La Crisi e la Rivolta dei Ciompi di P. Pagliani
La metafora della nottola di Minerva che spicca il volo solo al calar delle tenebre riflette una verità popolare inoppugnabile: a cose fatte si capisce molto meglio come è andata. In altri termini, possiamo anche cercare di anticipare, presagire, intuire come andrà a finire un giallo, un dramma o una tragedia, ma alla fine lo sapremo veramente solo al calare del sipario.
Certo, se si applicano il ragionamento e l’analisi, se si interpretano appropriatamente i dati disponibili, se si vanno a cercare quelli che mancano, forse le nostre anticipazioni non saranno così discordanti dalla realtà. Specialmente se si usa qualche forma d’intuizione, soprattutto quella artistica che spesso si è dimostrata la più feconda, perché non bisogna assolutamente credere che la scoperta scientifica avvenga per assiomi, lemmi e teoremi. Quella è l’esposizione della scoperta, non il suo percorso.
Se questo è vero per le scienze matematiche e naturali, è ancor più vero per le scienze sociali. Ne segue che grazie alla distanza storica, se appena non si è accecati dall’ideologia e dalle tesi precostituite, è possibile cercare di enucleare l’essenza di avvenimenti, fenomeni, movimenti che possono essere d’interesse per cercare di capire o anticipare qualcosa del presente che, per definizione, invece non si è ancora concluso. E’ infatti quella distanza storica che ci fa comprendere meglio i contorni, i contesti, le premesse e le conclusioni degli avvenimenti, e quindi la logica del loro svolgimento. Tuttavia occorre evitare di trarne troppi insegnamenti, perché bisogna tenere conto: a) che è l’anatomia dell’uomo che spiega quella della scimmia e non viceversa, come ricordava Marx; b) che le stesse situazioni si ripresentano, sicuramente, ma con altrettanto sicurezza mai allo stesso modo, perché i contesti vengono cambiati nel corso della Storia, altrimenti saremmo sempre allo stesso punto di partenza; c) che la nostra stessa capacità d’interpretazione degli avvenimenti sociali (e non solo di quelli) è fortemente context sensitive.
Armati di questi avvertimenti, possiamo allora discutere un lontano evento storico che ha a che fare con la lotta di classe e, in generale, con le contraddizioni che operano in una società che si vuole cautelare da cambiamenti aggressivi dettati da interessi che percepisce come estranei, contrari al bene pubblico o a determinati strati subalterni.
Dato che questi appaiono ancora oggi tra i principali termini della questione, credo che valga la pena ragionarci brevemente.
Nel corso del capitalismo si compiono fratture nette tra un paradigma di accumulazione e un altro, tali da poter essere descritte proprio dal concetto di “paradigm shift” (slittamento di paradigma) introdotto da Thomas Kuhn per descrivere le cosiddette “rivoluzioni scientifiche”. Secondo l’epistemologo statunitense, nella scienza un nuovo paradigma non emerge come un naturale proseguimento dei risultati raggiunti da quello precedente, dal suo “progresso” ma, piuttosto, nasce dall’abbandono degli schemi che definivano il paradigma che fino a quel momento era dominante. In più, l’accettazione del nuovo paradigma non è necessariamente legato al suo valore veritativo, ma dipende dalla sua capacità di guadagnarsi la fiducia della comunità scientifica.
Non occorre confondere l’epistemologia delle scienze naturali con quella delle scienze sociali per applicare questa concezione al nostro discorso, perché in effetti Kuhn sta qui descrivendo uno degli aspetti sociali delle teorie scientifiche, ovvero come emergono e si impongono nella comunità degli scienziati.
Anche la storia del capitalismo è caratterizzata da slittamenti di paradigma con caratteristiche simili. Infatti il gruppo dei capitalisti egemoni in una data epoca non si origina dai capitalisti dell’epoca precedente. C’è una soluzione di continuità empiricamente riscontrabile che testimonia di come la surdeterminazione dei fattori storici e sociali impedisca di poter individuare un fil rouge e una logica uniforme riscontrabile in contesti differenti. In più un nuovo paradigma di accumulazione emerge quando viene meno il consenso sulla coerenza, l’efficienza e l’efficacia di quello precedente e si impone quando ottiene un nuovo consenso.
Differentemente dalle scienze naturali, però, la mancanza di una logica di sviluppo uniforme e continua non è solo un dato diacronico, ma è anche sincronico. In altri termini, i nuovi paradigmi non emergono né si impongono simultaneamente e uniformemente su tutte le aree del globo, nemmeno in quelle pienamente capitalistiche e neppure nelle aree a sviluppo paragonabile. Per vari ordini di motivi.
