Iran / "Onda verde": viaggiare disinformati
– dietro il golpe di twitter e dei supposti brogli, lotta di classe e (geo)politica nel paese degli ayatollah –
di F. Labonia (“Indipendenza”, luglio/agosto 2009)
Se le scelte di politica estera fungono da riflesso e sono allo stesso tempo cerniera della politica interna, a pieno titolo è da includere la sfera ideologica-‘informativa’ dei massmedia che delle classi dominanti sono espressione più o meno diretta. In Italy-land, il grado di manipolazione dei fatti, anche quando si tratta di “esteri”, è un valido indicatore del grado di dipendenza e subalternità servile. Strumentalmente ci si accoda a sventolare la bandiera della democrazia e dei diritti umani attaccando chi non è in linea con i padroni di questa nazione, gli USA, mentre si tace bellamente o si manipola, se si tratta di Afghanistan, Iraq, Gaza, Libano… Qui non bisogna disturbare il manovratore (e il suo principale alleato regionale), altrove, come a Teheran, quantomeno di compiacerlo, fattivamente di servirlo. La copertura ‘informativa’ sulle vicende iraniane ha evidenziato uno spregio reiterato di quella supposta correttezza formale nella presentazione dei fatti che si vorrebbe propria della “professione giornalistica” e che ci si picca di indicare come uno degli aspetti valoriali, distintivi, di “libertà” del cosiddetto Occidente (cioè gli USA, l’Unione Europea ed il Giappone). Da tempo, sull’Iran, lo stereotipo veicolato dai massmedia è quello di un regime oscurantista e dittatoriale che avrebbe sublimato se stesso nella vittoria fraudolenta delle elezioni del 12 giugno scorso e nella susseguente repressione dell’anelito di libertà del suo popolo. Una politica di demonizzazione che ha dei fini (isolamento esterno e destabilizzazione interna) in nome di interessi –innanzitutto– geopolitici per la sua collocazione geografica e per il suo esercitare un ruolo significativo in scacchieri adiacenti molto rilevanti (Medio Oriente e Asia centrale).
Una nuova “rivoluzione colorata”?
A Teheran si è assistito, per significative analogie, allo sviluppo di un copione già visto con altre cosiddette “rivoluzioni colorate” (Serbia nel 2000, e poi Georgia, Ucraina, Kirghizistan, Libano, Bielorussia, Indonesia, Venezuela, con esiti non sempre favorevoli agli Stati Uniti). Anche qui il detonatore è dato dalla denuncia di frodi elettorali; le manifestazioni vedono mobilitati “giovani”, “non violenti”, che rivendicano libertà, democrazia e diritti civili, tra i quali gruppi organizzati effettuano assalti e devastazioni per provocare una reazione dura; la copertura dei mezzi di informazione ‘occidentali’ è garantita in grande stile con immagini continue di scontri e sangue per esercitare un forte impatto emotivo sulle opinioni pubbliche ‘occidentali’ e delegittimare il governo in questione con denunce di violenze e violazioni di diritti; enfatizzazione di video dei telefonini per avallare “verità in diretta” indiscutibili. Gli obiettivi o esiti possono poi essere molteplici a seconda delle situazioni: caduta dall’interno di un dato governo, erosione della sua credibilità per un rovesciamento più avanti nel tempo, pretesto all’intervento della “comunità internazionale” con consenso indotto nelle rispettive “opinioni pubbliche”. Significativi, in tal senso, gli slogan e cartelli in inglese (“where is my vote?”) dei manifestanti: si parla alle opinioni pubbliche europee e statunitense, non al popolo iraniano.
La differenza, qui, rispetto ai precedenti scenari, è che la Casa Bianca non si è esposta ufficialmente, ma si è limitata ad un lavorìo dietro le quinte, sostegno logistico/’informativo’ incluso. Comportarsi altrimenti sarebbe stato controproducente, stante la natura fortemente patriottica del popolo iraniano, memore sia del colpo di Stato anglo-USA nel 1953 a favore dello Scià Reza Pahlavi, contro il tentativo di Mossadeq di nazionalizzazione dell’industria petrolifera, sia delle continue ingerenze e degli embarghi che da decenni vedono Washington protagonista.
Per sottrarsi il più possibile alle manipolazioni, è necessario cogliere l’essenza e la posta in gioco delle situazioni, non lasciandosi avviluppare da condizionamenti emotivi che possono fuorviare. Il che non significa ignorarli. Significa partire da un’analisi complessiva di quanto accade e dalla comprensione degli interessi dei diversi soggetti in campo, ad includere quindi in un quadro più generale le dinamiche, produttrici di emotività, date
da scontri e sangue.
Il sangue, la violenza, determinano comprensibile ripulsa. Ci sono però (non pochi) momenti nella Storia in cui non c’è (stata) mediazione dialettica possibile nei conflitti sociali e politici. Bisogna sempre essere consapevoli che ad ogni azione c’è una reazione. Se, ad esempio, si usa violenza e si spara, non ci si può poi stupire che la controparte risponda allo stesso modo. Dopodiché in un contesto ci si può schierare con chi inizia, in un altro con chi risponde: dipende dalle situazioni storiche e politiche, dalla posta in gioco, dalle idee, dalle concezioni, dalle prospettive che si confrontano/scontrano…
Ora, quando sui (sub)dominanti massmedia di Italy-land sangue e violenza risultano parte essenziale, pressoché esclusiva, del taglio cosiddetto informativo sull’Iran, è evidente che non solo si compie una scelta di campo (si sta con una violenza piuttosto che con l’altra) ma si è deciso di far leva sull’emotività a fini di manipolazione ideologica.
