IPOTESI DI RICERCA SUL CAPITALISMO MANAGERIALE (I° parte)

La Centralizzazione dei Capitali ebbe un certo impulso con la società per azioni, una geniale invenzione giuridica nella grande raccolta di capitali al seguito delle Rivoluzioni Industriali del secolo Diciannovesimo, i cui i Proprietari (Capitalistici) delle azioni si sarebbero nel tempo, sempre più staccati dalla direzione dei processi produttivi e affidando quest’ultimi ai dirigenti salariati; secondo Marx, entro questo processo di estraniazione dei rentiers (azionisti), si andò formando il “kombinat,”combinazione tra Proprietà-Borghese ( privata e azionaria) che ha il controllo reale dei processi lavorativi e Lavoratore collettivo cooperativo, fulcro della possibile trasformazione rivoluzionaria nel “General-Intellect,” nella ricomposizione cioè dei saperi produttivi (non solo tecnici). Già dalla fine Ottocento, il processo di raccolta dei capitali si andò complicando con l’entrata in campo delle Banche che provvidero direttamente alla raccolta dei capitali sostituendosi ai rentiers ed entrando con ciò a pieno titolo nei Consigli di Amministrazione delle aziende; un connubio tra banche ed impresa-industriale (con la preminenza della prima) nella sintesi del “Capitale Finanziario,” secondo la felice espressione di Hilferding dei primi del Novecento, poi ripresa da Lenin; Il “kombinat” di Marx faceva riferimento ad un capitalismo di tipo ottocentesco che non poteva prevedere nel suo impianto, uno sfondo di diverso di riferimento e neppure di un diverso sviluppo, sulla base dei rivolgimenti più profondi del capitalismo che si svolsero nel secolo successivo: si diversificarono le funzioni, tra Capitalisti Banchieri, Capitalisti Industriali, con l’ingresso dei Manager dipendenti poi destinati ad emergere come Capitalisti Manager, dopo la prima guerra mondiale ( si veda a questo proposito il mio precedente articolo apparso sul sito con il titolo “la Rivoluzione Manageriale di James Burnham.”)
Quel mutamento di forma della proprietà del Capitalismo Borghese “dal suo interno,” rese possibile la separazione del diritto legale della proprietà (borghese) dalla gestione che diventa a sua volta funzione di un sistema di condizioni di esistenza del management nel rapporto tra Proprietari(azionisti) Controllori e grande maggioranza dei proprietari delle azioni possedute, resi ormai del tutto passivi rispetto al controllo dell’impresa; la più forte necessità centralizzatrice dei capitali, facendo seguito alle Rivoluzioni Industriali, richiedeva grandi somme da investire e da prelevare da una massa sempre più grande di azionisti-obbligazionisti-risparmiatori, oltre alla dinamica frammentazione della produzione che richiedeva un più accentuato potere di controllo specialistico realizzato da una presenza sempre più esclusiva del management dell’Alta Direzione Capitalistica. La ‘finzione giuridica,’ dell’inganno perpetrato, per il tramite della società per azioni, tra gli Azionisti-Risparmiatori e i Proprietari-Controllori (pochi), permise la raccolta di grandi somme attraverso la separazione tra proprietà formale e proprietà reale; cambiamento apparentemente lineare del capitalismo, che trascinò tuttavia con se in una crisi irreversibile, buona parte delle ideologie novecentesche, comuniste comprese; un inviluppò ideologico che si radicò su più forti ragioni.
Una funzione quella del manager, all’inizio in totale dipendenza della proprietà borghese e poi in forte crescita numerica, non nella stessa accumulazione dei diritti ottenuti a titolo di proprietà del Capitalismo Borghese (proprietario), ridotta quest’ultima in un numero sempre più limitato: il management si moltiplicò in un arretramento del diritto proprietario borghese (relegandolo a rentier) in sostituzione ad un controllo sempre più capitalistico. Questa estensione non fu graduale, ma subitanea e su larga scala, in conseguenza di guerre internazionali, coloniali e civili, che costrinsero le grandi famiglie borghesi a ritirarsi dalla produzione alla finanza; e qui il potere accentratore dello Stato(i) svolse un ruolo primario, nel collegamento tra i mercati, a ridosso non solo delle guerre ma anche delle grandi crisi economiche di fine Ottocento e del primo Novecento, come supporto essenziale allo sviluppo di nuovi rapporti sociali, nella riproduzione capitalistica dei sistemi statali creati dopo la prima guerra mondiale e che hanno percorso tutto il secolo del Novecento: da “Rathenau, all’Economia Corporativa, dal Keynesismo, all’Istituzionalismo manageriale.” Il management (a prevalenza statale) europeo ha svolto una importante funzione di collegamento rispetto a quello Usa, nell’immediato secondo dopoguerra, in una logica funzione di
adattamento dei rispettivi sistemi manageriali, quali espressioni delle strutture economiche dei Capitalismi di Stato, sopravvissuti al fascismo ed al nazismo; nel contempo, queste funzioni (manageriale) agirono da veicolo di trasmissione ideologica del nuovo dominio del Capitalismo Usa, in ragione alle osservanze “dei nuovi saperi manageriali” forzatamente introdotti nelle “economie sotto osservazione” (vedi “Piano Marshall”, Fmi..) in nuove norme di comportamenti (economici-sociali).