Innanzitutto il cambiamento di un paradigma di accumulazione è frutto di scontri strategici che descrivono un mondo diviso tra chi soccombe e chi prevale. Il mondo non è mai uno “spazio liscio”, bensì molto “striato”, per usare due termini amati da Gilles Deleuze e Félix Guattari e dai tardo-operaisti italiani e francesi (che di solito ravvedono nel globo più che altro uno spazio liscio)1. E se è striato nel mondo precapitalistico, in quello capitalistico è in burrasca per via del fatto che il capitalismo si basa su una stratificazione gerarchica di differenziali di sviluppo. Lo stesso conflitto compare ad intensità differenti, crescenti a seconda se avviene tra gli agenti delle formazioni che stanno prevalendo o di quelle che stanno soccombendo.
In secondo luogo, dato che i cambiamenti di paradigma sono indotti dalle pressioni che vengono esercitate su processi ineguali di accumulazione, un nuovo paradigma emerge solo dai conflitti che tali pressioni provocano. Il consenso, quando c’è, è un consenso verso un vincitore che si presenta come agente prevalente e capace di esercitare un’egemonia, ovvero una politica di cui egli non è l’unico ad avvantaggiarsi.
3. Al momento della guerra dei Cento Anni iniziata con l’invasione della Francia da parte del re inglese Edoardo III, l’Inghilterra era diventata la più grande fornitrice di lana pregiata per le manifatture italiane e fiamminghe (che occupavano una posizione di monopolio). Tuttavia il pesante prelievo fiscale imposto da Filippo IV alle Fiandre aveva messo in crisi questo commercio con l’Inghilterra. Contemporaneamente le pressioni concorrenziali tra i centri manifatturieri italiani avevano portato a un rallentamento dei guadagni e a un ulteriore indebolimento del commercio della lana con l’Inghilterra. L’espansione commerciale basata sulla manifattura della lana e del suo commercio era quindi entrata in crisi.
Ma intrecciata a questa espansione materiale (oggi parleremmo di “economia reale”) era cresciuta quella finanziaria dei mercanti-banchieri specialmente fiorentini, che si trovavano in mano quote crescenti di capitale non più investibili, per via dei guadagni decrescenti, nel settore che aveva promosso fino allora l’espansione.
Tutto era pronto per uno slittamento di paradigma. Esso iniziò con la Guerra dei Cento Anni, una guerra con la quale l’Inghilterra cercò non solo di sbloccare i commerci con le Fiandre, ma anche di estorcere loro prezzi più alti con la conseguenza di deindustrializzare quella regione e di spostare l’industria tessile in Inghilterra (oggi parleremmo di “internalizzazione”).
1 Cfr. “Mille piani. Capitalismo e schizofrenia”. Castelvecchi, Roma, 1980.
La guerra, con la domanda di capitale mobile per il suo finanziamento, offrì uno sbocco ai capitali fiorentini sovraccumulati e spinse i mercanti-banchieri a disinvestire sempre più dall’industria tessile, protagonista del precedente paradigma di espansione, aumentandone il declino. Non si trattò però di una deindustrializzazione, perché i mercanti-banchieri fiorentini spostarono la loro attenzione sui prodotti tessili ad alto valore aggiunto (oggi parleremmo di “innovazione di prodotto”).
Ma nel 1339 le inadempienze di Edoardo III misero in ginocchio le due grandi famiglie di mercanti-banchieri dei Bardi e dei Peruzzi, esposte verso il sovrano inglese per 1.365.000 fiorini d’oro, una somma superiore al valore complessivo dell’industria dei tessuti fiorentina del 1338, cioè, potremmo dire oggi, della quota parte industriale del PIL! Qualcosa che potremmo paragonare agli odierni investimenti mondiali in “titoli tossici” e al recente fallimento di grandi banche. A questo punto ci possiamo chiedere se questi grandi mercanti-banchieri fiorentini fossero i capostipiti dei nostri “sconsiderati” e “immorali” affaristi. La risposta è sì, basta che si cancellino gli aggettivi “sconsiderati” e “immorali”, perché sono fuorvianti.