Indigna, poi, la sfacciataggine. Un esempio dalla storia di questo paese. Nel 2001, l’Italia conosce due momenti ferocemente repressivi di manifestazioni di proteste: Napoli e Genova. Al tempo dei fatti di Napoli era in carica un governo di centrosinistra; al tempo dei fatti di Genova uno di centrodestra. Lasciamo stare le speculazioni opportuniste tra le due frazioni principali del ceto politico (sub)dominante e relative gestioni comunicative dei due eventi. Concorde fu il bollare in termini pesanti, criminalizzanti, anche para-terroristici, attori politici e sociali che in piazza avevano manifestato contro vertici del G8. A sinistra si fecero al più dei distinguo tra “buoni” e “cattivi” manifestanti (si ricorderà la categoria dei famigerati “black bloc” … ). L’esito che accomunò gran parte di quei manifestanti fu di essere massacrati di botte dalle forze cosiddette dell’ordine. A Teheran, giudizi politici a parte, chi denunciava brogli elettorali e un colpo di Stato, ‘tecnicamente’ ha agito per diversi giorni con modalità anche più pesanti (si è sparato, si sono assaltate anche caserme, sono stati uccisi poliziotti…), su un terreno politico di fatto pre-insurrezionale. Perché quest’ultimi sono stati ammantati di una nobile aurea –eroi e paladini della libertà, della democrazia e della pace– e ben diverso trattamento fu riservato ai bastonati di Napoli e di Genova 2001?
All’annuncio dell’esito ufficiale delle elezioni, a Teheran nord, nei quartieri dove vivono gli studenti universitari dei ceti medio-alti, alcune migliaia di persone non hanno accettato il verdetto delle urne e hanno proceduto a bruciare e sfasciare di tutto, a sparare e anche a uccidere. Al Jazeera e anche alcune emittenti USA hanno mostrato immagini inequivocabili al riguardo censurate invece in Occidente. La stessa grancassa massmediatica non ha potuto fare a meno di notare che la risposta delle autorità non è stata all’inizio così dura come la gravità degli eventi ed il loro protrarsi nei giorni avrebbe lasciato immaginare. Una evidente direttiva partita dai più alti vertici del potere religioso e politico iraniano dettata dall’opportunità politica di prendere tempo e far rientrare le violenze. La volontà di Mousavi di non riconoscere l’esito elettorale e il voler proseguire ad oltranza perché le elezioni fossero annullate e ripetute, hanno concorso all’acuirsi delle violenze e allo scorrere del sangue.
E allora, al di là delle valutazioni che si possono avere sulla formazione sociale e sul sistema politico iraniano, è peregrino ritenere che la politica di delegittimazione/isolamento a cui si sta sottoponendo il governo iraniano serva a favorire un colpo di Stato interno e/o preparare le opinioni pubbliche ‘occidentali’ alla ‘legittimità’ di un attacco? E poi, non sarà che la tesi dei presunti brogli elettorali, nei termini in cui è stata propagandata, sia una “bufala” per finalità destabilizzatrici dall’interno o addirittura belliche, come lo fu quella, scatenante una sua ennesima aggressione, addotta dalla Casa Bianca del possesso di micidiali armi di distruzione di massa di un Saddam Hussein pronto ad usarle contro gli Stati Uniti? Per cercare di capire quello che sta avvenendo a Teheran occorre fare alcuni passi indietro…
La copertura ‘informativa’ occidentale e il social network Twitter
Alla vigilia delle elezioni, salvo poche eccezioni, i network internazionali che contano sino alla stampa e a tutti i tg del servizio cosiddetto “pubblico” e privato italiano hanno cominciato a pompare e dare quasi per scontata la vittoria di Mir-Hossein Mousavi, ex primo ministro della Repubblica Islamica d’Iran dal 1981 al 1989, presentato come un progressista, un “riformista moderato” in salsa ‘occidentale’. Nella peggiore delle ipotesi si prefigurava un ballottaggio tra due (lui ed il presidente in carica, Mahmud Ahmadinejad) dei quattro candidati concorrenti. Questo nonostante rilevazioni pre-elettorali di diversi istituti anche non iraniani attribuissero un vantaggio considerevole ad Ahmadinejad. La tesi di un supposto recupero di Mousavi nelle ultime due settimane ha impresso una ‘sterzata di qualità’ massmediatica che, man mano che ci si avvicinava alla scadenza elettorale, ha lasciato intendere alle opinioni pubbliche, talvolta addirittura esplicitandolo, che un esito diverso della sua vittoria avrebbe significato ombre sulla regolarità delle elezioni tali da screditarle. Percezione che di fatto è stata assunta nell’entourage di Mousavi e dei suoi sostenitori: solo dei brogli avrebbero potuto rovesciare un esito ritenuto a portata di mano. In Italia la copertura ‘informativa’ dell’evento elettorale è stata tutta all’insegna di servizi confezionati secondo un taglio sostanzialmente uguale, infarciti di interviste –rigorosamente (belle) donne e giovani– con dichiarazioni di voto stra-maggioritariamente pro-Mousavi, con relative immagini di suoi comizi. Non potendo oscurare analoghe e molto più partecipate manifestazioni a sostegno di Ahmadinejad, si è fatto di tutto per sminuirle facendole scorrere frettolosamente, con il classico florilegio di giudizi pregiudiziali tra cui, non di rado, la notazione che fossero organizzate dal regime. Come a dire: gente pagata per scendere in piazza…
