LA CRISI GLOBALE SECONDO LUCA RICOLFI
In un articolo del 20.03.2016 sul Sole 24 ore Luca Ricolfi scrive:
<<È diventato ormai un luogo comune paragonare la crisi di oggi a quella del 1929, ossia alla più grave crisi delle economie capitalistiche prima dell’attuale. E tuttavia, nel decimo anno dall’inizio della crisi ( 2007), forse sta diventando più chiaro che i tratti distintivi della crisi attuale sono assai diversi da quelli del ’29. […] Quella del 1929 fu una “grande” crisi, quella attuale è innanzitutto una “lunga” crisi: allora la ripresa impiegò 4-5 anni a manifestarsi, secondo il classico schema della crisi a U, oggi non sappiamo neppure se quella attuale è una vera ripresa, che prelude a un nuovo periodo di crescita, o se stiamo sperimentando la terza falsa ripartenza, dopo quelle del 2010 e del 2013, secondo l’inedito schema di un triple-dip, o crisi a tripla V>>.
Beh, come dice La Grassa ma non è l’unico, il superamento della grande crisi iniziata nel 1929 si ebbe solo con la conclusione della Seconda Guerra Mondiale. E per quanto riguarda le modalità ne abbiamo parlato parecchie volte in questo blog perciò tralasciamo ulteriori considerazioni. Magari uno studioso di econometria potrebbe scoprire che la “tripla V” non è una novità …
<<Quanto alla dinamica dei prezzi, quella di oggi pare l’immagine speculare di quella di ieri: nella “grande” crisi del 1929 i prezzi scesero all’inizio per poi riprendere la loro corsa, nella “lunga” crisi 2007-2016 i prezzi sono saliti all’inizio […], salvo iniziare una lunga stagione di raffreddamento dopo il secondo “tuffo”, quello del 2011-2012. Se proprio vogliamo trovare qualcosa di vagamente simile nel passato, più che alla grande crisi del 1929 dovremmo rivolgerci alle lunghe crisi del 1873-1895 e al “decennio perduto” del Giappone dopo il 1990. Storie ovviamente diverse, ma con due tratti in comune con la nostra vicenda attuale: la persistenza nel tempo, e la tendenza al raffreddamento dei prezzi>>.
Sempre La Grassa, sin dall’inizio della crisi, ha paragonato quella attuale alla Grande Depressione dell’ultimo quarto del XIX secolo, non solo per quanto riguarda le dinamiche dei prezzi ma soprattutto per la coincidenza con l’inizio di una fase di conflittualità multipolare tra grandi potenze che preludeva al declino della supremazia britannica. Attualmente la situazione internazionale è caratterizzata da una sorta di multipolarismo “zoppo” che vede ancora gli Usa sfruttare un grande vantaggio tecnologico e politico-militare, senza che questo permetta loro di governare – pur riuscendogli parzialmente di “orientare”- il disordine globale. Ricolfi osserva, poi, che la politica dei bassi tassi di interesse – con il relativo intensificarsi, nonostante gli attuali tentennamenti della Fed, del QE – sembra produrre proprio gli effetti che ci si possono attendere quando mancano stimoli reali; secondo l’editorialista gli indici azionari dei principali mercati borsistici sarebbero cresciuti a un ritmo ampiamente superiore a quello degli anni pre-crisi; e persino i prezzi delle case, da qualche tempo, starebbero rialzando la testa in paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Germania. Così che la domanda giusta non sarebbe tanto quella che pone il problema di quanto la politica monetaria riesca a spingere i prezzi, ma se non stia spingendo proprio i prezzi “sbagliati”, con il rischio di provocare nuove bolle speculative. In contrasto con tutte le maggiori scuole economiche dominanti fino a qualche tempo fa il nostro sociologo propone l’ipotesi che il regime di stagnazione, o di lenta crescita, che si profila all’orizzonte – con un mix, secondo alcuni inedito, di prezzi e produzione entrambe stagnanti – non abbia le sue radici ultime in errori macroscopici ed evidenti (che pure ci sono stati) da parte delle autorità che governano le nostre economie ma sia, per così dire, intrinsecamente presente nelle scelte di fondo e nelle prospettive di lungo periodo (se non permanenti) delle nostre moderne società “arrivate”. La tradizione a cui si richiama Ricolfi rimanda comunque a nomi eccellenti, soltanto, però, quando vengano letti secondo un’ ottica specifica. In un
precedente post avevo parlato di John Stuart Mill come di un precursore di una certa idea di socialismo ma non avevo fatto riferimento ad un tema importante. Secondo i classici – anche se nei due capiscuola, Smith e Ricardo, la questione ha ben poca rilevanza – l’aumento della produttività (la capacità di produrre una quantità maggiore di beni con lo stesso sforzo) non ha limiti. Questo processo, comunque, porterà, prima o poi, a soddisfare tutti i bisogni di una società. A quel punto cesserà l’accumulazione, e basterà riprodurre i beni consumati di volta in volta. Ciò porterà ad uno “stato stazionario”. La concezione “positiva” dello stato stazionario iniziò, di fatto, con John Stuart Mill che, nel 1848, vide con favore la prospettiva ravvicinata di una società soddisfatta e benestante, non più dominata dall’ansia del profitto e dal lavoro frenetico (1). Nel discorso di Ricolfi lo “stato stazionario” non implicherebbe più i toni trionfalistici di Mill ma vorrebbe essere l’ ennesima profezia di un declino dei “capitalismi” che secondo noi – per quanto ci è dato di ipotizzare secondo una teoria razionale del mutamento sociale nella modernità – risulta del tutto infondata in base alle nostre conoscenze attuali. Decisamente diverso