democratico di Rathenau, prima di approdare nel secondo dopoguerra, nella pianificazione con controllo di “Managers Statalisti” (secondo l’impianto originario di Rathenau) quali ‘ longa manus’ per l’ingresso di partiti e movimenti sindacali. Quest’ultimo punto, necessita uno sforzo analitico supplementare in una rivisitazione interpretativa su una discontinuità tra aree geografiche (Usa-Europa), attraversate entrambi, da processi di disaggregazione-integrazione tra gruppi industriali: il management di tipo vebleniano aveva ‘in nuce’ una Centralizzazione di capitali di tipo nuovo rispetto a quella Ottocentesca e permetteva oltre alla raccolta di capitali presso i rentier con l’aiuto delle banche, un’attività di raccolta predatrice delle imprese; l’economia europea, base di questo processo di integrazione e di gerarchizzazione delle economie, diventava a sua volta, nel lato del controllo finanziario(azionario) delle imprese, un serbatoio di liquidità finanziaria a sostegno dei processi di Centralizzazione del Capitalismo Usa; una Centralizzazione ottenuta su sviluppi capitalisti ineguali, tra gerarchie di organizzazioni (in)tra imprese dominanti e dominate, da rimodularsi “in continuum” di funzioni manageriali in grado di disporsi su processi mirati al (man)tenimento e/o l’estensione del controllo dell’impresa(e).
Nei primi del Novecento, l’Impresa Industriale non dipendeva più dal sistema bancario e dagli intermediari finanziari che dettavano le condizioni dei finanziamenti; la grande impresa industriale Usa era al tempo stesso, concentrazione industriale e finanziaria, i cui finanziamenti alla meccanizzazione della produzione di massa, venivano realizzati passando, da linee esterne di accumulazione del capitale in linee interne alle grandi imprese: “le imprese potevano essere viste sia come concentrazioni industriali, che centralizzavano il potere decisionale sulle operazioni industriali, sia come concentrazioni finanziarie, che centralizzavano il controllo sul capitale sociale”( vedi Di Bernardo “Le dimensioni dell’impresa: scala scopo varietà”); con ciò venne emergendo una nuova finanza con un inedito managerialismo finanziario, che accompagnò quello più genuinamente industriale. La Produzione Industriale dei primi del Novecento, operò uno spostamento di campo nel sistema di strategie d’impresa Usa, innescando processi di integrazione mirati ad inglobare l’economia europea e spingendo sempre più quest’ultima, in una reazione di difesa dell’esistente, che si manifestò nelle forme più confacenti alla propria visione del mondo
dell’impresa europea: socializzare in modo indiretto il potere industriale, attraverso il controllo sul credito finanziario(bancario); un esatto contrario della “grande Corporation Usa: concentrazione di capitale industriale-finanziario, con la prevalenza dell’aspetto Industriale in grado di creare un proprio mercato finanziario, emettendo azioni garantite dalla credibilità manageriale. Quanto però il lato finanziario abbia pesato sulle economie europee, lo troviamo negli scritti di Hilferding fin dal 1910; la perdita progressiva di competizione europea veniva occupata da una presa sempre più invasiva della finanza Usa che nel suo fabbisogno finanziario, dovuto alla accentuata concentrazione industriale, alimentava una solido controllo sui mezzi finanziari spostando con ciò il baricentro del sistema impresa europea, dall’industria alla finanza con la successiva interruzione storica del dominio finanziario (Usa), nelle esperienze del fascismo e del nazismo e di una loro conseguente autonomia industriale.
Con la fine della seconda guerra mondiale, nella sconfitta del nazi-fascismo, si impose un regolamento dei conti, con la chiusura definitiva di quella esperienza politica, e l’apertura al dominio Usa con le caratteristiche di un Capitalismo di tipo Manageriale e con esso nuove relazioni, espresse da parte di autori americani, in nuove regole d’Imprese come sistematizzazione di una “Teoria della crescita di un Capitalismo Manageriale;” si cercò di passare da una teoria della Struttura (dimensione ottima in equilibrio di mercato ) ad una teoria di Processo, e/o parafrasando: dalla teoria dell’equilibrio (dimensionale) alla crescita (sistemica dell’impresa), secondo l’ipotesi “ che strutture diverse, con un passato storico e un presente differenziato, possano dare luogo a processi dinamici simili, teorizzabili in astratto.” Si affrontò in pratica, un problema del mutamento di fase del Capitalismo del dopoguerra, da parte dei gruppi d’imprese di Comando Usa (Gruppi Strategici) in vista di una ripresa di uno sviluppo capitalistico europeo, con imprese di quest’ultimo a prevalenza di Capitalismo di Stato, sopravvissute al conflitto, e già poste o da porsi entro i vincoli di un dominio (Usa), che dovesse comprendere “ soltanto forme d’imprese routinizzati: ” forme d’imprese non più identificate con l’imprenditore, ma ad “un pool di saperi manageriali intesi come insiemi concreti di routines organizzative;” una ridefinizione di Capitalismo Industriale (di Stato) non più determinato da una struttura proprietaria del passato, “ ma organizzato sulla base di una esigenza processuale che fa perdere rilevanza alle specificità ereditate dalla storia, relativizza la proprietà, rende funzionale il potere del management.” Tale spostamento di campo (di una Filosofia dell’Impresa) trovò il fertile terreno europeo nelle mediazioni sociali del simulacro della gestione della “Spesa Pubblica” (e con essa tutti gli annessi e connessi di Imprese pubbliche) per l’entrata in campo di essa, di partiti e sindacati in aderenza agli indirizzi “uniformi e lineari” del prototipo di “Manager Statalista”, in grado di assolvere in modo lineare gli indirizzi strategici posti dai Gruppi di Imprese(Industriali) Dominanti Usa.