Due ore prima della chiusura dei seggi, Mousavi si auto-proclama vincitore con oltre il 60% dei voti. Parla anche di una conferma ufficiosa giuntagli al cellulare dal Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione (l’organo che valuta la compatibilità delle leggi approvate dal parlamento con la Costituzione e la sharìa). Si appurerà dopo che ha ricevuto un falso. Tramite Twitter, una piattaforma web per mandare brevi messaggi su internet, molto attivo nel corso della campagna elettorale, è tutto un rincorrersi di messaggi di cui è impossibile verificare l’attendibilità. Il Washington Post (17 giugno 2009) scrive che c’è lo ‘zampino’ del Dipartimento di Stato USA. Riferisce che
Jared Cohen, del reparto “policy planning” del Dipartimento di Stato USA, ha chiesto a Jack Dorsey, co-fondatore di Twitter, di ritardare di due giorni le attività di manutenzione al sito previste nelle ore critiche della rivolta di Teheran, per non interrompere il flusso dei tweets (messaggi). Secondo il New York Times (15 giugno 2009), l’amministrazione USA ha trasformato Twitter in una “rete sociale” che svolge un «ruolo chiave contro tutti i regimi autoritari». È il «potere della “e-diplomacy ”» di cui ha parlato il Segretario di Stato, Hillary Clinton. A Teheran, l’esito è quello cercato: uno scenario da scontro civile. Si obbligano le autorità a reprimere disordini, si acuiscono i conflitti interni nelle alte sfere politico-religiose iraniane, si investe sul discredito e su uno scollamento sociale. C’è chi pensa che a Teheran possa ripetersi il copione che defenestrò Milosevic a Belgrado. C’è anche chi si prepara oltre. L’ex segretario di Stato USA ed ancora influente membro dell’establishment, Henry Kissinger, in altri momenti “uomo del dialogo”, alla BBC (18 giugno 2009) dice che bisogna attaccare Teheran, se la “rivoluzione colorata” fallisse. Scettico su cambiamenti dall’interno favorevoli agli Stati Uniti lui che, due settimane prima delle elezioni, aveva pronosticato una rivoluzione verde in Iran, dice che «dobbiamo lavorare per un cambio di regime in Iran dall’esterno». C’è chi tira il sasso e nasconde la mano. Il vice di Obama, Joe Biden, nel corso della trasmissione Abc This Week (5 luglio 2009) usa parole poco distensive: «se Israele vorrà attaccare l’Iran, non li fermeremo». Poi precisa che non si tratta di un “via libera” ad Israele, ma ribadisce che «gli Stati Uniti non possono imporre a un altro Stato sovrano cosa può o non può fare». Infine, esplose le proteste a Teheran nord, Obama ha opportunamente cancellato i finanziamenti del Dipartimento di Stato per i gruppi d’opposizione iraniani, azzerando l’apposito fondo nel “ Foreign Assistance budget 2010” presentato al Congresso. Collassa così l’Iran Democracy Program, che aveva tra le sue voci di finanziamento le trasmissioni satellitari in farsi di Voice of America, captate da 15 milioni di iraniani, e di Radio Farda e Radio Free Europe/Liberty, il sostegno diretto ai gruppi formali e informali dell’opposizione interna (che ha assorbito circa la metà del budget), operazioni ad alto rischio condotte dietro il paravento del National Endowment for Democracy (l’organismo che sta dietro tutte le “rivoluzioni colorate”, finanziatrice da parecchi anni di diverse ONG presenti in Iran), sovente in parallelo con azioni coperte della CIA, quali sostegno finanziario e forniture militari ai gruppi terroristici della Mujahideen Khalq o
di Jundullah. E se invece alla fine avesse ragione Kissinger, che attribuisce ad Obama una «volontà di rendere invisibile qualunque cosa deciderà di fare in Iran»?
Ma Teheran non è Belgrado, e questo a Washington lo sanno. Certo, non è che appaia granché chiara la strategia che la Casa Bianca intenda seguire. Intanto però si soffia sul fuoco, con discrezione, senza che ciò sia palese, per aprire lacerazioni che si possono sempre capitalizzare domani. Infatti, alla notizia della larga vittoria di Ahmadinejad (il 62,63% dei voti, pari a 24.527.516 voti, rispetto al 33,75%, pari a 13.216.411 voti, di Mir Hossein Mousavi) tanto più significativa stante l’alta affluenza (circa l’85% degli aventi diritto, alle precedenti presidenziali s’era aggirata intorno al 60%), con l’inedita partecipazione al voto di 234.812 iraniani all’estero, ripartiti tra 111.792 sostenitori di Mousavi e 78.300 di Ahmadinejad, decine di migliaia di telefonini ricevono sms anonimi in cui si parla di brogli, di colpo di Stato e si invita alla rivolta, indicando anche i luoghi dove concentrarsi e gli obiettivi da colpire. Sullo sfondo i media internazionali, in particolare Voice of America e British Broadcasting Corporation (BBC), canali statali e non privati, drammatizzano la situazione rilanciando di continuo immagini di gente che fugge, di scontri, di feriti, di morti.
