La Confusione Climatica

di P. Pagliani

 

Da qualche tempo a questa parte si sono susseguite voci contrastanti rispetto al riscaldamento globale. Sembra ormai stabilito che la prolungata scarsità di macchie solari ha attenuato il fenomeno. C’è chi preferisce parlare di “stabilizzazione del riscaldamento globale” e fa intervenire ulteriori macro-fattori come la Niña (la corrente fredda del Pacifico). Qualcuno ne ha tratto la conferma dell’ipotesi che le attività umane sono molto poco influenti sui cambiamenti di clima. Altri richiedono moderazione perché il minor flusso energetico da parte del Sole non eliminerebbe il problema del grave e importante inquinamento antropico. Anzi, suggeriscono che si approfitti della “tregua” per impegnarsi in tecnologie più avanzate come il geotermico di terza generazione (su cui per altro pare che punti molto la Superpotenza ormai gestita dai Democratici). Infine, altri ancora pur ammettendo l’ipotesi che la Co2 non sia stata la causa del riscaldamento dell’atmosfera negli scorsi decenni, si domandano tuttavia se essa non abbia un ruolo nell’acidificazione degli oceani. E possiamo fermarci qui.

 

Ho tradotto qui di seguito la recensione apparsa sul numero 2 del 2008 del “Journal of World-Systems Research” del libro di Roy W. Spencer “Climate Confusion: How Global Warming Hysteria Leads to Bad Science, Pandering Politicians, and Misguided Policies That Hurt the Poor. [La Confusione Climatica: come l’isteria del riscaldamento globale porta a una cattiva scienza, compiacendo i politici, e ha condotto a politiche sbagliate che danneggiano i poveri] (Encounter Books, New York, 2008).

La recensione è di Florencio R. Riguera del Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica Americana di Washington. L’autore del libro recensito,  Roy W. Spencer, è invece ricercatore scientifico principale dell’Università dell’Alabama di Huntsville e U. S. Science Team Leader per l’Advanced Microwave Scanning Radiometer (AMSR-E) installato sul satellite Aqua della NASA, oltre a essere stato scienziato senior per gli studi sul clima del  Marshall Space Flight Center dell’ente spaziale americano. Spencer è principalmente conosciuto per il suo lavoro di monitoraggio delle temperature basato su satellite, per il quale ha ricevuto il Premio Speciale dell’American Meteorological Society.

In attesa di poter leggere il libro, ho ritenuto che comunque l’ampia recensione di Riguera potesse essere utile all’avanzamento della discussione in corso sul blog su questi temi.

Da essa traspare, oltre all’esplicito schieramento di Spencer tra gli scettici del “global warming” (o meglio, delle sue cause antropiche), che una delle preoccupazioni dell’autore è di carattere politico-sociale: come coerentizzare da un lato le scelte dal basso fatte (per forza di cose) da non-specialisti e dall’altro le evidenze scientifiche, se persino gli stessi specialisti sono immersi nell’incertezza e divisi in gruppi contrapposti? Come coerentizzare scelte che hanno impatto globale con bisogni, obiettivi, richieste, percezioni e stili di vita che hanno validità locale?

La risposta che sembra dare Spencer è, a mio modo di vedere, in linea col pragmatismo americano (con tutti i suoi limiti, pur sempre una nobile scuola di pensiero) dove, quasi rispettando la semeiotica di Charles Sanders Peirce, il tema di una adeguata  comunicazione e della rielaborazione dei messaggi da parte dei riceventi “laici” diventa fondamentale per una loro “scelta democratica” consapevole, unico modo per uscire dalle difficoltà sopra descritte che sono, per Spencer, “intrattabili” (un termine preso in prestito dalla teoria della computabilità e che indica problemi in linea teorica risolvibili ma la cui risoluzione effettiva va al di là delle possibilità fisiche di computazione). Per altro, l’argomentazione dell’autore mi sembra, così come è riportata dal recensore, collegata al modo con cui il mondo protestante affronta i problemi di bioetica, un approccio che rifiuta assiomi etici a priori mentre al contrario si concentra, oltre che sulla responsabilità personale, sui valori comunitari – anche locali – ma traguardando i possibili effetti di carattere generale (molto schematicamente, si ragiona per induzione o per abduzione, invece che per deduzione).

Un altro punto da sottolineare è la denuncia del velato ostracismo che colpirebbe gli scienziati che non sottoscrivono le tesi “politicamente corrette”. Tra l’altro, aggiungo io, un viziaccio tratto direttamente dall’Accademia e propagatosi nell’intera società grazie ai mass media (lo abbiamo visto all’opera con l’attacco a Gaza). Non che prima non esistesse, ma adesso viene contrabbandato come “prerogativa scientifica” con le sue declinazioni popolari di “metodo democratico” (ovviamente dimostrato ottimale in modo scientifico e pendant dell’economia politica matematizzata e, crisi o non crisi, scientifica per definizione); e giù giù tutto l’armamentario del “politicamente corretto”. Insomma, si sa come va. Ma desta sorpresa che a sentirne il peso sia uno scienziato che parrebbe ben inserito nell’establishment.

Come si vede, sono temi “metodologici” che vanno al di là della pur importante questione ecologica.

P. Pagliani

 

«Questo libro è facilmente leggibile e accessibile ai non specialisti, e tuttavia presenta questioni interessanti per l’analisi del sistema-mondo. Introduce i processi metereologici e li utilizza come contesto per i punti principali del dibattito sul cambiamento climatico. Così, individua i contributi dovuti alle attività umane e avanza chiaramente l’idea che il dibattito non riguardi in realtà l’evento del riscaldamento globale, ma piuttosto i cambiamenti e la visualizzazione delle sue conseguenze. Cita la capacità di resilienza della natura e degli esseri umani, per cui non ci sarebbe necessità di rinunciare allo stile di vita moderno che implica l’utilizzo delle risorse dell’ambiente – incluso il suo ruolo come lavandino dei suoi prodotti collaterali.

