Israele-Turchia: la crisi e le implicazioni regionali di Aymeric Chauprade
Articolo pubblicato su Marine n. 233 problema e Oceani, dicembre 2011: Israele-Turchia La crisi e le implicazioni regionali (Medio Oriente, Unione Europea)
tradotto da Giuseppe Germinario_ In calce il testo originario
La Turchia, contro la prospettiva di diventare membro della NATO (ingresso effettivo nel 1952), è stato il primo paese musulmano a riconoscere Israele nel 1949. Era, durante tutta la Guerra Fredda, un caposaldo militare del sistema americano in Eurasia. Nei primi anni ’90, la geopolitica degli Stati Uniti le ha conferito un ruolo ancora più grande: diventare il paese tutelare di un Grande Medio Oriente Americano e continuare a sostenere Israele contro il nazionalismo arabo; prevenire la formazione di una Europa potente e indipendente, integrandola nell’Unione europea; contenere l’influenza della Russia nel Caucaso e nell’Asia centrale turcofona, sostenere il separatismo uiguro nel Turkestan cinese e, infine, aiutare Washington a scapito di Mosca, ner controllare le strade di accesso per il petrolio e il gas dal Mar Caspio e dell’Asia centrale.
Ma nel mezzo degli anni ’90, apparvero i primi segnali premonitori di una Turchia islamista non racchiusa semplicemente nel ruolo di alleato geopolitico degli Stati Uniti. Necmetin Erbakan e il suo partito (Refah) tentò all’interno una rottura radicale con il kemalismo; comportò all’esterno l’ostilità nei confronti dell’Occidente (“Non siamo occidentali, noi non siamo europei”) e di quel “club cristiano sotto influenza massonica” che a suo parere rappresentava l’Unione europea.
Ahmet Davutoglu, il brillante ministro degli Esteri di Erdogan è oggi il difensore più emblematico di questo nuovo approccio turco alle relazioni internazionali fondato sullo “scontro di civiltà”.Rompendo con la politica dello stato-nazione e cercando di far rivivere l’Impero, Davutoglu vuole restaurare lo splendore ottomano. Ciò richiede, almeno apparentemente, il sacrificio del rapporto con Israele.
Dieci anni dopo gli importanti accordi bilaterali di difesa fra Tel Aviv e Ankara, dal 2006 e quindi dalla vittoria elettorale dell’AKP, il partito turco islamico, le relazioni tra i due paesi iniziano a complicarsi. In quell’anno, infatti, la Turchia decide di ospitare il leader di Hamas, Khaled Meshaal. Il 30 gennaio 2009, a Davos (Svizzera), il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan interpella brutalmente il presidente israeliano Shimon Peres su Gaza. L’ 8 Aprile 2010, lo stesso Erdogan addita Israele come la “principale minaccia per la pace in Medio Oriente”. Il 17 maggio, 2010, Israele condanna violentemente l’accordo nucleare firmato da Iran, Turchia e Brasile. Successivamente, lo stesso mese irrompe l’affare della flottiglia “umanitaria” che cerca di rompere l’embargo su Gaza con diverse vittime turche. Il 31 Maggio 2010, la Turchia richiama il proprio ambasciatore e avverte Tel Aviv delle conseguenze irreparabili nel rapporto tra i due paesi. Da allora, le relazioni tra i due alleati strategici passano di male in peggio. Israele rifiuta le giustificazioni (per non esporre i suoi soldati a conseguenze penali) e la Turchia insiste per ottenere scuse e compensazioni finanziarie. A partire dal settembre 2011, la Turchia espelle l’ambasciatore israeliano in Turchia, intanto che Erdogan brandisce la minaccia di scorta militare alle navi turche che desiderano raggiungere Gaza. Israele è anche accusato dal primo ministro turco della mancanza di lealtà nell’attuazione di accordi in materia di difesa; secondo lui gli israeliani rifiuterebbero di consegnare i droni venduti ai turchi e lasciati in manutenzione presso di loro. Il 6 settembre 2011, il primo ministro turco ha annunciato la rottura degli scambi militari con la Turchia. Israele si volge, quindi, verso la Romania e la Grecia per trovare aree di addestramento militare. Inoltre, la Marina turca riceve l’ordine di essere più “attiva e vigile” nel Mediterraneo orientale. Israele, cui interessa il proprio alleato turco e teme l’isolamento in Medio Oriente, tenta di calmare i turchi senza cedere alle loro richieste di scuse. Ehud Barak ha più volte ribadito la propria amicizia verso i turchi e la previsione che la crisi è solo temporanea. I turchi rifiutano la mediazione degli Stati Uniti, alquanto insistente, moltiplicano le dichiarazioni di sostegno ai palestinesi e di condanna della minaccia nucleare che potrebbe rappresentare Israele in Medio Oriente (Erdogan critica l’opzione nucleare di Israele, il 5 ottobre 2011, in Sud Africa) , accolgono recentemente una dozzina di prigionieri palestinesi liberati in cambio del rilascio del soldato israeliano Gilad Shalit.