Prove generali di guerra elettronica
Thierry Meyssan, giornalista e scrittore, presidente del Réseau Voltaire, scrive: «Ancora una volta l’Iran è un terreno di sperimentazione di metodi innovativi di sovversione. Nel 2009 la CIA si basa su una nuova arma: il controllo dei telefoni cellulari». Un metodo che Washington sta sperimentando nei propri teatri di battaglia. In ogni Paese occupato o strettamente sorvegliato (come il Pakistan e l’Iran) la CIA controlla tutte le chiamate dai cellulari. Lo fa tramite la National Security Agency, che si avvale delle potenti antenne d’ascolto di Echelon, sorta di orecchie da Grande Fratello sparpagliate in tutto il mondo. Ovviamente non registrano tutte le telefonate, ma i numeri chiamati da ogni telefonino. In questo modo possono risalire alla rete sociale di ogni utente: i numeri che chiama più spesso e
quelli da cui più spesso è chiamato. I servizi segreti statunitensi e israeliani hanno così sviluppato metodi di guerra psicologica. In Iran, dove le fasce più ricche della popolazione auspicano una società all’insegna del “libero mercato”, la NSA ha individuato gli esponenti più in vista di questo ceto e, utilizzando gli elenchi delle chiamate dei telefonini, ne ha ricostruito la ragnatela di relazioni. Poi ha iniziato a inviare messaggini, utilizzando anche sistemi tipo il succitato Twitter, dal contenuto falso e terrorizzante. «In primo luogo è stata diffusa via SMS durante la notte dello scrutinio la notizia che il Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione (equivalente alla Corte costituzionale) aveva informato Mir Hossein Mousavi della sua vittoria. Così l’annuncio, diverse ore dopo, dei risultati ufficiali –la rielezione di Mahmud Ahmadinejad con il 65% dei voti– è apparsa come un’enorme frode». E questo, nota Meyssan, anche se appena pochi giorni prima gli stessi Mousavi e l’ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani consideravano sicura una netta affermazione di Ahmadinejad. La stessa celerità del responso elettorale viene letta come sospetta dalla grancassa massmediatica internazionale. Non si dice che le urne installate in Iran (45.713) possono contenere ognuna fino a 860 schede e che, dal momento che ogni scheda può segnalare la semplice scelta di un solo nome, la trasmissione elettronica al centro del conteggio dei voti è operazione che richiede solo qualche ora. Così, poche ore dopo la chiusura dei seggi, l’annuncio della vittoria di Ahmadinejad alimenta le accuse di brogli e scatena piazze già in fermento. Prosegue ancora Meyssan: «sono stati selezionati dei cittadini tra quelli che si sono fatti conoscere in Internet per essere dei blogger, conversare su Facebook o tra gli abbonati alle linee di informazione Twitter. Quindi hanno ricevuto, sempre tramite SMS, le informazioni –vere o false– sull’evoluzione della crisi politica e sulle manifestazioni in corso. Si trattava di messaggi anonimi che diffondevano notizie di sparatorie e di numerosi morti; notizie che ad oggi non hanno avuto conferma».
Nello stesso tempo la CIA mobilita militanti anti iraniani negli Stati Uniti e nel Regno Unito per aumentare il disordine. «È stata distribuita una Guida pratica della rivoluzione in Iran, che comprende vari consigli pratici tra i quali: Impostare gli account Twitter sul fuso orario di Teheran; Centralizzare i messaggi sugli account Twitter@stopAhmadi, iranelection e gr88; non attaccare i siti internet ufficiali dello Stato iraniano. Lasciate fare
all’esercito USA per questo». Una volta attuate queste indicazioni, si impedisce «qualsiasi autentificazione dei messaggi Twitter. Non si può più sapere se li inviano testimoni delle manifestazioni a Teheran o agenti della CIA da Langley, e non si può distinguere il vero dal falso. L’obiettivo è quello di creare ancora più confusione e spingere gli iraniani a combattersi tra loro».
Abbas Barzegar, corrispondente del londinese The Guardian ed inviato in Iran per le elezioni (13 giugno 2009), non riscontra prove che suffraghino l’accusa di brogli diffusi. Riferisce delle dimostrazioni pro-Mousavi tenutesi nei quartieri-bene di Teheran, che hanno radunato fino a 100mila persone, e di quella d’appoggio al Presidente rieletto con almeno 600.000 cittadini. A suo parere, gli “esperti” che fin dal 1979 denunciano come imminente la caduta del regime islamico, non comprendono la realtà iraniana. La vittoria elettorale di Khatami su Nuri nel 1997 non rappresentò, come la si descrive solitamente, la mobilitazione dei giovani di sentimenti liberali contro la vecchia classe dirigente, ma il sostegno ad un candidato percepito come più religioso ed onesto del suo sfidante. Non a caso, aggiunge, molti degli allora elettori di Khatami oggi hanno votato per Ahmadinejad, che si è fatto paladino della lotta anticorruzione e della devozione religiosa. Mousavi, dice, era sconfitto in partenza, avendo puntato sull’alleanza tra “alta borghesia liberale” e mercanti dei bazar, e sui nuovi media –da Facebook a Twitter– che sono assolutamente ininfluenti nelle campagne e tra i lavoratori. In futuro, sostiene, gli osservatori dovranno sforzarsi maggiormente di capire il vero spirito iraniano, quello che ieri ha portato un vecchio asceta esule a rovesciare lo Scià, ed oggi il figlio d’un maniscalco alla presidenza della Repubblica.
Il che ci introduce ad una lettura interna della realtà sociale e politica iraniana.
Sociologia del voto
Quantunque in questi moti si siano inserite regìe esterne interessate ad una (contro-)“rivoluzione colorata” per sviluppi di logoromento se non auspicabilmente di destabilizzazione per ragioni principalmente geopolitiche, cioè per il ruolo che l’Iran svolge nel contesto della politica internazionale, sarebbe a nostro avviso fuorviante ritenere che la causa della crisi in corso a Teheran sia esclusivamente o anche solo principalmente imputabile a Washington e vedere nei sostenitori di Mousavi dei prezzolati dalla CIA. Vi sono aspri conflitti politici interni al sistema di potere iraniano intrecciati a diversi interessi ed indirizzi di classe su cui, per le finalità di cui sopra, c’è chi esternamente da tempo soffia sul fuoco e continuerà a farlo, operando all’occorrenza sul terreno in modo più o –come ha deciso per ragioni più generali di natura geopolitica l’amministrazione Obama– meno visibile. Le mobilitazioni di piazza di una parte minoritaria della minoranza sconfitta nel voto si inscrivono in questa duplice conflittualità che smentisce in sé due luoghi comuni che hanno funto da cardine propagandistico filo-‘occidentale’. Primo: la Repubblica islamica iraniana non è affatto un blocco unico, monolitico, tantomeno un regime dittatoriale o autocratico (le categorie della critica politica potrebbero semmai essere altre e ben diversamente fondate), ma fonda la sua stabilità su svariati centri di potere, un insieme di organi costituzionali a legittimazione sia religiosa che politica e di contrappesi che si controllano e si bilanciano l’un l’altro. Un sistema politico complesso, stratificato, “plurale”, che sin dall’anno della Rivoluzione (1979) funziona grazie ad una complicata e costante ricerca del compromesso. Secondo: la dimensione del consenso elettorale ottenuto da Ahmadinej ad è troppo ampio per pensare ad un sistema di brogli pianificato su larga scala, perché, proprio per quanto detto sopra e per le ostilità, su cui a breve ci soffermeremo, che Ahmadinejad incontra negli stessi apparati, le dimensioni dello scarto di oltre 11 milioni di voti, che alla fine è risultato, avrebbero necessitato di irregolarità e quindi corruttele tanto plateali quanto facilmente smascherabili. Il che peraltro pone anche interrogativi: se Mousavi avesse davvero goduto del consenso maggioritario che ha sbandierato, come mai in piazza, con buona pace dei video girati con i telefonini dagli stessi manifestanti, si vedevano al più poche centinaia di persone? E perché queste proteste hanno toccato solo una parte di Teheran e poc’altro nel paese? Perché, a dispetto
d’ogni intimidazione, non c’è stata quell’estensione a macchia d’olio nel paese che sarebbe potuto essere testimoniabile da riprese fatte dagli stessi manifestanti e dalla grancassa massmediatica internazionale, già ben disposta e compiacente, prontamente rilanciate?