Le interpretazioni sulle Centralizzazioni dei capitali sono state copiose e svariate e quelle che più di tutte hanno occupato l’indagine economica hanno riguardato l’oggetto storico delle dimensioni dell’Impresa (Monopolio, Oligopolio..), in un campo d’analisi che andava dal modo di produzione (cioè sul complesso integrato, di forze produttive e rapporti di produzione) alla produttività dei grandi sistemi e tutte convergenti, in uno stretto nesso tra evoluzione della tecnologia ed evoluzione dell’organizzazione: un maggior grado di organizzazione implica l’emergere di attività produttive insieme ad attività specializzate nella produzione del sapere; anche se l’ordine sistemico dell’Impresa Industriale ‘esiste in quanto diviene,’ si ricostituisce cioè con un ritmo non dissimile alla carica autopropulsiva della “distruzione creatrice” di Schumpeter (espressione metaforica del divenire concreto, attraverso l’innovazione del Capitale Industriale).
Sul versante della Centralizzazione dei capitali realizzate attraverso le dimensioni d’impresa, di un certo interesse è il libro su “Le Dimensioni dell’Impresa: Scala,Scopo, Varietà” della Di Bernardo. Secondo tale testo, due linee ideologiche hanno condizionato per buona parte del secolo Ventesimo (l’Economia Occidentale) il problema delle dimensioni d’impresa e connessa ed essa il management industriale: una prima posizione anti-monopolistica che difende il pluralismo del mercato come condizione fondamentale per garantire la sua funzionalità, insieme ad un’ altra posizione che si può definire efficientista che tende a privilegiare le ” forme organizzative emergenti dal mondo degli affari vagliate comunque dal filtro della libera concorrenza.” Questa seconda linea ideologica è risultata quella prevalente ed ha a sua volta inglobato la prima, emarginando l’eredità schumpeteriana del “Monopolio dell’Impresa con Innovazione,” e sviluppando la prevalenza “del comportamento rispetto alla struttura competitiva;” un assunto alimentato in Usa, nella cosiddetta “Economia Istituzionale,” attraverso l’immagine della “Corporation” (grande impresa) dominata dai managers e luogo di negoziazione sociale; in questo modo “la concorrenza viene intesa come comportamento e non come condizione strutturale…..lo scopo del comportamento competitivo è quello di portare alla vittoria e al rafforzamento del concorrente più efficiente;” e qui potremmo trovare un capitolo inesplorato, ancora tutto da scrivere sul ‘carattere progressivo’ delle negoziazioni sociali dei managers, talvolta in cooptazione con i dirigenti dei movimenti operai-sindacali europei nella loro lotta antimonopolistica.
Ma quello che più interessa rilevare in questo testo, non è tanto il tentativo dell’autrice di rivalutare i processi regolativi della “mano invisibile” del mercato, quanto l’estrapolazione di un primo approccio di ricostruzione storica “ dell’oggetto misterioso dell’organizzazione” a partire dalla “produzione di massa degli anni Venti.” Un salto di qualità, realizzato dal capitalismo industriale dei primi anni del secolo Ventesimo che si caratterizzò rispetto alla prima fase di meccanizzazione dei “Classici” e di Marshall, in una esplosione della complessità (adozione dei sistemi macchine e cicli produttivi con parcellizzazione non più lineare) demandando la sua regolazione nella natura locale dei sistemi (in settori e distretti). Non vorrei addentrarmi nelle implicazioni del nuovo paradigma tecno-economico, basato su un “sistema interconnesso di macchine,” quanto e soprattutto, l’evoluzione del management nel suo passaggio più decisivo: “ l’impresa della produzione di massa subisce una vera e propria mutazione della sua identità soggettiva; essa (identità) perde progressivamente rapporto con una persona determinata (l’imprenditore) e si caratterizza sempre più per la sua crescente dipendenza da un universo diversificato di stakeholders (azionisti), arbitrato dal management.”
Le teorie post-marshalliane dovettero superare le simbiosi tra la concorrenza perfetta di Smith con l’imperfetta concorrenza del monopolio, per approdare ad una visione “multidisciplinare” dell’economia. In sostanza, il raccordo tra politica pubblica e funzionamento dei mercati non può
essere visto tutto interno all’economia, ma con l’aiuto delle scienze sociali, dalla psicologia alla sociologia, storia.., cioè, con la nuova corrente che cercò di organizzare la produzione di massa dei primi del Novecento e che passò alla storia del pensiero economico in Usa, con il nome di “Istituzionalismo;” Veblen (1904) fu il capostipite di questa nuova corrente, e “cercò di conciliare i due principi che reggono l’industria moderna – quello della meccanizzazione e degli affari – non c’è corrispondenza, c’è anzi un antagonismo di fondo…Le motivazioni dell’uomo d’affari sono di tipo pecuniario, mirate a conseguire un guadagno pecuniario per lui stesso o a vantaggio dell’impresa con cui egli si identifica. Il fine dei suoi sforzi non è semplicemente quello di realizzare un processo di concentrazione industrialmente vantaggioso, ma di effettuarlo con modalità proprietarie tali da conseguire il controllo delle grandi strutture create o da trarne il massimo possibile guadagno. Lo scopo ultimo perseguito è un aumento del potere proprietario..” Il principio speculativo dell’uomo d’affari è il lato della potenza finanziaria che guida la tecnologia industriale e che spinge il monopolio ad utilizzare il potere politico dello Stato per una politica predatoria interna ed a livello internazionale in un Imperialismo degli affari”.