La domanda che sorge è questa: la Turchia degli islamisti è davvero in procinto di rompere quella solida alleanza affermatasi sotto lo stato kemalista? In superficie, tutto sembra confermarlo. Tuttavia, vari elementi contraddicono le apparenze. In primo luogo, gli scambi commerciali non hanno cessato di crescere fra Israele e la Turchia dopo l’importante accordo di libero scambio sottoscritto tra i due Paesi nel 1997, ulteriormente accresciuti dall’inizio del 2011. In secondo luogo, sul piano geopolitico, la strategia neo-ottomana elaborata da Ahmet Davutoglu è diretta piuttosto contro l’influenza di Iran, Egitto e Arabia Saudita nel mondo arabo che contro Israele. Con la primavera araba e la ricomposizione del Medio Oriente, si gioca una competizione sorda ma intensa tra le potenze arabe sunnite, il polo iraniano e quello turco. Israele e Turchia sono uniti dallo stesso desiderio di bloccare le spedizioni iraniane di armi alla Siria. La Turchia contende a Iran, Egitto e Arabia Saudita, l’influenza sui palestinesi a Gaza. Ankara tenta di affermarsi come il modello di “saggio governo islamico” difeso dai Fratelli Musulmani in molti paesi arabi sunniti. Nulla vieta, quindi, l’ipotesi di un commedia in maschera israelo-turca, con l’obiettivo comune di contrastare l’influenza di Iran e Arabia Saudita, di trattenere l’Egitto nel trattato pace con Israele, incoraggiando la nascita di un governo “soft” incapace di impegnarsi in una grande politica di influenza. Siamo, ancora una volta, in una discussione del tipo “continuità o rottura? “. Nei discorsi e negli atti diplomatici la rottura israelo-turca è evidente. Ma nel mondo dell’intelligence, delle azioni occulte e delle intenzioni geopolitiche profonde, nulla è certo.
La nostra ipotesi è che la nuova politica neo-ottomana avrà un impatto maggiore piuttosto sul posizionamento dei turchi sui progetti degli europei, sull’Unione europea, sull’Unione per il Mediterraneo, che sulle relazioni con Israele. L’Unione del Mediterraneo non esiste più dalla fine dei regimi di Ben Alì e Mubarak, poiché poggiava soprattutto sulle relazioni personali di questi due presidenti con il presidente francese. Quanto all’Unione europea, impelagata nelle proprie contraddizioni economiche (differenze di livello economico tra i membri) non può più permettersi di aggiungere ad esse le sue contraddizioni geopolitiche (la Turchia non appartiene alla civiltà europea) . Se l’UE sopravvive alla crisi economica attuale, dovrà probabilmente rifondarsi su basi economiche e geopolitiche più coerenti. Si deve quindi guardare alla Turchia come a un grande paese emergente che, come il Brasile, avrà sempre più un proprio gioco e cercherà di svolgere il suo disegno neo-ottomano in direzione dei Sunniti del mondo arabo, proponendo un Islam “saggio”, in opposizione al wahhabismo saudita, e con un ruolo di mediazione in Asia centrale e Iran. La sottigliezza del gioco turco implica il mantenimento, anche in modo sotterraneo e dietro la facciata dell’ideologia islamica e pro-palestinese, della carta strategica israeliana.
Aymeric Chauprade
Responsabile del sito www.realpolitik.tv , Chauprade Aymeric ha di recente pubblicato (Settembre 2011), Cronaca dello scontro di civiltà, ed. Chronique. Un atlante di geopolitica che offre un quadro coerente delle sfide geopolitiche contemporanee.
