KEYNES E I SUOI NEMICI ODIERNI
J. M. Keynes scelse un linguaggio piuttosto polemico per argomentare le teorie contenute nel suo più famoso saggio “La teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”. A chi prima della pubblicazione gli faceva notare che forse sarebbe stato il caso di abbassare i toni con gli economisti dominanti egli replicò: “Prevedo che buona parte di quello che scrivo scorrerà come l’acqua sul dorso delle papere se non sarò sufficientemente duro da costringere i classici a replicare. Voglio, per così dire, sollevare un polverone; perché solo dalla controversia che nascerà riuscirò a far comprendere quello che dico.”
Keynes aveva ragione perché costoro erano talmente sicuri dei propri dogmi che mai si sarebbero aperti a scelte differenti, nonostante le difficoltà di quei tempi “rovinosi”. Di fatti, benché le loro ricette si rivelassero inadeguate a dare risposte concrete alla crisi in corso, costoro stroncarono immediatamente le novità introdotte da Keynes. Per esempio Pigou che così reagì al libro di Keynes: “Come è potuto accadere che un autore le cui capacità espositive gli hanno consentito di scrivere sulla filosofia della probabilità in modo tale da farsi comprendere anche dai non professionisti … quando si occupa del tema al quale ha dedicato la sua massima attenzione è scarsamente intelligibile a molti – io non sono il solo in questa condizione – dei suoi colleghi nella professione? Abbiamo visto un artista che scaglia le sue frecce alla luna. Qualunque cosa si pensi della precisione della sua mira, non possiamo non ammirare il suo virtuosismo.”
Ricorda giustamente Gianfranco La Grassa che :”Nel ’29, a crisi scoppiata, l’economista liberista “tradizionale”, Cecil Pigou, adduceva come causa della stessa proprio l’eccessivo innalzarsi delle paghe salariali. Rispose pressoché subito Keynes adducendo tesi di fatto opposte; una carenza di domanda “privata” (per gonfiamento dei risparmi in una società ad alto reddito). In modo paradossale, per far meglio capire ai “ritardati” ciò che voleva sostenere, disse perfino che sarebbe stato utile assumere operai per scavare buche e poi ricoprirle. Ci sarebbe stata una più alta massa salariale, utile per accrescere la domanda. Ci poteva essere un iniziale aumento dell’inflazione, ma si sarebbe rimessa in moto la macchina produttiva, inattiva appunto per la caduta della domanda e quindi si sarebbe trattato di un fenomeno transitorio (mentre, se continuava la crisi, ci sarebbe stato un crollo dei prezzi e un avvitarsi a spirale della stessa). Il New Deal in ogni caso si diede alla crescita della spesa (domanda) pubblica, con grandi opere infrastrutturali. Tuttavia, il rimedio era solo temporaneo. Infatti già nel ’36, e negli anni successivi ancor di più, la ripresa fu in fase evidente di arenamento. Fu la guerra a risolvere definitivamente la crisi”.
Anche economisti un po’ meno ortodossi come Schumpeter presagivano una vita breve alle idee di Keynes che sembravano essere quella di “una civiltà in decadenza”. Non parliamo di altri come von Mises, o qui da noi Einaudi, i quali appena sentivano dire di intervento dello Stato avevano apparizioni demoniache. Sappiamo che tutti costoro si sbagliavano, almeno in quella contingenza storica di grande rimescolamento dei rapporti di forza tra potenze (chi in ascesa e chi in declino) in cui l’azione pubblica era la sola alternativa per non far precipitare le economie dei vari Paesi in crescente difficoltà.