Per sviscerare tutti questi aspetti, partiamo da uno studio elettorale effettuato tre settimane prima del voto da Ken Ballen e Patrick Doherty, pubblicato il 14 giugno su The Washington Post. L’esito vede Ahmadinejad in testa, con un margine di oltre 2 a 1 – superiore a quello che lo ha visto poi vincitore. Non è la rilevazione che sorprende, giacché decine di altre (una trentina dal marzo 2009) già convergevano sullo stesso esito, quanto la serie di dati anche sociologici che l’accompagnano, non nuovi peraltro a tutti i conoscitori attenti e analisti dell’Iran, ma assolutamente taciuti nell’analisi del voto dalla grancassa massmediatica ‘occidentale’. Ahmadinejad ad esempio vince non solo in provincia, nelle campagne, ma anche a Teheran dove è stato sindaco e in diverse altre città importanti e molto vivaci, anche dal punto di vista culturale (Qom, Isfahan, Shiraz, etc…).
«Gran parte dei commenti hanno rappresentato i giovani iraniani e Internet come precursori del cambiamento in queste elezioni. Ma il nostro sondaggio ha scoperto che solo un terzo degli iraniani hanno accesso a Internet, mentre, di tutti i gruppi di età, quello dei giovani fra i 18 e i 24 anni comprendeva il blocco di voti più forte a favore di Ahmadinejad». Chi sostiene allora Mousavi? «Gli unici gruppi demografici nei quali Mousavi era in testa o competitivo rispetto ad Ahmadinejad, secondo i risultati del nostro sondaggio, erano gli studenti universitari e i laureati, e gli iraniani con la fascia di reddito più alta».
Interessi sociali e di classe in campo
Anche George Friedman, direttore dell’agenzia di analisi geopolitica
statunitense Stratfor, ritiene che Ahmadinejad abbia vinto le elezioni in virtù
del consenso popolare e che i sostenitori di una “occidentalizzazione”
costituiscano una frazione poco consistente della società iraniana (15 giugno 2009). Tre i temi che hanno concorso a dare ad Ahmadinejad la vittoria. Innanzitutto, Ahmadinejad parla di religiosità. «Entro ampi strati della società iraniana, è cruciale la volontà di parlare genuinamente della religione. Sebbene possa essere difficile da credere per gli europei e gli statunitensi, nel mondo ci sono persone per cui il progresso economico non è la cosa fondamentale; persone che vogliono mantenere la loro comunità così com’è, e vivere così come vivevano i loro antenati. Questa gente prova ripulsa per la modernizzazione – che venga dallo Scià o da Mousavi». In secondo luogo, la corruzione. «Nelle campagne è diffusa la sensazione che gli ayatollah –che hanno enorme ricchezza ed enorme potere, riflessi nel loro stile di vita– abbiano corrotto la Rivoluzione Islamica. Ahmadinejad è inviso a molti in seno all’élite religiosa, proprio perché ha sistematicamente sollevato il problema della corruzione, che risuona nel contado». Infine, Ahmadinejad dà maggiore affidabilità in tema di sicurezza nazionale iraniana. «Va sempre tenuto a mente che l’Iran negli anni ’80 combatté una guerra con l’Iraq che durò 8 anni (… ) Gli iraniani, ed i poveri in particolare, hanno vissuto quella guerra ad un livello molto intimo. La combatterono in prima persona, o vi persero mariti e figli». Insomma, «brogli o no, Ahmadinejad ha vinto e pure di tanto. Che abbia vinto non è un mistero; il mistero è come gli altri potessero pensare che non avrebbe vinto».
Farian Sabahi, giornalista e docente esperta di Iran, intervistata dall’ Agi (14 giugno 2009), aggiunge nella sua analisi qualcosa di più. La ragione del successo di Ahamdinejad è da ricercare nell’attenzione al benessere economico della popolazione e per la distanza presa dalla casta degli intellettuali. «Anche se i dati mostrano un’economia in difficoltà, bisogna ammettere che Ahmadinejad ha cercato di portare la ricchezza petrolifera sulle tavole degli iraniani, pur se con il sistema sbagliato perché ha prosciugato i fondi accumulati per affrontare le oscillazioni del costo del greggio». Una politica di ridistribuzione dei proventi energetici favorita anche dal rialzo del prezzo del petrolio, analoga a quella attuata da Chavez in Venezuela. Nonostante la grave crisi economica internazionale, la disoccupazione piuttosto alta e gli effetti negativi dell’embargo statunitense e delle sanzioni, nel corso di questi anni Ahmadinejad ha rafforzato lo Stato
sociale estendendo l’assistenza sanitaria garantita e gratuita (di cui hanno beneficiato 22 milioni di iraniani), ha aumentato notevolmente le pensioni per i ceti più bassi, ha aumentato consistentemente il reddito degli insegnanti, dei lavoratori agricoli e degli operai, ha concesso sussidi ai disoccupati e agli strati più deboli della popolazione, ha sgravato le famiglie senza reddito dal pagamento delle bollette, ha accordato crediti vantaggiosi agli artigiani e alle piccole imprese agricole e dato contributi ai contadini vittime della siccità. Ha portato avanti una politica contro la corruzione e contro le privatizzazioni. Nelle province dedite alla produzione di petrolio e della chimica, ha incontrato il consenso degli operai di quelle imprese pubbliche che il programma riformista prevedeva di privatizzare.