L’ Istituzionalismo di Veblen presentava una riconciliazione impossibile tra industrialismo tecnico produttivo e business finanziario e politiche sociali di contrasto ai monopoli, un antagonismo permanente che si può risolvere soltanto con istituzioni adeguate. Questa mediazione istituzionale trovò terreno fertile nelle politiche sociali dell’economia europea con particolare riferimento alle mediazioni istituzionali delle economie corporative di Rathenau. Walther Rathenau è una grande figura emblematica, di intellettuale e businessman, che riuscì, prima nella sua qualità di dirigente dell’Aeg (grande industria tedesca), poi come Ministro della repubblica di Weimar, a proiettarsi con le sue idee, ben oltre il periodo contingente alla propria esperienza politica; la sua corporativizzazione di un economia democratica (come si diceva) rispecchiava ‘in toto’ le esperienze socialdemocratiche di quel periodo, prima dell’avvento del nazismo, e prevedeva “la partecipazione dei lavoratori e delle loro organizzazioni alle scelte industriali fondamentali, la redistribuzione sociale (sotto forma di maggiori salari e maggiori servizi sociali);” l’idea di monopolio secondo l’economista tedesco, “è una opportunità dal punto di vista del coordinamento nazionale della produzione.. abbiamo acquisito pertanto, un nuovo concetto di organizzazione economica, che si differenzia notevolmente da quello attuale dell’economia privata, si perviene con ciò dal trust americano al trust sociale;” Rathenau venne ucciso in un attentato poco prima che il partito nazista salì al potere, anche se la sua politica corporativa fu ripresa dal nazismo nella versione di un più accentuato dirigismo dell’economia.
Rathenau aveva colto nella produzione di massa lo spirito maggiormente sociale dell’Istituzionalismo Usa: a fronte di una atomizzazione delle forme ‘olistiche’ ad opera del mercato di matrice smithiana e neoclassica, l’economia istituzionale di Rathenau cercò una sintesi tra economia privata ed economia socialista nella mediazione possibile tracciata tra i due poli della contraddizione di Veblen (tra macchine ed affari); un nuovo paradigma della produzione di massa da porre alla riflessione economica “nello spirito di rilegittimare la concentrazione associandola non solo al monopolio, ma anche allo spirito di razionalizzazione scientifica e di organizzazione efficientista (di Taylor).”
L’influenza di Taylor (fine Ottocento) operò per contagio a tutti gli esperimenti di riforme sociali entro il mercato: dalla parcellizzazione e standardizzazione della fabbrica, alla centralizzazione delle informazioni e delle decisioni imprenditoriali, emerge la direzione scientifica dello “scientific management” punto focale di una nuova impostazione sistemica “governata dalle economie di regolazione” della grande impresa; la direzione scientifica poteva in questo modo uscire al di fuori della fabbrica attraverso la “Centralizzazione della Conoscenza” come destinazione finale della sua nuova funzione nel gestire processi ad elevatissima complessità, come la concorrenza, la distribuzione del reddito, la politica nazionale; lo “scientific management,” originato nella singola organizzazione d’impresa, esprimeva tuttavia una forte con forte valenza sociale, mancava soltanto la missione sociale, cioè la razionalizzazione socializzante di Rathenau. La missione sociale dell’ economista tedesco si svolse in quel contesto di democratizzazione ( da
leggere socializzazione) dei monopoli durante Weimar, finita come si sa drammaticamente, con gli echi di quella missione ben oltre i confini ed il periodo; nell’immediato dopoguerra, presero il posto i disegni di pianificazione tecnocratica e corporativa dell’Ecole polytechnique in Francia, nel planismo Henri de Man in Belgio, nel managerialismo nato intorno al “Gosplan” sovietico, finanche alla “Programmazione Democratica” del Pci. Il problema del management delle imprese in Europa, venne vissuto “come espressione autoritaria del capitale ..che può essere disciplinata o corretta solo introducendo a livello di Stato e di classi sociali elementi di pianificazione non espressi direttamente dal business.” Da qui nascono le utopie pianificatorie socialdemocratiche e comuniste europee, in connubi tra tecnici e movimenti operai, vecchie proposte riverniciate a nuovo nelle perverse democratizzazioni delle strutture monopolistiche sopravvissute alla seconda guerra mondiale.
G.D. Marzo ‘08