LA CRISI NON E' DA DOMANDA di Giellegi
Nell’ultimo mezzo secolo, ho senz’altro sbagliato molte interpretazioni e previsioni, ma ne ho pure azzeccate di molto importanti. In particolare non ho accettato fin dall’inizio le tesi sulla fine degli Stati nazionali e ho criticato quelle economicistiche relative allo sviluppo del sistema mondiale capitalistico (avanzando l’ipotesi che si tratti di capitalismi); e dunque anche quelle sulla crisi che l’ha inceppato da oltre un anno e che si andrà aggravando nel 2009. La mia idea di fondo è che – finito il breve periodo, susseguente alla dissoluzione dell’Urss e del socialismo reale, di apparente e incontrastato monocentrismo statunitense – ci si stia avviando, ma per strade tortuose, verso una fase policentrica (o multipolare) che ricorderà quella a cavallo tra otto e novecento; senza adesso immaginare che tale epoca si ripeterà pari pari (rinvio al mio scritto teorico: Tutto torna ma diverso).
Parlare di policentrismo – comunque a livello di ipotesi, non di certezza – è però insufficiente. Intanto, per un periodo molto lungo, permarrà a favore degli Usa una netta preminenza in campo militare. La lotta policentrica non sfocerà dunque in una guerra, così come potrebbe tenendo debito conto della giusta concezione di Von Clausevitz secondo cui quest’ultima è il prolungamento della politica con altri mezzi. Quanto meno non vi sarà guerra diretta tra le maggiori potenze in competizione. Si useranno altri sistemi, più segreti e “obliqui”, ma sempre efficaci. Soltanto quelli più appariscenti saranno di tipologia economica e finanziaria; accordi vari per i sistemi monetari, per lo spostamento di capitali “all’estero”, con creazione a volte di joint-ventures, con un mix di investimenti statali (magari dei cosiddetti fondi sovrani) e privati (vanno considerati sostanzialmente assimilabili ai privati anche le intese tra aziende a partecipazione statale come Eni e Gazprom, tanto per fare un esempio), ecc. ecc.; non mettiamo limiti alla fantasia di chi si accorda per meglio competere con altri gruppi dominanti.
Un grande storico, non ricordo se fosse Pirenne o altro, ha rilevato gustosamente che, leggendo i libri di storia, il Medio Evo (soprattutto il basso nella sua ultima parte) e l’età moderna potrebbero sembrare caratterizzati soprattutto dallo scambio mercantile; per di più da quello che riguardava le spezie o i prodotti “esotici” tipo caffè, cacao, zucchero di canna, ecc. In realtà, ancora nella prima metà del XIX secolo la grande maggioranza della popolazione mondiale viveva in economie basate sulla produzione per l’autoconsumo, e proprio con riguardo ai prodotti fondamentali per la vita umana. La “visuale distorta” era causata dal fatto di avere soprattutto a disposizione dati relativamente precisi e copiosi per quanto riguarda i commerci, mentre la produzione autoconsumata non era censita.
In un certo senso, mutatis mutandis, è quanto accade oggi. Le statistiche si riferiscono a tutto ciò che concerne l’economia. Anche le spese militari entrano nel conto, ma i loro effetti in termini di potenza, sfere di influenza, ecc. non sono valutabili così bene come i profitti di certi investimenti o gli effetti commerciali e finanziari di determinati accordi, ecc. C’è poi tutta l’attività dei servizi segreti; le pressioni di vario genere (a volte con corruzione, altre volte per scelte ideologiche o interessi specifici) di gruppi dominanti di un dato paese su quelli di altri al fine di far rientrare questi ultimi nel proprio “giro di alleanze” (più spesso di reale subordinazione); le “penetrazioni” culturali in modo da creare consonanze ideologiche che si riflettano in vicinanze (o sudditanze) politiche. E tanti altri “ammennicoli” utili allo scopo, ma che non appaiono in alcuna statistica e di cui nessuno può calcolare (in senso economico) gli effetti.