C’è poi l’enfasi posta da Ahmadinejad sul rafforzamento della sicurezza nazionale, che in Iran è argomento assai caldo. Le minacce di Stati Uniti ed Israele sono pane quotidiano da decenni, sovente materializzatosi in escalation di attacchi terroristici provenienti dal Pakistan, finanziati dagli USA, e delle incursioni dal Kurdistan iracheno sostenute da Israele ed anche dall’Afghanistan, che hanno determinato la morte di cittadini iraniani. Il rafforzamento della sicurezza alle frontiere, in questi anni, nonostante una persistenza ridotta di attentati, è stato un fatto tangibile. Nella memoria nazionale c’è la guerra scatenata senza alcun preavviso dall’Iraq di Saddam Hussein al tempo spalleggiato dall’Occidente. Oggi Teheran è nel mirino di Israele (cioè di una potenza nucleare che ha più volte minacciato un attacco massiccio contro le principali città iraniane e contro le centrali nucleari) e resta sempre nella lista nera degli USA. Nel febbraio 2006 c’è un’accelerazione degli stanziamenti, sotto l’amministrazione Bush. con l’istituzione del succitato “Iran democracy program”. Il 23 maggio 2007, ABC News informava del «nulla osta segreto presidenziale ottenuto dalla CIA per operazioni destinate a destabilizzare il governo iraniano». Pochi giorni dopo il londinese Telegraph riferisce della firma di Bush «ad una serie di piani della CIA per una campagna di propaganda e disinformazione intesa a destabilizzare e rovesciare il regime teocratico dei mullah in occasione delle prossime elezioni presidenziali». Nel giugno scorso il giornalista Seymour Hersh scrive sul New Yorker che «il Congresso ha approvato una richiesta della Casa Bianca di finanziare con 400 milioni una forte escalation di operazioni coperte contro l’Iran, finalizzate a destabilizzare attraverso
sabotaggi e moti popolari la leadership religiosa del paese». Un giorno prima delle elezioni, il neocon Kenneth Timmerman scrive che vi sarebbe stata una “rivoluzione verde” a Teheran.
Ma c’è una sterminata letteratura di questo tenore al riguardo, pluridecennale. Ahmadinej ad ha mostrato capacità nel gestire queste delicate situazioni mantenendo un indirizzo di continuità nella difesa della sovranità nazionale e della scelta antimperialista che fece Khomeini. Nei fatti ed in campagna elettorale si è distinto dalle deboli posizioni in materia dell’opposizione filo-‘occidentale’ che sostanzialmente hanno condensato le loro accuse responsabilizzando la sua politica di aver isolato il paese, quando è incontestabile che è con la sua presidenza che l’Iran ha provato a rompere la cortina di ferro ‘occidentale’ tessendo rapporti strategici di primaria importanza con molti protagonisti di primo piano della vita internazionale (Russia, Cina, America latina, Pakistan, India, Turchia…).
Il bacino d’influenza di Mousavi, minoritario, è invece costituito dagli iraniani più benestanti, ad alto reddito: borghesia commerciale, ceti professionali, grandi imprese, la classe media e alta degli studenti. Le politiche sociali ed economiche di Ahmadinej ad non sono affatto piaciute a questi strati sociali chiamati a sostenerne le spese, ceti penalizzati pure dall’inflazione da cui, anche grazie al calmieramento dei prezzi dei prodotti di prima necessità, sono invece state tutelate le classi popolari. Desiderosi per giunta di vedere la fine delle vertenze con l’Occidente per inserirsi nel sistema internazionale. A questo blocco sociale e politico e a parte dell’apparato dominante iraniano (alti esponenti politici e religiosi che hanno il loro riferimento d’interessi nel potentissimo ex presidente Alì Akbar Hashemi Rafsanj ani), si sono aggiunti spezzoni eversivi che al tempo dello Scià godevano di ricchezze e di privilegi perduti con la rivoluzione del 1979, che aspirano a recuperarli e che anche per questo sono apertamente pro-americani. Ciò che li unisce, sotto la coltre della rivendicazione di maggiori diritti civili, in particolare per le donne, è una prospettiva di società fortemente classista, liberista, con previsione di massicce privatizzazioni, in particolare nel settore petrolifero. Dietro le roboanti dichiarazioni di Mousavi sul suo essere «pronto al martirio» se non si ripetono le elezioni, c’era piuttosto la consapevolezza di poter contare su sostegni in alto, molto in alto, decisi a giocarsi il tutto per tutto.
Conflitto tra frazioni della cupola iraniana
Ed è proprio la campagna elettorale iraniana ad offrire interessanti indicatori in tal senso. Il confronto tra Ahmadinejad e Mousavi è stato aspro, duro.