Per quanto riguarda il ciclo che porta all’effetto serra, “Climate Confusion” ipotizza che il contributo  delle attività umane sia piccolo in confronto a quello dovuto ai processi naturali e che una visione equilibrata condurrebbe a un approccio ragionevole per escogitare misure o politiche relative al riscaldamento globale.

 

La gente può avere influenza rispetto a quali beni e a quali servizi consumare (e le tecnologie necessarie a produrli – incluso i “tipi di inquinamento” che esse producono con impatto sul riscaldamento globale). Infatti gli elettori possono votare per rappresentanti che formulino politiche pubbliche accettabili o desiderabili.

Al di là della sua chiarezza e cogenza nel dissipare le paure per il cambiamento climatico, il libro mette anche in luce il problema intrattabile della incertezza nelle decisioni delle misure da prendere.

In quanto soluzioni, le politiche “dipendono largamente da un pubblico informato”. L’incertezza non riguarda soltanto l’analisi scientifica dei processi climatici. Opera anche per mezzo di ciò che attraverso l’epistemologia sociale è diventato il punto di  vista predominante. Il libro fornisce osservazioni e commenti che illustrano come gli scienziati che non sottoscrivono questa visione siano trattati in modo differente (ad esempio in un ascolto congressuale). E viene mostrato in che modo i mass media caratterizzano quelli che non sottoscrivono il punto di vista del riscaldamento globale che attualmente va  per la maggiore.

Tra le righe appare un circolo vizioso nel tentativo di dare un fondamento all’intrattabilità del problema. Se gli elettori (il pubblico) devono decidere che tipo d’inquinamento possono, per così dire, permettersi allora vanno incontro alla  difficoltà di dover giudicare quale gruppo di scienziati (ovvero, quelli che sono allarmati per il riscaldamento globale o quelli che non lo sono) presenta l’analisi più corretta del problema. Si domanda così ai profani (alcuni dei quali potrebbero essere artefici di politiche) di valutare le analisi degli specialisti! Su che base possono farlo, dato che gli specialisti stessi non sono immuni da incertezze?

Un punto correlato è la giustapposizione di ciò che è “buono per il progresso umano” a ciò che è “cattivo per l’ambiente”. Gli esseri umani vorrebbero valorizzare l’ambiente in termini dei propri interessi e dei propri valori. Ma sorgerebbero problemi a livello pratico e locale. Il gusto e le  preferenze dei consumatori di una parte del globo potrebbero impattare su popolazioni che potrebbero avere concezioni differenti dei propri interessi e del proprio benessere – per non parlare del progresso umano.

L’interconnessione degli eventi giace alla base di uno scenario dove gli esseri umani, come produttori e supervisori (piuttosto che come consumatori e inquinatori) non costituiscono un gruppo monolitico.

Ci sono interessi differenti – persino conflittuali – in giro per il globo. Quindi, calibrare ciò che è bene per gli esseri umani (per lasciar stare il progresso) in differenti contesti locali (ma nondimeno soggetti ai processi su scala globale) è un compito scoraggiante.

Climate Confusion” induce profonde domande più per le sue osservazioni e commenti sul comportamento degli attori sociali che per la sua presentazione persuasiva della scienza che si occupa di cambiamenti climatici.  Come fa il pubblico a scegliere le conoscenze “valide” e gli standard? La differenza tra scienziati che guardano alle tendenze nel futuro e quelli che prendono in considerazione effetti viziosi di retroazione – e tra di loro i meteorologi – viene alla ribalta.

La comunicazione tra gli specialisti e il pubblico (con l’inclusione dei decisori) ha una grande importanza. Detto in modo informale, gli specialisti tentano di mobilitare l’opinione pubblica che però prende forma sotto l’influenza di altri fattori piuttosto che sotto l’influenza di ciò che la scienza mostra e spiega.

Così questo libro tira in causa la teoria del sistema-mondo puntualizzando il ruolo delle posizioni locali in relazione alle cause presunte (ad esempio, la distribuzione del tipo di tecnologie utilizzate, le reazioni, i bisogni della popolazione, ecc.) delle condizioni indesiderate per l’ambiente.

Al tempo stesso, mostra che le posizioni locali sono trascese praticamente in termini  di effetti percepiti o attesi, a causa della riconosciuta interconnessione ambientale dei fenomeni. Il cambiamento climatico è un caso emblematico di questo problema proprio mentre  la resilienza e le possibilità di leapfrogging non spariscono sullo sfondo[1]. Così, facendo in modo che il pubblico in differenti sezioni del globo sia appropriatamente informato, si ha la possibilità di trasformare virtualmente le “popolazioni impattate” – quelle che possono articolare le proprie richieste e quelle che hanno qualcuno che patrocina le loro cause – in mandatari delle decisioni al di là dei confini. Ciò corrobora la visione unitaria del sistema-mondo.»

 

 [1] Leapfrogging (ovvero “salto della cavallina”) è una teoria dello sviluppo in cui le nazioni in via di sviluppo lo possono accelerare saltando il passaggio per industrie e tecnologie inferiori, meno efficienti, più care e più inquinanti. Uno dei mezzi per perseguire il leapfrogging è l’ampliamento dell’accesso alle risorse e alle tecnologie avanzate a quelle nazioni che normalmente ne sono escluse.