In una fase storica come l’attuale – in cui permarrà la netta supremazia bellica degli Usa, e tuttavia si andrà sviluppando “più segretamente” una serie di mosse da parte di nuove potenze (formazioni particolari, quasi sempre ancora paesi e nazioni) in crescita, mosse di cui si noteranno solo le “bolle superficiali” di tipologia economica (accordi commerciali, investimenti, costituzione di società partecipate da dominanti di più paesi, ecc.) – si è prestata poca attenzione alle strategie effettive che tali nuove e “potenziali” potenze (i gruppi dominanti in esse) svolgono per contrastare il predominio del paese già centrale e in relativo, e non lineare, declino. Poiché, inoltre, ogni strategia, nel mondo odierno pienamente caratterizzato in senso mercantile, richiede finanziamenti, vengono poste in eccessivo rilievo le distorsioni che su tale necessità si producono (perché i banchieri perseguono i loro interessi e non sono tenuti a conoscere le esigenze strategiche di questo o di quello), creando l’impressione di una “catastrofe” puramente finanziaria, che sembra quasi – questa la segreta speranza degli “apocalittici” – travolgere l’intero sistema. In genere, vengono invece travolti i popoli, e dalla crisi si esce con profonde trasformazioni dei rapporti di forza tra le potenze in questione, alcune delle quali da “potenziali” diventano ben attuali.
Ciò che è rilevabile “statisticamente” è solo l’insieme dei dati economici della crisi – e quelli finanziari sono addirittura i primi a farsi notare e i più appariscenti nel loro andamento “catastrofico” – seguiti poi, ma solo se vi è il regolamento dei conti finale, da quelli relativi alle immani distruzioni e ai morti di un eventuale grande evento bellico. Mi sento di prevedere, per un lungo periodo storico, solo guerricciole di rilevanza minore; e soprattutto un continuo “giro di valzer” che vedrà, sempre più spesso con lo scorrere degli anni, le alleanze farsi e disfarsi, anche se magari non in modo scoperto (soprattutto all’inizio) come nei secoli scorsi, dato che forse permarrà a lungo l’ideologia dello “stringersi insieme” e cooperare di fronte ad un pericolo “comune” (ieri il terrorismo, oggi anche la crisi, domani non so); sono però convinto che, sotto sotto, ogni grande potenza (“in potenza”) agirà secondo i suoi specifici interessi. Le forme di manifestazione saranno insomma diverse, ma la sostanza dei problemi assomiglierà molto a quella dell’epoca che fu detta dell’imperialismo, conclusasi con due guerre mondiali.
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Chi si atterrà solo al dato economico, credo capirà poco o nulla dell’epoca in corso. Si comporterà come quegli storici, dalle cui pagine il lettore ricava l’impressione che i popoli, in secoli passati, si nutrissero di pepe, zenzero, cacao, caffè e quant’altro. Dobbiamo lasciar perdere le prime (e primitive) impressioni che si ricavano dai dati economici. Oggi, per esempio, la crisi si riflette ovviamente in una caduta dei redditi di una buona parte della popolazione. Si tenga intanto presente che si tratta certo della maggioranza d’essa, ma ce n’è una quota non indifferente (io credo almeno un quinto se non un quarto) che della crisi in atto non soffrirà troppo; e ne uscirà non dico indenne, ma sempre con un tenore di vita elevato e con consumi “opulenti”. La maggioranza andrà però incontro a forti disagi. Per ragioni di equità e per opportuna strategia politica (che richiede anche quella delle “alleanze” o “blocchi sociali”), è lecito venir incontro al malessere di questa gran parte della popolazione; sapendo che non è però composta di soli lavoratori dipendenti.