Dato che la fitta rete dei mercanti-banchieri che ruotava attorno all’industria tessile europea poneva questi signori nelle condizioni migliori per valutare i rischi di ogni intrapresa, occorre dire che quell’enorme esposizione non derivava da sconsideratezza o immoralità, bensì dal fatto, come dice Giovanni Arrighi, che essi erano “troppo invischiati con le finanze del trono inglese” (lato politico) e dalla consapevolezza che i rendimenti dell’industria tessile “di base” erano ormai troppo sotto i limiti considerati accettabili (lato economico). L’unica speranza per non svalorizzare i loro capitali era da una parte concentrarsi sui prodotti ad alto valore aggiunto e dall’altra assecondare la “produzione di spazio” – per usare il concetto di Henri Lefebvre – dell’Inghilterra, cioè la sua conquista ostile di mercati e di territori dei rivali “con la concessione di un nuovo grande prestito, che avrebbe permesso a Edoardo III di aumentare le proprie entrate – e quindi la capacità di pagare gli interessi e restituire i debiti – mediante conquiste territoriali o mediante il trapianto dell’industria dei tessuti fiamminga all’interno dei propri territori”2. Ovvero, potremmo dire, partecipando a quella produzione di spazio in modo indiretto tramite i crediti elargiti all’Inghilterra al fine di ipotecare le entrate future di questo Stato che era quello che materialmente si stava dedicando alla conquista.
Il calcolo si rivelò errato, abbiamo visto. Eppure credo che difficilmente un Solone contemporaneo avrebbe potuto legittimamente affermare “L’avevo detto, io!”. Infatti, sarebbe interessante capire cosa avrebbe suggerito un keynesiano fiorentino del XIV secolo ai Peruzzi e ai Bardi, tutti presi dalla logica di accumulazione che impone di evitare ad ogni costo la svalorizzazione dei capitali. O cosa avrebbe detto un pacifista loro contemporaneo rispetto all’ipocrisia di questi banchieri, non solo sicuramente cristianissimi, ma anche protettori delle arti e delle scienze (altro modo per occupare il capitale) – me li figuro come quei banchieri “progressisti” che facevano ostentatamente la fila per votare alle primarie del PD – che però foraggiavano guerre tremende. O sarebbe interessante sapere come si sarebbe comportato nel bel mezzo di questo slittamento di paradigma un comunista duro e puro fautore della lotta di classe.
E qui passiamo al secondo punto.
L’insolvibilità di Edoardo III portò al grande crollo dei primi anni quaranta del XIV secolo e a un periodo di disordine sociale ed economico, aggravato dalla peste e da
2 D’ora in avanti le citazioni sono tratte da Giovanni Arrighi, “Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo”, Il Saggiatore, Milano, 1996, pp. 141-147.
successive epidemie che “destabilizzò il dominio delle classi mercantili e creò nuove opportunità per l’emancipazione politica delle classi lavoratrici”.
Ben un terzo della popolazione fiorentina dipendeva direttamente dai salari dei lavoratori delle manifatture tessili, i quali erano in maggioranza dequalificati e non toccati dalle produzioni ad alto valore aggiunto. In queste condizioni la forza-lavoro salariata “insorse a difesa dei propri interessi chiedendo salari più alti, la salvaguardia dei livelli di produzione esistenti e il diritto alla libera organizzazione. Queste lotte culminarono nella cosiddetta rivolta dei Ciompi del 1378, nella quale i lavoratori tessili caduti in miseria si impadronirono del potere statale e piazzarono un cardatore di lana, Michele di Lando, alla guida del governo della repubblica.”
Ma questa “Commune” ante litteram fu effimera. La serrata promulgata dai datori di lavoro affamò la popolazione e l’aspra divisione al suo interno tra le corporazioni inferiori e le corporazioni superiori, interessate alla produzione dei nuovi tipi di prodotto e sostenute dallo stesso di Lando, votò l’esperimento alla sconfitta.
Non si trattò solo di una “guerra tra poveri”, come superficialmente si direbbe adesso. La divisione avveniva tra difensori del vecchio paradigma, con tutto il suo contorno sociale e ideale e quelli che vedevano la loro salvezza nel nuovo, pur facendo
parte, astrattamente, della stessa “classe” secondo la caratterizzazione marxista di questo concetto, ovvero secondo il loro rapporto rispetto ai mezzi di produzione.
In più, il nuovo paradigma, pur con l’iniziale tracollo al quale era andato incontro, ribadiva non solo la subordinazione logica dei lavoratori rispetto al capitale, ma dimostrava l’esistenza di una subordinazione storica, concreta: quella dovuta al maggior grado di flessibilità del capitale rispetto alla forza-lavoro. Innanzitutto flessibilità e capacità di mobilitarsi rispetto ai vari poteri territoriali, ai quali invece le classi lavoratrici erano legate e, in secondo luogo, rispetto alle occasioni di valorizzazione, siano esse state materiali o finanziarie:
Per le più importanti imprese fiorentine era dunque in larga misura irrilevante il fatto che la valorizzazione del capitale avvenisse mediante l’acquisto, la lavorazione e la vendita di merci o mediante il finanziamento delle lotte che opponevano l’una l’altra le varie componenti dell’economia-mondo al cui interno esse operavano. E a mano a mano che la concorrenza fece calare la remunerazione dei capitali investiti nel commercio e nella produzione, mentre il conflitto di potere faceva aumentare i guadagni nell’alta finanza, esse cominciarono a trasferire le eccedenze monetarie dal primo al secondo genere d’investimento: gradualmente nei primi decenni del XIV secolo, precipitosamente nei decenni centrali.