Ahmadinejad rappresenta un’anomalia nel ruolo di presidente (seconda carica per importanza nel paese dopo quella di Guida suprema). Era dai tempi del socialista Bani Sadr, primo presidente post-rivoluzionario poi esiliato, che non si vedeva una figura laica. Tutti i presidenti sono stati religiosi. Ahmadinejad è un laico con un suo profilo spirituale, una sentita, non ostentata religiosità, pia ed inflessibile. Ma non fa parte del clero. Ora, lo stop alle liberalizzazioni, la calmierazione dei prodotti di base affrancati quindi dai vincoli di mercato, il controllo e la redistribuzione dei proventi del petrolio –tutti punti che hanno sinora contrassegnato la sua agenda politica imperniata in una visione egualitarista, populista, dell’Islam– gli ha procurato credito tra le classi più sfavorite e nell’Iran rurale, ma l’ha messo in urto con quei poteri interni che si sono ingrassati nel corso degli anni Novanta. Ahmadinejad ha mostrato più volte di essere uomo senza peli sulla lingua, dissacrante ed aspro anche nei confronti di molti esponenti di primo piano del clero sciita che domina il paese. La sua immagine umile, la sobrietà del suo stile di vita (rifiuta di vestire in modo elegante e, dalla sua elezione a presidente, non si è trasferito dall’abitazione modesta in cui vive e che ha ereditato dal padre, fabbro), uniti ad una fermezza dialettica contro coloro che considera nemici esterni ed interni del paese, e davanti ai quali non ha mai abbassato il tono delle sue critiche, ha generato, a detta di molti osservatori, un’empatia tra le masse iraniane, che ne avvertono la sua vicinanza ai loro bisogni e la diversità rispetto alle figure, ritenute corrotte, del clero moderato.
Il livello dello scontro sale nel corso dell’ultimo confronto televisivo della campagna elettorale. Mousavi critica i quattro anni di governo di Ahmadinejad che a suo dire avrebbero portato il paese al disastro industriale. Citando i dati della Banca centrale iraniana ricorda che l’inflazione viaggia ancora sopra il 25%. Critica la destinazione sociale dei proventi del petrolio, la politica di spesa sociale del governo, di credito e sussidi per i prodotti
alimentari di base, denuncia come formali le privatizzazioni di industrie, banche e settori controllati dallo Stato stante le contenute percentuali messe sul mercato.
Ahmadinejad replica difendendo la sua politica di sostegno alle classi meno abbienti ed accusando l’avversario di corruzione, di essere la longa manus degli ex presidenti moderati Rafsanj ani e Khatami ed imputa le difficoltà del suo governo, soprattutto in campo economico, proprio al pesante fardello ereditato dai precedenti esecutivi moderati. Quindi dice chiaramente che Rafsanj ani, la sua famiglia ed il suo clan hanno beneficiato della loro posizione politica per procurarsi vantaggi personali. Esplicita l’accusa di corruzione e di appropriazione di beni pubblici. Come se non bastasse, l’accusa di trescare con Stati stranieri per rovesciare il governo. Attaccando lui, attacca tutta una filiera di figure di spicco dell’élite politico-religiosa e mette in imbarazzo chi ha mantenuto atteggiamenti di connivenza e compiacenza. Dentro ci sono, al di là di differenze interne, ovviamente Mousavi, ma anche Khatami, l’altro candidato “riformatore” Karroubi, ed altri dignitari della frazione cosiddetta “riformista” (in senso liberista), dell’apparato. Probabilmente in questa circostanza si è consumata ed ufficializzata una rottura (nei fatti cominciata con la prima elezione a presidente, nel 2005, di Ahmadinej ad, che sconfisse proprio Rafsanj ani) ed è maturata in questi settori la consapevolezza dell’ineluttabilità di una prova di forza, poi espressasi nelle piazze, e di giocare il tutto per tutto la partita per il potere, confidando anche in sostegni ‘occidentali’.
Rafsanyani: eminenza grigia del “partito degli affari” e regista di Mousavi
Rafsanyani è l’uomo più ricco del paese, con un vasto impero finanziario-immobiliare, estese proprietà terriere, interessi nel settore del commercio agroalimentare, padrone di imprese di import-export e della prima compagnia aerea privata del paese, gestore di una rete di campus privati che inquadra circa tre milioni di studenti, riferimento di molte fondazioni religiose. Ha investito milioni di dollari della sua immensa fortuna personale nella
campagna elettorale di Mousavi. Una fortuna accumulata nel corso delle sue due presidenze (1989-1997), che lo hanno reso inviso a strati consistenti di popolo presso i quali ha la fama di corrotto, ma che gli hanno consentito di tessere una rete di rapporti a tutti i livelli, dalla burocrazia a ministeri chiave (come quello della giustizia e del petrolio) dal parlamento all’influente clero di Qom. C’è chi sostiene che anche nelle alte sfere del Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione ci siano suoi uomini. È attualmente Presidente del Consiglio degli Esperti (l’organo, eletto dal popolo, che designa la Guida Suprema ed eventualmente ne dispone la destituzione) e del Consiglio per la determinazione delle scelte (organo cui spetta di dirimere le controversie tra parlamento e Consiglio dei Guardiani). E a Qom Rafsanjani ha tentato –e non demorde– di mettere in piedi una maggioranza di religiosi per esautorare la Guida suprema, l’ayatollah Khamenei (che Khomeini a suo tempo promosse alla sua successione a Guida suprema, scartando proprio Rafsanyani), che ancora difende la legittimità di Ahmadinej ad.
L’odio dell’ayatollah Rafsanyani verso Ahmadinejad va al di là del personale. Le politiche economiche di quest’ultimo hanno introdotto delle misure progressivamente correttive (in chiave sociale) in un sistema che non pochi analisti sono arrivati a qualificare come capitalismo di Stato mafioso e nel quale una minoranza ha beneficiato negli anni di un processo di privatizzazione –meglio sarebbe dire, di saldi– dell’economia iraniana. Tra la popolazione è diffusa l’identificazione tra Rafsanjani ed il suo clan con la cosiddetta «mafia del petrolio».
Rafsanjani è inoltre infastidito dalla campagna moralizzatrice portata avanti dal giovane presidente populista. In particolare l’ex presidente si è opposto al tentativo di Ahmadinejad di porre sotto controllo il commercio estero, di limitare l’influenza delle università private, di insidiare al controllo del suo clan il ministero chiave del petrolio. La politica di Ahmadinejad ha cercato di erodere la base di potere dell’ex presidente ed ha chiamato i ceti medio-alti del paese alle proprie responsabilità per sostenere una politica socioeconomica re-distributiva.