C’è invece chi chiede puramente e semplicemente l’aumento salariale, e soprattutto per ragioni economiche, perché aumentando i consumi si combatterebbe la crisi. Mi dispiace ma questo è un errore; i consumi, se eccessivi e dediti solo ai beni di prima necessità, indeboliscono un sistema-paese e lo fanno uscire dalla crisi – che è inevitabile e ci si deve rassegnare a passarla – in condizioni assai peggiori rispetto ad altri. La crisi sarà in definitiva per tale paese più lunga, più spossante, lo lascerà in balia di quelli capaci di sfuggire al banale populismo di simili proposte. Un certo aiuto ai ceti bassi e medio-bassi è doveroso e utile per impedire scollamenti e lacerazioni del tessuto sociale che lascino un paese in balia del caos e disordine, con accentuazione della sua caduta “in basso” e la possibile ascesa di “avventuristi” che potrebbero condurlo al disastro (non economico, bensì proprio sociale e politico) totale.
Tale finalità sociale, non semplicemente economica, va allora perseguita facendo attenzione a non mettere in conflitto i lavoratori dipendenti con gli “artigiani” (piccoli imprenditori) e i lavoratori “autonomi”. Quindi, non semplicemente aumenti salariali per le fasce deboli, ma specifiche misure anche per tali altri strati lavoratori che fra l’altro – almeno “in teoria” – non sono solo, né prevalentemente, consumatori ma potrebbero anche aumentare gli investimenti (magari studiando misure che li spingano in tale direzione); e per di più in piccole innovazioni, in settori detti di nicchia, da non sopravvalutare come spesso fanno i neoliberisti, ma nemmeno da scoraggiare e “umiliare” come fanno certi fasulli difensori del lavoro contro il capitale (o il padronato).
Quando sento di appelli a sospendere i lavori in infrastrutture (tipo Tav o Ponte sullo Stretto) solo per risparmiare soldi da dare appunto ai salariati al fine di aumentare la domanda di consumo, vedo pienamente all’opera la doppia ideologia: quella della spesa pubblica tipo New Deal – che oggi da più parti finalmente si ammette non essere stata la causa dell’uscita dalla crisi degli Usa negli anni ’30 (la soluzione consistette nella resa dei conti con il secondo conflitto mondiale) – e quella, speculare e populistica, dell’aumento della domanda dal lato dei consumi. Anzi, giudico peggiore questa seconda credenza ideologica, che in un certo senso si apparenta alla tesi veteromarxista della crisi da sottoconsumo (Luxemburg).
Non prendo minimamente posizione sullo specifico delle opere infrastrutturali proposte in Italia, poiché tale campo è totalmente devastato dalle ideologie; e del resto non basterebbe nemmeno fare un calcolo preciso dei costi/benefici, ancora una volta soltanto economico, senza tener conto della rilevanza strategica o meno che tali opere avrebbero nell’attribuire oppure no un maggior peso al nostro paese nel consesso almeno europeo. Il nostro è proprio un paese disgraziato per la presenza di una sinistra che è comunque riuscita a diffondere una mentalità antiprogressista, assolutamente viziata, appunto, in senso meramente ideologico. Non è un caso che in Italia si abbiano i più futili ambientalisti, i più sciocchi antisviluppisti, i più stupidi pacifisti, i più irritanti populisti. Del resto, il nostro non è un popolo con un minimo di coscienza degli interessi nazionali; per cui è facile preda di camarille contrapposte che dietro le ideologie – spesso difese in buona fede da intellettuali piuttosto superficiali – nascondono colossali interessi contrapposti (si pensi a quelli mascherati dalla difesa dell’ambiente, dalle energie alternative e via dicendo).
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In conclusione: è inaccettabile la concezione che fa della crisi una semplice crisi da domanda. Peggio ancora se, di questa domanda, si trascura quella di beni strumentali (e innovazioni) riferendosi ai soli consumi. Per di più a quelli di beni di prima necessità – quindi i meno innovativi – dato che si parla di alzare i salari più bassi. Lo ripeto: solo per questioni di equità, e di consolidamento di un qualche blocco sociale (oggi inesistente, mi sembra), è utile alzare le remunerazioni (e le pensioni) più basse; assieme però a vantaggi per l’insieme dei lavoratori, quindi anche per quelli autonomi, onde ostacolare il divide et impera dei dominanti, che mi sembra abbia già conseguito buoni risultati (per loro).
