LA CINA VERSO UN NUOVO “DISPOTISMO”? E SE FOSSE COSI’ QUANTO POTREBBE DURARE?
Sul numero 1150 della rivista Internazionale è apparso un articolo ripreso da The Economist (UK) che parla della presunta svolta autoritaria intrapresa dall’attuale leader cinese: Xi Jinping. Si accenna a due interventi anonimi apparsi su organi giornalistici istituzionali della carta stampata e del web. Nel primo troviamo scritte, in relazione alle limitazioni alla libertà d’espressione che il presidente cinese starebbe portando avanti, le seguenti frasi: <<La capacità di esprimere liberamente le proprie opinioni ha spesso determinato l’ascesa e la caduta delle dinastie […]. Non dobbiamo avere paura delle persone che dicono le cose sbagliate, dobbiamo avere paura delle persone che non parlano>>. Il secondo, scritto come lettera aperta, inizia con un saluto: “Salve, compagno Xi Jinping. Siamo fedeli iscritti al Partito comunista” e prosegue con una dura critica per l’abbandono del sistema della leadership “collettiva”del partito, per aver accentrato troppo potere ed avere emarginato il primo ministro Li Keqiang, contribuendo con le sue scelte a favorire l’instabilità del mercato azionario e di quello immobiliare. Nella conclusione, infine, viene accusato della distorsione del ruolo dei mezzi d’informazione e addirittura di riproporre una nuova versione del “culto della personalità”. Xi Jinping, leader del partito dal 2012, apparteneva alla categoria dei “principini”, come in Cina vengono chiamati i rampolli della prima generazione di leader comunisti (il padre di Xi fu vicepremier ai tempi di Mao). Ora, per usare le parole dell’ australiano Geremie Barmé, Xi è il “pdt” della Cina: il presidente di tutto. Come i suoi due predecessori, Hu Jintao e Jiang Zemin, è allo stesso tempo leader del partito, comandante in capo delle forze armate e capo dello stato. Ma ha accumulato anche una serie di titoli che gli altri due non avevano, come quello di capo di una commissione creata per varare “riforme organiche” e di un’altra preposta al controllo delle agenzie di sicurezza del paese. Secondo The Economist, Hu Jintao risultò essere una sorta di leader “ingessato” , ma anche Jiang Zemin, quando era al potere, aveva dovuto inchinarsi al suo predecessore, Deng Xiaoping; e perfino Deng si era mosso con prudenza per paura di contrariare gli altri anziani del partito. Xi, al pari di Mao, non sembra avere di queste preoccupazioni. Egli ha riportato in auge un termine coniato a suo tempo da Deng per descrivere i leader forti come lui e Mao: hexin, il fulcro. Quest’anno i mezzi d’informazione ufficiali hanno riferito di numerosi leader provinciali che si sono inchinati al presidente, proclamandolo l’hexin del partito. Incoraggiando questa piaggeria Xi, secondo alcuni, violerebbe la norma che vieta “ogni forma di culto della personalità” una norma introdotta nel 1982 per “scongiurare un ritorno al caos e alla violenza scatenati dalla venerazione di Mao”. The Economist insiste sul fatto, che a noi pare molto dubbio, della capacità che avrebbe avuto Deng di inaugurare una “leadership di eguali”. In realtà il “piccolo timoniere” mantenne le leve del potere, in particolare di quello militare, integralmente nelle sue mani per un lunghissimo periodo assumendo tutte le decisioni importanti anche se spesso defilandosi, apparentemente, dietro le quinte. Ritornando all’attuale leader alcuni analisti avrebbero notato che quando si tratta di questioni politiche di alto livello, Xi è spietato e spregiudicato, e ama il rischio. Sulle questioni sociali, invece, diventa più prudente. Sull’economia non ha le idee molto chiare: la sua politica economica è confusa e costellata di errori. Noto per il suo passato in cui si era distinto, dal 2002 al 2007, per la sua vigorosa battaglia contro i funzionari corrotti – quando era a capo della provincia costiera dello Zhejiang – Xi intraprese una campagna, questa volta nazionale, contro la corruzione nel 2012, subito dopo essere stato nominato presidente. Ovviamente la stampa liberale anglosassone, senza dirlo apertamente, allude in qualche maniera alle “purghe” staliniane e maoiste quando riporta certe cifre: <<Nel 2015 le autorità dicono di aver sanzionato 336mila funzionari, la cifra più alta da vent’anni. Il numero delle persone incarcerate continua a crescere. Piuttosto che affrontare i brutali inquisitori del partito, che fanno a meno di inutili fronzoli come