Oggi ci ritroviamo, mutatis mutandis, in una situazione di gravità molto simile anche se non equivalente a quella descritta. Parlando dell’Italia è urgentissimo che lo Stato risollevi l’economia stimolando quegli investimenti strategici e infrastrutturali che i privati non sono in grado di attivare. Lo Stato deve dunque riprendersi un ruolo di volano non in concorrenza con i privati ma aggiuntivo alle attività di questi. Non si tratta di statalizzare tutto ma di creare quel circolo virtuoso economico che i mercati da soli non sono in grado di realizzare con la loro innata anarchia. Non si propone nulla di tanto diverso rispetto a quanto già accaduto decenni or sono eppure di nuovo i liberisti vedono avanzare un’armata delle tenebre statali all’orizzonte che vuole spegnere gli animal spirits imprenditoriali. Ma loro, al cospetto di tanta drammaticità, ora accelerata anche da una pandemia imprevista, cosa propongono? Di abbassare le tasse. Tutta la loro scienza si riduce ad un infuso di niente. Specifichiamo meglio un concetto. Nel capitalismo le crisi sono soprattutto da domanda, non da penuria in seguito a carestia, e se i beni restano invenduti non è producendo di più che si esce dal disagio, semmai lo si fa permettendo ai consumatori di svuotare negozi e magazzini con mezzi aggiuntivi, anche attraverso aiuti dello Stato, il quale a sua volta deve investire in mega opere utili a rilanciare il sistema. E’ la domanda complessiva dei privati (consumi più investimenti) che non sta dietro allo sviluppo. E’ quindi la debolezza di questa domanda complessiva la causa reale della crisi. Come conferma La Grassa, “ Se vi è relativa debolezza della domanda privata (di beni di consumo e di investimento), è necessario che lo Stato effettui una sua spesa (pubblica) che vada a sommarsi a quella dei singoli cittadini, una spesa che quindi supplisca alla deficienza di quella dei privati. Ecco la ragione dell’intervento statale in economia… Lo Stato spende, cioè effettua domanda apprestando le opere infrastrutturali già considerate. Il problema che si pone è però: di che tipo di spesa deve trattarsi? Secondo i principi tradizionali (oggi ripresi con vigore) del mantenimento di un pareggio del bilancio statale (o almeno di un deficit da contenersi il più possibile), lo Stato, se vuol spendere di più, deve dotarsi dei mezzi a ciò necessari tramite un accrescimento dell’imposizione fiscale. Così agendo, però, si provoca la diminuzione del reddito dei cittadini, e dunque della loro domanda, al fine di accrescere la domanda pubblica. I conti non tornano. Si dà con una mano e si toglie con l’altra. La domanda (spesa) statale deve essere in deficit di bilancio. E nemmeno è possibile che lo Stato, per poter spendere, accresca il suo debito con l’emissione di titoli (i bot ad es.) perché, ancora una volta, si sottrarrebbe reddito ai privati, indebolendo così la loro domanda per rafforzare quella pubblica. Puramente e semplicemente, si stampa moneta e la si mette in circolazione comprando i fattori produttivi che servono per compiere le varie opere pubbliche. Secondo la tradizionale teoria quantitativa della moneta, quando lo Stato mette in circolazione una massa di moneta superiore, i prezzi delle merci salgono (inflazione). Secondo la teoria keynesiana ciò è vero solo nel caso che i fattori produttivi (lavoro e capitale) siano pienamente occupati e non si possa perciò accrescere, almeno nel breve periodo (in mancanza di aumento delle potenzialità produttive dovuto ad investimenti e nuove tecnologie), la quantità prodotta e offerta. Quando invece c’è la crisi, i fattori sono disoccupati; ma, come sopra considerato, è essenziale che lo sia il lavoro così come il capitale (mezzi di produzione); debbono esserci milioni di lavoratori a spasso e migliaia di imprese chiuse, ma potenzialmente in grado di riaprire i battenti, con macchinari che hanno solo bisogno di essere lubrificati e rimessi in movimento. L’importante è solo che riparta la domanda dei beni, perché allora le imprese riprendono a produrre, riassumendo forza lavoro. La spesa pubblica per infrastrutture, insomma, dà impulso all’attività di una serie di imprese che debbono – tanto per fare un esempio – fornire cemento, acciaio, vetri, infissi, mobilio, ecc. per costruzioni edili. E queste imprese debbono assumere lavoro (dirigente come esecutivo) per produrre; così facendo, distribuiscono salari a lavoratori prima disoccupati, che cominceranno a domandare beni prodotti, a loro volta, da altre imprese. Anche queste allora si riattivano, acquistando beni di produzione e pagando salari ad altri lavoratori prima disoccupati che, con il salario percepito, domandano altri beni di consumo e …..via di questo passo, in un circolo ora virtuoso di ripresa economica”.
Leggete la lettera manifesto dei professoroni qui sotto e capirete come stiamo messi. Almeno Keynes si confrontava con Pigou, noi invece siamo costretti ad ascoltare quella fucina di cretini che è la scuola liberale italiana, piena di “bocconi” indigesti e priva persino di poche pillole di saggezza.