era il discorso in Marx – ma su questo La Grassa ha scritto migliaia di pagine – visto che la società comunista sarebbe dovuta arrivare quando il capitalismo avesse terminato la sua “missione storica”permettendo di creare una tale ricchezza da liberare l’uomo dal vincolo dei bisogni naturali, facendolo passare dal regno della necessità a quello della libertà. Ovviamente il presupposto doveva essere la formazione del lavoratore cooperativo associato e la conseguente “espropriazione” dei rentier e della macchina statale che li difendeva. Rimane da ricordare che anche Keynes, nel 1930, scriveva che, entro cent’anni, “i nostri nipoti vedranno la fine del problema economico, cioè della scarsità. A quel punto il vero problema sarà l’adattamento culturale a una situazione del tutto nuova; perché l’uomo si è sviluppato e formato proprio nella lotta contro la scarsità”(2). Ritornando all’articolo, l’autore afferma che esiste una differenza importante della crisi attuale rispetto a quelle del passato, comprese le due che più assomigliano alla nostra attuale (la crisi di fine ’800 e la crisi giapponese degli anni ’90). Si tratterebbe del fatto che l’attuale notevole deficit di domanda interna risulterebbe un problema irrisolvibile per le autorità monetarie e i governi delle aree principali dell’economia globale, che non trovano la maniera di stimolarla. Secondo Ricolfi il nocciolo della questione
<<è che tutti – governi, imprese, famiglie – dipendiamo dai mercati finanziari per operare, ma nessuno è nella condizione di indebitarsi ulteriormente senza scatenare una tempesta finanziaria globale. E questo per un motivo assai semplice: il debito di ciascuno di questi tre soggetti, che molto era cresciuto prima del 2007, non solo non si è ridotto negli anni della crisi, ma è cresciuto ancora, a un ritmo molto superiore a quello del Pil. Secondo un rapporto McKinsey questo aumento dell’indebitamento, prima ancora che le imprese e gli Stati, ha riguardato le famiglie consumatrici […]. Ecco perché non ci si può stupire che i bonus elargiti dai governi non si traducano facilmente in consumi: debiti del passato e incertezze sul futuro sono sufficienti a indurre le famiglie a risparmiare anziché a spendere>>.
In effetti l’incidenza dei beni di consumo come componente della domanda interna ha assunto almeno nel blocco occidentale una grande rilevanza solo a partire dall’”età dell’oro” (1945-inizio anni settanta). Nel XIX secolo la domanda di beni di consumo, a causa del limitato potere d’acquisto delle classi inferiori, aveva una importanza relativa molto minore rispetto al fabbisogno di beni strumentali e alla dinamica degli investimenti ma non è sicuramente questo il luogo per approfondire simili tematiche. Ad ogni modo il sociologo ritiene che – per uscire da questa situazione “bloccata” e “stagnante” in considerazione anche del pessimo livello degli “indici fondamentali” nelle principali economie – sarebbe necessaria, allo scopo di aumentare la domanda interna, una crescita della produzione che però trova degli ostacoli molto forti. Così scrive infatti Ricolfi:
<<Peccato che la spinta a produrre di più richieda o governi che abbassano drasticamente i costi del produrre (con buone infrastrutture, poca burocrazia, basse imposte), o popolazioni disponibili a lunghi anni di sacrifici per migliorare la propria condizione. Questi presupposti, per molti versi tipici degli anni ’50 e ’60, oggi sono presenti solo in pochi paesi, o in particolari gruppi sociali (penso agli immigrati) all’interno di ogni paese. A distruggerle non è stata solo la crisi, ma la prosperità raggiunta dalle nostre società, che ci ha resi cittadini diversi dai nostri padri e dai nostri nonni. Il livello cui pretendiamo di vivere, ovvero la (modesta) quantità di lavoro e abnegazione che siamo disposti a mettere in campo in cambio di maggiori consumi, è la prima ragione che non ci permette di aumentare il livello di benessere che abbiamo già raggiunto>>.
Queste frasi mi riportano a quello che N. Bobbio, che quando ne aveva voglia si rivelava un valido pensatore, iniziò a dire sin dall’inizio degli anni Ottanta (del XX secolo) ovverosia che il paradigma e il progetto politico liberale-liberista era destinato periodicamente ad entrare in conflitto con quello democratico. Non parlo ovviamente qui della democrazia in senso “mitico-formale” ma come concetto che denota una serie di principi giuridico-formali in grado di incarnarsi in una specifica maniera di costituirsi delle società liberali ovvero delle formazioni sociali capitalistiche. Solo in determinate congiunture e fasi il principio di maggioranza, i diritti economici e sociali dei gruppi subordinati, gli spazi di autonomia culturale che contrastano la manipolazione mediatica “totale” sono tollerati e tollerabili. Nelle fasi di crisi e di accentuato conflitto sistemico le “garanzie democratiche” devono essere necessariamente ridotte in base al principio (Hayek tra gli altri) che esse non rappresentano condizioni imprescindibili per il funzionamento dell’”ordine esteso di mercato” nelle varie sfere della società liberale-capitalistica.
(1) J. S. Mill, Principles of Political Economy, 2000, Liberty Fund, on-line, http://www.econlib.org, b. IV, ch. VI.
(2) J. M. Keynes, Economic possibilities for our grandchildren (1930) , on-line, scanned from Keynes, Essays in Persuasion, New York, Norton, 1963, pp. 358-73.
Mauro Tozzato 23.03.2016