Conclusioni
Cosa accadrà adesso? Senz’altro la Repubblica islamica porterà il segno di queste lacerazioni per parecchio tempo. Ma la rottura che c’è stata non è affatto detto che non sia salutare per il futuro del paese. Innanzitutto perché, al di là degli scontri di piazza, ha evidenziato le posizioni in campo degli apparati nella società. È difficile immaginare una ricomposizione. Ogni accomodamento che si voglia transitorio, ammesso che ce ne siano i margini, potrebbe essere compiuto formalmente in nome della stabilità del paese ma segnerebbe comunque la sconfitta dell’una o dell’altra frazione. Ormai sono stati compiuti passi da cui è pressoché impossibile tornare indietro, ammesso che ci siano forze in campo disposte a questo. Le politiche di Ahmadinejad si inscrivono nella visione egualitarista che caratterizza l’islamismo militante sciita, che ha un illustre esempio in Hezbollah nel Libano e a ben vedere include –sebbene sia sunnita– Hamas in Palestina. Un dato certo è il rafforzamento con cui esce Ahmadinejad e la pesante sconfitta di Rafsanjani e di tutto il suo entourage di potere. È presto per dire se segnerà la sua uscita di scena. Certo non è ancora definitivamente sconfitto e proprio per evitare che Ahmadinejad e Khamenei rafforzino la loro presa sul potere e si lancino nella campagna moralizzatrice che potrebbe essergli fatale, c’è da aspettarsi ulteriori recrudescenze e tentativi di giocare il tutto per tutto, anche con scelte disperate e avventuriste, pericolose per la stabilità e l’indipendenza del paese. Non dimentichiamo il suo tentativo fallito di defenestrare Khamenei attraverso una sfiducia del Consiglio degli Esperti e l’ipotesi, ora, di una qualche riforma “costituzionale” per limitarne i poteri. Colpire lui significherebbe colpire poi Ahmadinejad. Contrariamente poi a quel che pensano i corifei dell’arretratezza e dell’oscurantismo di buona parte della società iraniana, la durezza dello scontro politico di questi mesi ha prodotto consapevolezza, tra gli strati subalterni, dell’importanza della difesa dei diritti sociali conquistati e più in generale della posta in gioco (geo)politica. Il che, ammesso che ce ne sia bisogno, vincolerà ancor più Ahmadinejad a proseguire nella strada intrapresa dell’attuazione di una sempre più marcata ‘svolta a sinistra’. L’affievolirsi della forte spinta egualitaria che trent’anni fa aveva caratterizzato la Rivoluzione islamica di Khomeini, nonostante le moltissime conquiste che gli iraniani hanno fatto dalla fine del regime dello Scià, sembra ora ritrovare nel simbolico asse Khamenei-Ahmadinejad un punto di riferimento formidabile e aver restituito alla Repubblica islamica quella vocazione egualitaria ed un rapporto più stretto con le masse grazie
alla sua politica radicale e populista.
Che l’Iran possa emulare su scala statuale l’esperienza della libanese Hezbollah è negli sviluppi possibile e a nostro avviso molto interessante. Se ciò avverrà, il conflitto tra ceti affaristi e borghesia agiata da un lato e classi popolari dall’altro è destinato ad accentuarsi. Inoltre potrebbero scollarsi le attuali singolari coabitazioni anche di piazza con il nucleo duro affaristico-mafioso dell’attuale opposizione, settori di critica intellettuale e studentesca, comunisti, marxisti-islamisti, sostenitori di una democrazia laica, eccetera. Intrecciato a tutto questo si staglia la collocazione internazionale del paese. Le minacce continue di aggressione che provengono da Israele escono da queste elezioni ridimensionate. Se concretate, in una situazione ancora delicata e non definita, porterebbero acqua alla linea politica dell’asse Khamenei-Ahmadinejad. Allontanate a breve, queste minacce sono tutt’altro che scongiurate definitivamente. Fintantoché, perlomeno, durerà e verranno risultati dall’ “operazione simpatia” su scala planetaria che attraverso l’amministrazione Obama i tenutari del potere reale negli States hanno messo opportunisticamente in campo per tutelare gli interessi strategici mondiali statunitensi, in buona parte scossi da tutta una serie di ragioni ed eventi. Dall’esito dello scontro a Teheran dipenderà il futuro del paese e dell’intera regione del “Grande Medio Oriente” e effetti / riflessi significativi su scala mondiale: per essere l’Iran, oggi, un efficace contrappeso all’egemonia israeliana; per l’appoggio dato ai gruppi della resistenza palestinese e libanese che hanno mostrato di reggere il confronto militare con Tel Aviv; per mettere indirettamente in discussione cosiddetti “regimi moderati” e ruolo strategico delle monarchie del Golfo (Arabia Saudita in testa); per le intese allacciate con paesi come il Venezuela, che si oppongono ai progetti egemonici degli USA e che già si sono tradotti in un efficace sostegno materiale ai processi rivoluzionari e di trasformazione latinoamericani; per le intese e gli accordi verso oriente, strategici con Pechino (interscambio gas-petrolio / manifattura, tecnologie, infrastrutture) e con Afghanistan e Pakistan per la costruzione di gasdotti, con sullo sfondo la volontà di entrare nello SCO, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai incentrata su Cina e Russia. Ecco perché a Teheran si gioca una decisiva partita con ricadute geopolitiche. Ecco perché chi ha a cuore le ragioni dell’anti-imperialismo –e ne vede lo snodo per una possibilità di superamento e di sganciamento dal
capitalismo– non può restare indifferente con quanto accade a Teheran e soprattutto ha il dovere di capire bene con chi schierarsi in questa fase.
Francesco Labonia