la presenza degli avvocati, qualcuno ha preferito togliersi la vita>>. E così si finisce, inevitabilmente, per glissare sulle enormi dimensioni e l’autentica consistenza della corruzione che un “baraccone” come quello del Partito-Stato cinese effettivamente comporta. E ancora una volta The Economist plaude a Deng e ai “denghiani”:<< Nel tentativo di attirare militanti e ricostruire il partito, Deng e i suoi successori spesso chiudevano un occhio quando i funzionari si riempivano le tasche. I giri di vite di solito duravano poco e raramente toccavano i pezzi grossi>>. Ma anche in questo caso si trascura l’essenziale; in omaggio al suo famoso motto: “non importa se i gatti sono rossi o neri l’importante è che prendano i topi”, Deng poteva tollerare che funzionari e dirigenti capaci si prendessero una fettina della torta ma sicuramente era in prima fila quando si trattava di eliminare i parassiti e gli inetti che avevano assunto ruoli importanti senza meritarlo. In effetti, però, questo lavoro di epurazione, che ha riguardato in misura massiccia anche l’esercito, ha creato un clima di panico all’interno della burocrazia e delle gerarchie militari con un rallentamento del funzionamento dell’apparato a causa del timore di prendere iniziative e di commettere errori. Anche gli intellettuali, gli opinionisti, le associazioni indipendenti e i mass media sembra siano ora sottoposti a maggiori controlli; ciò nonostante alcuni organi di informazione, collegati a personalità di spicco del settore economico e appoggiate da lobbies importanti, hanno provato a sfidare l’establishment ma sono stati censurati e repressi. Sulle politiche sociali, invece, Xi starebbe provando ad accreditarsi come un “progressista”, anche se con prudenza. Ne sarebbero un esempio l’allentamento dei controlli sulle nascite (tutte le coppie cinesi oggi possono avere due figli anziché uno solo) e la parziale eliminazione delle restrizioni all’accesso ai servizi pubblici urbani per gli immigrati provenienti dalle zone rurali. Per quanto riguarda l’economia e, quindi, il funzionamento del mercato e delle imprese il leader cinese ha fatto riferimento spesso al ruolo “decisivo” dei mercati e dal 2015 ha cominciato a parlare di riforme “dal lato dell’offerta”, evidenziando, tra le righe, la necessità di riorganizzare le aziende di stato cinesi, le soe, spesso inefficienti, indebitate e sovradimensionate. The Economist rileva ancora che, mentre per quanto riguarda la liberalizzazione dei prezzi e dei tassi di cambio e di interesse qualcosa è stato fatto, non si muove ancora nulla nel settore dei carrozzoni statali. La mancanza di idee chiare sull’economia si sono evidenziate un anno fa quando le autorità politico-finanziarie, compreso Xi, hanno fatto salire la borsa con le loro dichiarazioni e poi hanno provato, invano, a evitarne il crollo in estate. Hanno anche tentato di introdurre, per poi subito ritirarle, alcune misure per combattere l’andamento altalenante delle borse: i cosiddetti “interruttori di circuito”. Si trattava essenzialmente di un freno di emergenza che avrebbe interrotto le contrattazioni per quindici minuti, qualora un titolo cinese fosse salito o sceso improvvisamente del 5%. Le difficoltà nel gestire l’economia e la finanza, e qui si può convenire con l’articolo, derivano fondamentalmente dal forte rischio di destabilizzazione del sistema che conseguirebbe all’allentamento del potere centrale e alla realizzazione di riforme come quella delle soe che rischia di causare la perdita di milioni di posti di lavoro. Incertezze e interessi contrastanti portano ad una leadership confusa per cui il giornale inglese nel tirare le conclusioni, del tutto funeste, per il futuro cinese così si esprime:
<<Nei regimi autoritari se l’uomo al comando commette degli errori, questi diventano ancora più gravi perché è difficile che qualcuno li corregga. Ne abbiamo avuto la prova con la débâcle della borsa. Un’altra implicazione è che non è più ragionevole considerare la Cina un modello di paese autoritario che si apre economicamente senza farlo politicamente. Xi ha rafforzato il controllo sul sistema politico, ma la liberalizzazione dell’economia si è fermata. Al momento le due procedono a braccetto nella direzione sbagliata, a danno della Cina. La terza è che la politica di Deng di “mettere al centro l’ economia” non è più il principio guida del paese. Per Xi, la politica viene sempre prima>>.