La crise Israël-Turquie et les conséquences régionales
Publié le 13 décembre 2011 par Aymeric Chauprade
Article paru dans le n° 233 de Marines et océans, décembre 2011 : La crise Israël-Turquie et les conséquences régionales (Moyen-Orient, Union européenne)
La Turquie, contre la perspective de devenir membre de l’OTAN (admission effective en 1952), fut le premier pays musulman à reconnaître Israël en 1949. Elle fut, tout au long de la Guerre froide, une forteresse militaire du dispositif américain en Eurasie. Au début des années 1990, la géopolitique américaine lui alloua un rôle encore plus important : devenir la puissance tutélaire d’un Grand Moyen-Orient américain et continuer à soutenir Israël contre le nationalisme arabe, empêcher la formation d’une Europe puissance indépendante en intégrant l’Union européenne, contenir l’influence de la Russie dans le Caucase et en Asie centrale turcophones, soutenir le séparatisme des Ouïghours dans le Turkestan chinois et enfin aider Washington, au détriment de Moscou, à contrôler les routes de désenclavement du pétrole et du gaz de la Caspienne et de l’Asie centrale.
Mais, au milieu des années 1990, apparurent les premiers signes précurseurs qu’une Turquie islamiste ne se laisserait pas enfermer dans le rôle d’allié géopolitique des Etats-Unis. Necmetin Erbakan et son parti (le Refah) qui tentait à l’intérieur une rupture radicale avec le kémalisme, signifia à l’extérieur son hostilité à l’Occident (« Nous ne sommes pas Occidentaux, nous ne sommes pas Européens ») et à ce « club chrétien sous influence maçonnique » que constituait à ses yeux l’Union européenne.
Ahmet Davutoglu, le brillant ministre des affaires étrangères d’Erdogan est aujourd’hui le défenseur le plus emblématique de cette nouvelle approche turque des relations internationales fondée sur le « choc des civilisations ». En rompant avec la politique de l’Etat-nation et en renouant avec l’Empire, Davutoglu veut restaurer la splendeur ottomane. Ceci passe, au moins en apparence, par le sacrifice de la relation avec Israël.
Dix ans après les importants accords bilatéraux de défense entre Tel-Aviv et Ankara, à partir de 2006 donc et la victoire électorale de l’AKP, le parti islamiste turc, les relations entre les deux pays vont se compliquer. Cette année là en effet, la Turquie décide d’accueillir le dirigeant du Hamas Khaled Mechaal. Le 30 janvier 2009, le Premier ministre turc Recep Tayyip Erdogan, à Davos (Suisse), interpelle violemment le président israélien Shimon Peres à propos de Gaza. Le 8 avril 2010 le même Erdogan désigne Israël comme « principale menace pour la paix au Proche-Orient ». Le 17 mai 2010, Israël rejette violemment l’accord sur le nucléaire signé par l’Iran, la Turquie et le Brésil. Puis, le même mois arrive l’affaire de cette flottille « humanitaire » qui tente de rompre l’embargo sur Gaza et fait plusieurs victimes turques. Le 31 mai 2010, La Turquie rappelle son ambassadeur et prévient Tel-Aviv de conséquences irréparables dans la relation entre les deux pays. A partir de ce moment, les relations entre les deux alliés stratégiques vont de mal en pis. Israël refuse de s’excuser (pour ne pas exposer ses militaires à des poursuites judiciaires) et la Turquie s’obstine à obtenir excuses et compensations financières. Début septembre 2011, la Turquie expulse l’ambassadeur d’Israël en Turquie tandis qu’Erdogan brandit la menace de faire escorter militairement les navires turcs qui voudraient atteindre Gaza. Israël est aussi accusé par le Premier ministre turc de manquer de loyauté dans l’application des accords de défense ; selon lui, les Israéliens refuseraient de rendre les drones qu’ils ont vendu aux Turcs et qui sont en maintenance chez eux. Le 6 septembre 2011, le Premier ministre turc annonce la rupture des échanges militaires avec la Turquie. Israël se tourne alors vers la Roumanie et la Grèce pour y trouver des terrains militaires d’entraînement. Par ailleurs, la marine turque reçoit l’ordre d’être plus « active et vigilante » en Méditerranée orientale. Israël, qui tient à son allié turc et craint l’isolement au Moyen-Orient, tente de calmer les Turcs sans céder pour autant à leurs exigences d’excuses. Ehud Barak n’a de cesse de réaffirmer son amitié aux Turcs et de prédire que la crise n’est que passagère. Les Turcs refusent la médiation américaine, pourtant insistante, multiplient les déclarations de soutien aux Palestiniens et de condamnation de la menace nucléaire que représenterait Israël au Moyen-Orient (Erdogan fustige encore l’Israël nucléaire, le 5 octobre 2011, en Afrique du Sud), accueillent dernièrement une dizaine des détenus palestiniens relâchés en échange de la libération du soldat israélien Gilad Shalit.
