ITALIA DÉCADENCE a cura di G.P.
La decadenza della società italiana è iniziata molto prima di questa crisi, pertanto non ci si può nemmeno aggrappare all’attuale situazione di debacle sistemica generale per giustificare il collasso dinnanzi al quale ci troviamo. Tutt’altro, c’è pure da sperare che proprio a causa di quest’ultimo si muova finalmente qualcosa per ridare slancio ad una nazione senza più identità che vive di remotissime magnificenze ingiallite dal tempo.
Il disfacimento dell’Italia parte da molto lontano, da quel colpo di mano giudiziario chiamato impropriamente “Mani pulite” con il quale furono sovvertiti gli assetti di potere consolidatisi nella fase bipolare, poi ritenuti inadeguati a sostenere i piani della potenza centrale che si apprestava ad entrare in un lungo secolo unipolare, fortunatamente smentito dai fatti odierni.
Dopo quel golpe non ci siamo più ripresi, né politicamente, né economicamente, né socialmente tanto che oggi la melma ci ha completamente sommersi. Il campo sul quale dovremmo riprovare a far nascere qualcosa si è inaridito e su questa terra desertificata solo qualche “fiore di plastica” può sopravvivere. La metafora non è mia ma di Marcello Veneziani che dalle pagine di Libero fa una descrizione impietosa, quanto veritiera, della situazione nella quale versa la nostra nazione, a tutti i livelli dirigenziali. Come dire, il pesce olezza sempre dalla testa.
Lo riporto integralmente perché è quasi tutto condivisibile. Tuttavia, di fronte all’orrore nel quale ci troviamo il vittimismo non è l’arma migliore per dare una svolta al nostro “tristo destino”. L’Italia deve tornare a rimboccarsi le maniche ma per far ciò dovrà provvedere, prima di tutto, a liberarsi della parte preponderante della sua classe dirigente (politica, economica, culturale), ancor egemone, che l’ha svenduta al peggior offerente per proprio misero tornaconto. Quest’ultima è il prodotto di un connubio nefasto che ha come attori principali i peggiori politicanti di regime e l’intero establishment economico-finanziario (imprese assistite e finanza parassitaria). A sostegno di essa ha poi agito una classe di intellettuali sottomessi e di agit-prop lautamente pagati che ne hanno decantato le misere gesta, ottenendo in cambio fama e "salario". La torta è stata così interamente spartita. Ha ragione Veneziani, i responsabili sono molti, ma, ad ogni modo, le colpe maggiori devono ricadere su quei decisori politici che guidarono la transizione dei primi anni ’90. I peggiori arrivisti senza scorza ebbero in mano le redini dell’Italia facendo e disfacendo a comando, per ricavarne solo briciole di sopravvivenza. Uomini senza pudore che mentre colpivano a morte la società italiana si ammantavano di modernismo e di moralità, blaterando di rinascita e di lotta alla corruzione. I risultati sono tutti sotto i nostri occhi.
Dopo tre lustri di agonia, la politica italiana è deceduta. Al suo posto c’è Berlusconi, e quel che sopravvive della politica si divide pro e contro di lui, più sparsi sciacalli in attesa che si allontani per rubarne il patrimonio. La sabbia del deserto ha coperto le sue macerie come nei palazzi d’Abruzzo. Gli intellettuali hanno paura delle parole forti, preferiscono chiamarla “interminabile transizione”; ma anche questa è un’espressione spenta e ripetitiva, vecchia di cent’anni e forse più. Quando non si sa come descrivere il vuota della politica si ricorre alla parola transizione. Pochi giorni fa Galli della loggia, prendendo lo spunto da un saggio di Aldo Schiavone, L’Italia contesa (edito da Laterza), ha celebrato messa sul Corriere della sera, in memoria della politica, sostenendo che essa non riesce a esprimere il nuovo perché non sa fare i conti col passato, né vera autocritica, va a forza d’inerzia; insomma è ancora schiava del passato. Anziché buttarlo sul cordoglio, lasciate che per una volta almeno io spenda una parola, non dico in difesa della politica, che è indifendibile, ma della sua esclusiva responsabilità di questo degrado. Non credo che un paese moderno sia guidato solo dalla classe politica, non siamo né uno stato socialista né un protettorato [qui ho qualche dubbio, G.P.]; credo invece che un paese normale abbia una classe dirigente formata da politici, magistrati, dirigenti pubblici e manager privati, poteri economici e poteri culturali, soprattutto nei media. Insieme formano la classe dirigente e concorrono a dare una linea, un’immagine e un contenuto all’Italia. Bene, guardando agli altri soggetti citati, chiedo a Galli della Loggia e a Schiavone, firme accademiche delle due principali corazzate della stampa italiana: ma le altre caste dirigenti sono forse più avanti, esprimono il nuovo, selezionano nuove elite, emanano idee, progetti, programmi? No, signori. Io vedo un paese che si arrangia, a volte con punte di creatività e sforzi notevoli, a volte ricadendo indietro, nell’accidia e nello sconforto, più spesso nel malaffare. Ma non vedo una classe che lo guidi nei campi pubblici e privati. Dall’economia alla finanza, dalla cultura ai mass media. Il potere ha abdicato al ruolo di guida, domina ma non dirige, lucra ma non educa, non indica, non promuove. Non è onesto prendersela solo con i ritardi della politica o ridere su come si è ridotta la sinistra alla povertà franceschina [o anche francescana, se pensiamo a quella più estrema che straparla di decrescita ed è sempre contro tutto ciò che sa di moderno, G.P.].
La salute della finanza
Ditemi voi in che condizioni sono
Non c’è un progetto
La politica fa pena, lo scriviamo quasi ogni giorno; ma non è la sola. Qui manca una classe dirigente, ci sono solo caste dominanti. Mancano minoranze costituenti, eccellenze riconosciute e attive che possano suscitare passione civile e comunitaria, voglia di progetti e di memorie fino a contagiare la politica. Non credo all’autonomia della politica, tantomeno all’autocrazia o almeno all’autodeterminazione della politica. Se i campi affini non danno frutti, la politica deperisce insieme a loro; sono vasi comunicanti. Non usate pure voi la parola magica: è il berlusconismo che ha raso al suolo idee e imprese. No, il contrario: nel deserto non possono nascere fiori dalla terra arida, ma si possono piantare solo fiori di plastica. Non è un caso che Berlusconi fiorisca proprio sul collasso dei settori vitali del paese: lui è al crocevia preciso tra politica e magistratura, imprenditoria e comunicazione. Nel deserto dei tartari non vedo tenenti Drogo né fortezze Bastiani, ma solo sabbia: negli edifici pubblici e privati dell’Abruzzo ma anche nei palazzi pubblici e privati del potere. Sabbia, anche nelle teste di struzzo delle classi dirigenti.