Dire che per Deng le questioni dell’ economia risultassero preminenti rispetto alle scelte politiche mi sembra sostanzialmente errato. Durante il periodo della sua direzione del paese egli mantenne un controllo ferreo e quando necessario violento di tutte le istanze decisive della società anche se bisogna ammettere che il problema dello sviluppo e della crescita economica è stato al centro della sua politica. La finalità delle riforme di Deng era riassunta nel programma delle Quattro Modernizzazioni: agricoltura, industria, scienza e tecnologia, apparato militare. La strategia da usare per conseguire l’obiettivo di una nazione moderna, industriale era la cosiddetta “economia socialista di mercato”. Deng argomentò che la Cina si trovava nello stadio base del socialismo e che il dovere del partito era di perfezionarlo facendolo diventare un “socialismo con caratteristiche cinesi”. Questa nuova interpretazione cinese dello sviluppo socialista ridusse il ruolo e il peso dell’”ideologia” nelle decisioni economiche allo scopo di migliorare l’efficacia delle linee di condotta da seguire. Deng pose in risalto l’idea che socialismo non significa povertà condivisa. La giustificazione teorica che fornì per consentire l’apertura al mercato capitalistico fu questa:
<<Pianificazione e forze di mercato non rappresentano l’essenziale differenza che sussiste tra socialismo e capitalismo. Economia pianificata non è la definizione di socialismo, perché c’è una pianificazione anche nel capitalismo; l’economia di mercato si attua anche nel socialismo. Pianificazione e forze di mercato sono entrambe strumenti di controllo dell’attività economica.(1)>>
Per concludere mi sembra, personalmente, che nell’articolo dell’Economist vengano avanzate delle forti critiche al regime di Pechino con toni in buona parte propagandistici e così l’hanno letto anche le autorità cinesi che hanno applicato la censura in modo drastico (2). Sarà da valutare con l’aiuto di altre fonti se il panorama qui descritto è veramente attendibile. Ricordiamo anche che, in questa fase, l’Europa e gli Usa sono impegnate nella discussione per (non) attribuire lo status di vera e propria economia di mercato alla Cina; una scelta che avrà, comunque, ripercussioni economiche e geopolitiche rilevanti.
(1)John Gittings, The Changing Face of China, Oxford University Press, Oxford, 2005.
(2)Dopo che il 2 aprile 2016 l’Economist ha pubblicato questo articolo, per la prima volta il suo sito e la sua app sono stati bloccati in Cina. Stessa sorte è toccata al settimanale statunitense Time, che ha dedicato la copertina dell’11 aprile a Xi Jinping e al culto della personalità, simile a quello di Mao Zedong. In realtà, scrive China Digital Time, non tutti concordano sul rischio di un nuovo maoismo.[Nota all’articolo citato]
Mauro Tozzato 30.04.2016