Non solo, la rivolta dei Ciompi rafforzò questa tendenza, facendo ricomporre i contrasti all’interno della classe capitalistica e approfondendo quelli tra le corporazioni inferiori e quelle superiori che non solo si giovavano della richiesta di produzione dei prodotti tessili di alta qualità, ma anche delle innovazioni di prodotto richieste dalla guerra all’industria bellica, prodotti generalmente ad alto valore aggiunto. Infine le corporazioni superiori, in quanto legate a produzioni strategiche, come diremmo oggi, divennero una sorta di vasta aristocrazia operaia protetta.
La controtendenza alla svalorizzazione dei capitali rappresentata dall’investimento nelle arti, nelle scienze e nelle altre spese improduttive che caratterizzarono il Rinascimento fu potenziata dalla casa dei Medici che approfittò del vuoto lasciato dai Peruzzi e dai Bardi per diventare, grazie anche alle ricadute sociali, simboliche e politiche di quegli investimenti improduttivi (che impedivano che il capitale diventasse merce abbondante, aumentando così il potere delle loro banche) una delle più potenti casate-impresa d’Europa.
Ma come mai la finanziarizzazione iniziata dai Bardi e dai Peruzzi portò queste famiglie alla rovina, mentre quella successiva dominata dai Medici fu coronata dal successo? Secondo Arrighi, il problema dei Bardi e dei Peruzzi fu quello di aver puntato all’alta finanza troppo presto, “cioè prima che la concorrenza per il capitale mobile fra le formazioni politiche in ascesa e in declino assumesse quel carattere acuto che ebbe poi alla fine del XIV e agli inizi del XV secolo. Di conseguenza, né essi né il re inglese, la cui guerra avevano finanziato, furono consapevoli del sottostante rapporto di forze tra capitalismo e territorialismo che stava per emergere in Europa.”
4. Questa vicenda credo che illustri bene quanto affermato nel punto 1 rispetto allo slittamento di paradigmi di accumulazione.
E, senza nemmeno grandi sforzi, ci permette di porci alcune domande sulla crisi odierna e sulle “soluzioni” proposte da economisti, politici e pseudo-esperti di ogni risma. Pur senza farci travolgere da suggestioni ed analogie esagerate, come non vedere i pericoli di difendere a oltranza vecchie produzioni (si pensi all’auto)? E come non domandarci che significato ed eventuali conseguenze abbia la denuncia, che è collegata a questa difesa, della delocalizzazione (cosa che al tempo dei Ciompi avveniva nell’industria tessile di quasi tutta Europa a beneficio dell’Inghilterra)? Come non domandarci quali siano oggi le divisioni all’interno della “classe” – che la sinistra antagonista si ostina a vedere unitaria, incurante del fatto che non lo fosse nemmeno ai tempi di Lenin – e quali siano i punti di riferimento dei suoi diversi segmenti? O, ancora, come non chiederci quale sia oggi l’intreccio tra alta finanza e conflitti geostrategici (si pensi alle riserve valutarie cinesi e alle invasioni statunitensi in Asia)? E infine, come non porci il problema di come garantire contemporaneamente in un quadro come questo una posizione non subordinata del Paese, il suo rilancio economico, la sua tenuta sociale, una riduzione delle sperequazioni, livelli di vita accettabili per gli strati inferiori della popolazione, specialmente per chi è travolto dallo slittamento di paradigma?
In termini più generali, come tenere uniti obiettivi che si riferiscono al territorio (allo spazio-di-luoghi) e obiettivi che si riferiscono alla deterritorializzazione (allo spaziodi-flussi)? Come tenere uniti resistenza e innovazione, salvaguardia della società e progresso e trovare una strategia tra gli altri modi in cui si può declinare il doppio movimento descritto da Karl Polanyi e che caratterizza la nascita e lo sviluppo del capitalismo in Occidente?3
Tutto questo non è assolutamente un invito al fatalismo, a non far nulla o ad adeguarsi alle manovre dei più forti. E’ invece un invito a tener conto delle contromosse, a non esporre i punti deboli, a cercare di capire il contesto per cambiarlo e proteggere mosse vantaggiose o prepararle. Non sono cose impossibili.
L’unica cosa che dovrebbe essere proprio evitata è la coazione a ripetere gli errori.
Piero Pagliani, marzo 2008.
3 Karl Polanyi, “La grande trasformazione“. Einaudi, Torino, 2000.