Nella crisi non vi saranno tuttavia a disposizione molte risorse; una parte si vorrebbero impegnare per impedire che i giochi (sporchi) della finanza trascinino nel baratro i “risparmiatori”. Le intenzioni sono buone, ma si vedrà come sarà possibile mantenervi fede nella parte più bassa della crisi. In ogni caso, una quota non indifferente delle risorse (in diminuzione) dovrebbe essere impiegata in “giochi” che non trovano affatto riscontro, come ho già rilevato, in nessuna statistica ufficiale. Eppure sono quelli che consentono a questa o quella formazione particolare di uscire dalla crisi in posizione di minor debolezza, quindi di maggior forza, rispetto ad altre. La maggioranza dei “guru” economici di un qualche buon senso (o di minor insensatezza) prevede giustamente una crisi piuttosto lunga e pesante; molti continuano però a pensare, a mio avviso erroneamente, ad un declino irreversibile e grave degli Stati Uniti. Mi permetto di sostenere che sbaglieranno grossolanamente per l’ennesima volta. Gli Usa, almeno da questa crisi, usciranno ancora come il primo paese del mondo, il più (pre)potente e dominante. Il declino sarà solo relativo alla crescita di altri, i quali non saranno però in grado di impensierirli sul piano specificamente militare per un abbastanza lungo periodo storico futuro; e questo non è un atout di infimo conto per gli Stati Uniti, cari economi(ci)sti assai limitati nelle vostre analisi!
L’Italia non può certo pretendere di divenire una grande potenza. Essa avrebbe comunque carte da giocare, soprattutto giostrando nei vari “giri di valzer” (alleanze assai cangianti) che caratterizzeranno l’avvicinamento progressivo (e non lineare) al policentrismo. La sua grande debolezza è appunto l’assenza di spirito e cultura nazionali (per nulla affatto “patriottardi”, questa loro brutta imitazione, un sostituto di una sciattezza tronfia e retorica pari a quella dell’Inno di Mameli). Non esiste in senso vero un popolo, ma solo quelle che ho definito camarille (e sono molte) dedite alla devastazione del paese, approfittando della debolezza della nostra struttura sociale e delle forze politiche in campo. Non so quanto sia adeguata alle nostre esigenze, nei periodi duri che verranno, la finzione della “democrazia occidentale”. Probabilmente, sarebbero più efficaci le istituzioni esistenti in Russia o Cina; ovviamente in forme diverse adattate alla nostra storia e tradizioni.
In ogni caso, dubito che questa organizzazione delle nostre istituzioni e apparati riuscirà a portarci in (relativamente) migliori posizioni quando la crisi sarà superata; dipenderà dalla sua durata, intensità, ecc. Per ogni evenienza, per almeno limitare i danni e porci in condizioni meno peggiori di altri, sarebbe necessario affidare la politica di questo periodo (i prossimi anni) a chi non cade nell’economicismo, a chi non crede che le crisi dipendano dalla domanda (e di quella dei consumatori per giunta), a chi comincia a far funzionare ben altri organismi (dello Stato) per ottenere ciò che non si coglie ad occhio nudo, ciò che non necessariamente “si deve sapere”, o almeno non si deve sapere per ciò che è effettivamente, ma soltanto per la sua manifestazione “di superficie” – quella visibile e anche riscontrabile “statisticamente” – relativa ad un miglioramento della nostra collocazione nel consesso mondiale. Meglio essere un po’ “figli di p….” che semplici fessi; e decisamente cattivi piuttosto che “buoni ragazzi” sottomessi (ad interessi stranieri) con solo qualche scalpitio di zoccoli di pastafrolla.