Gli anni Sessanta e Settanta sono caratterizzati oltre che della forte ripresa di Sviluppo Capitalistico Occidentale, da nuovi modelli evolutivi d’impresa che accompagnano la crescita economica in una riedizione aggiornata di Teoria del “Capitalismo Manageriale” come riflesso del nuovo dominio Usa da consolidare, alimentata da autori che vanno da “Penrose a Galbraith.”
Penrose si pose un problema di un modello organizzativo d’impresa Usa in un periodo di forte ripresa dell’economia (anni Sessanta), superando con ciò la forma d’impresa degli anni ’30 (anni della depressione) del “modello ottimale” (dell’impresa in equilibrio) sviluppatosi in accumulazione dall’interno delle singole imprese o settori (investimenti di capitali derivanti da profitti reinvestibili) per ridefinire un tipo di impresa non più dipendente da indicatori del Profitto(i) (una barriera posta come limite di convenienza alla dimensione raggiunta); la nuova forma d’impresa doveva rompere con il Profitto (d’Impresa), e porsi come “ entità amministrativa autonoma di pianificazione.” Un nuovo dominio Usa era possibile, progettando una strategia complessiva di gestione dell’espansione dell’Impresa intesa “come luogo di indefinita accumulazione di sapere manageriale, che rimuove senza soluzione di continuità il vincolo manageriale alla crescita.” Ma crescita non significa solo investimento di capitale, quanto “sviluppo di un team dirigenziale e di un sapere organizzativo peculiare…. Questo passaggio dall’impresa soggetto (Imprenditore) all’impresa organizzazione, che si sviluppa con una propria identità legata al management ed al
sapere organizzativo, è il punto essenziale di passaggio e di superamento, dalle dimensioni d’impresa alla sua struttura(organizzazione); ” una idea di crescita legata alla capacità organizzativa del manager che tiene intanto separato il problema più generale dell’innovazione dell’impresa shumpeteriana (della distruzione creatrice). Una necessità interpretativa con una disinvolta forzatura derivante da una economia Usa in forte espansione, in cui era ben visibile che il management di per se non creava innovazione, ma rendeva soltanto coerente il sistema impresa nell’utilizzo di opportunità esterne all’impresa (economie esterne di scopo, di scala) ed incapace però di operare una sintesi tra organizzazione ed innovazione.
Alcuni autori (Marris) corressero il tiro, in aderenza al principio che il dominio nella riproduzione capitalistica è processo immanente dall’interno del sistema impresa, soltanto con l’innovazione; in pratica dopo una prima fase di estensione del dominio Usa nella presa delle Economie Europee in tentacoli ideologici di trasmissioni di “saperi manageriali” (in regole e comportamenti d’impresa), si approfondì il comando della riproduzione proponendo una sintesi ( tra organizzazione ed innovazione), cercando nel contempo di andare oltre l’impianto interamente processuale di Penrose: il profitto destinato agli azionisti non è più l’obbiettivo perseguito ma diventa un vincolo. Un passaggio apparentemente formale, ma in realtà sostanziale: l’impresa non è più un “operatore strumentale vincolato a perseguire il profitto e l’efficienza nell’interesse di altri, ma diventa un soggetto come tutti gli altri che segue i propri fini, ossia è governato da una funzione esogena di utilità” Nel porre questa interpretazione di “impresa come utilità,” sullo stesso piano dei consumatori ed dei lavoratori e risparmiatori, si accoglieva una chiave di lettura alquanto sbilenca anche se mirata al suo scopo: preparare l’incontro con altri protagonisti di peso maggiore del management interno all’impresa; nelle relazioni esterne all’impresa potevano entrare in gioco lo Stato, i sindacati, i grandi finanziatori , e i stakholders (azionisti-risparmiatori).
Questo nuovo contenitore ideologico “dell’impresa utilità” segnava con l’apertura a nuovi soggetti sociali, soprattutto in Europa, inedite funzioni di manager come espressioni di istanze partitiche e sindacali, sotto il collante ideologico dello “Statalismo” (si ricordi l’ingresso in aziende industriali pubbliche di manager di provenienza sindacale e partitica fin dall’inizio degli anni ’70, a seguito del compromesso storico del Pci). E su questo aspetto, l’economista maggiormente rappresentativo del “New Industrial State” (Nuova Industria di Stato) è sicuramente Galbraith; nella sua architettura generale di sistema industriale era previsto oltre che l’impresa, lo Stato, i Sindacati, le Banche,…in un mutamento di forma di impresa industriale, dove “ imprese e Stato convergono nell’interesse comune a pianificare la stabilità macroeconomica e a realizzare progetti misti privato/pubblico; le classi sociali convergono, nonostante la conflittualità endemica, in una pianificazione sociale che premia la stabilità e permette la cogestione del mutamento.” Un legame tra impresa e società basato sul rapporto decisivo dello Stato, attraverso il quale il sistema industriale può regolare variabili ed interdipendenze settoriali oltre ad estendere il suo controllo al mercato del lavoro, dei capitali, ricerca scientifica,…
Una letteratura economica ridondante, che tra stagnazione degli anni Trenta e sistema industriale totalizzante al servizio della crescita, nei Venti anni del boom economico, è capace di trovare un filo logico ininterrotto che unisce, nell’ideologia dell’Industria di Stato, partiti operai e sindacati europei.
G.D. marzo ‘08