La question qui se pose est donc la suivante : la Turquie des islamistes est-elle réellement en train de briser une alliance solide nouée sous l’Etat kémaliste ? En apparence, tout semble l’indiquer. Pour autant, plusieurs éléments contredisent cette apparence. En premier lieu, les échanges commerciaux n’ont cessé de croître entre Israël et la Turquie depuis l’important accord de libre-échange signé entre les deux pays en 1997, et y compris très fortement depuis le début de l’année 2011. En second lieu, sur le plan géopolitique, la stratégie néo-ottomane pensée par Ahmet Davutoglu est tournée davantage contre l’influence de l’Iran, de l’Egypte et de l’Arabie Saoudite dans le monde arabe que contre Israël. Avec les printemps arabes et la recomposition du Moyen-Orient, il se joue une compétition sourde mais intense entre les puissances arabes sunnites, le pôle iranien et le pôle turc. Israël et la Turquie restent unis par la même volonté de bloquer les livraisons d’armes iraniennes à la Syrie. La Turquie dispute à l’Iran, l’Egypte et l’Arabie Saoudite leur influence sur les Palestiniens de Gaza. Ankara tente de s’imposer comme le modèle de « gouvernement islamique sage » défendu par les Frères musulmans dans de nombreux pays arabes sunnites. Rien n’interdit donc l’hypothèse d’une comédie israélo-turque de façade entre Israéliens et Turcs, avec pour objectifs communs de contrer l’influence de l’Iran et de l’Arabie Saoudite, de maintenir l’Egypte dans le traité de paix avec Israël en favorisant l’émergence d’un gouvernement « mou » qui n’entreprendrait pas de grande politique d’influence. Nous sommes, là encore, dans un débat de type « continuité ou rupture ? ». Dans le discours et les actes diplomatiques, la rupture israélo-turque est évidente. Mais dans le monde du renseignement, des actions occultes et des intentions géopolitiques profondes, rien n’est moins sûr.
Notre hypothèse est que la nouvelle politique néo-ottomane va avoir davantage d’impact sur le positionnement des Turcs par rapport aux projets des Européens, l’Union européenne, l’Union pour la Méditerranée, que par rapport à Israël. L’Union pour la Méditerranée n’existe plus depuis la fin des régimes Moubarak et Ben Ali puisqu’elle reposait largement sur les relations personnelles de ces deux présidents avec le président français. Quant à l’Union européenne, rattrapée par ses importantes contradictions économiques (différences de niveau économique entre les membres) elle ne peut plus désormais se payer le luxe d’y ajouter ses contradictions géopolitiques (la Turquie n’appartient pas à la civilisation européenne). Si l’Union européenne survit à la crise économique actuelle, elle se refondera probablement sur des bases économiques et géopolitiques plus cohérentes. Il faut donc regarder la Turquie comme un grand pays émergent, qui, comme le Brésil, aura de plus en plus son jeu propre et qui va chercher à jouer de son néo-ottomanisme en direction des Sunnites du monde arabe, en proposant notamment un islam « sage», par opposition au wahhabisme saoudien, et qui va jouer un rôle de médiation en Asie centrale et en Iran. La finesse du jeu turc devrait impliquer que soit conservée, y compris de manière souterraine, et derrière la façade de l’idéologie islamique et pro-palestinienne, la carte stratégique israélienne.
Aymeric Chauprade
Directeur du site www.realpolitik.tv, Aymeric Chauprade vient de publier (septembre 2011), Chronique du choc des civilisations, éd. Chronique. Un atlas de géopolitique qui offre une vision globale et cohérente des défis géopolitiques contemporains.