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L’epoca che si sta aprendo – o forse si è già aperta e non riusciamo nemmeno a rendercene ben conto – sarà decisamente diversa dagli ultimi sessant’anni che abbiamo vissuto in occidente, nel capitalismo più avanzato. La nostra forma mentis è ormai tale che ci riuscirà difficile adattarci ad essa e trovare il passo giusto per compierne l’analisi adeguata; un primo passo per prendere poi decisioni efficaci. Dobbiamo uscire da tutto il nostro pregresso background teorico-culturale, fare uno sforzo di inventività. Sbaglieremo magari all’inizio, come sempre quando si deve riaggiustare il tiro delle proprie batterie. Restare però agganciati alle categorie ideologiche del passato è ormai qualcosa di peggio di una semplice pigrizia, è autentica “criminalità” (intellettuale). Gli ismi che ci siamo trascinati dietro nel ‘900 vanno non certo buttati alle ortiche, ma considerati come strumenti “ottici” dotati di lenti costruite con metodi veramente vecchi e superati.
Soprattutto, ribadisco che si deve uscire al più presto dal mero economicismo; se poi si considerano principalmente i caratteri finanziari della crisi, l’analisi è ancora più povera e distorta. Infine va lasciata da parte la solita diatriba tra liberisti e keynesiani. Il libero mercato è una esiziale ideologia di distorsione della realtà; ma non certo migliore è quella grossa mistificazione dei fondamentalisti keynesiani, secondo cui il New Deal rooseveltiano ha fatto uscire dalla crisi del ’29. La crisi non dipende dalla domanda, tanto meno dal sottoconsumo (in Keynes almeno si tiene conto dell’investimento nella domanda effettiva). Nessuno sostiene che l’immissione di potere d’acquisto in una situazione di crisi non produca effetto alcuno; ma è come prendere un febbrifugo, che dà un po’ di sollievo, e credere di stare annientando il germe della malattia che ci ha colpiti. E’ bene usare anche il febbrifugo, ma poi, in assenza dell’effettivo germicida (che non esiste nella strutturazione sociale del capitalismo), si deve rinforzare l’organismo con appropriati ricostituenti onde trovarsi in non pessime condizioni quando si uscirà dal letto alla fine del “normale” decorso della malattia. I ricostituenti vengono “comprati” con strumenti finanziari, ma il mero ragionamento economico non consente affatto di individuare quali siano i migliori da usare e il come usarli; simili scelte spettano all’agire strategico che non rispetta i troppo elementari criteri economici dell’efficienza, bensì quelli dell’efficacia ai fini della potenza.
Vogliamo cambiare metafora? Il periscopio (l’economia) è certo un mezzo assai utile per osservare l’ambiente in cui il sommergibile si muove sott’acqua; ma è alla massa oscura di quest’ultimo, che mal s’intravede sotto il pelo dell’acqua, che dobbiamo dirigere le nostre “bombe di profondità” (le nostre teorie e le categorie d’analisi) per “affondarlo” e liberarci della sua minacciosa presenza. Se si colpisce il periscopio, si acceca la “causa-sommergibile” della crisi, ma questa, non affondata, comincerà a zizagare a casaccio sott’acqua e non si sa dove andrà a sbattere e quali guai combinerà.
Basta quindi con la crisi da domanda, rinforziamo il sistema-paese, trovando quelle forze che lo sappiano dirigere rimettendo ordine, combattendo ogni lassismo e caos; ma sappiano pure utilizzare i mezzi adatti ad incrementare l’influenza e la sistemazione del paese nel consesso degli altri. Abbiamo la fortuna di poter evitare, sicuramente per un buon periodo futuro, conflagrazioni mondiali di tipo novecentesco, data la già menzionata superiorità bellica statunitense, al presente piuttosto schiacciante. Debbono essere impiegati metodi più subdoli, flessibili e mutevoli politiche di alleanza, ecc. Non vogliamo rinunciare ai dominati? Intanto, cominciamo a ripensare il termine, che si adatta poco ai cittadini di paesi come il nostro, dove non esiste più il “quarto stato” del quadro di Pellizza da Volpedo né il proletariato che popolava le pagine di Germinal di Zola. Inoltre, la crisi rischia con il suo malcontento di creare condizioni sfavorevoli alla rivoluzione cui pensano coloro che hanno ancora in testa l’immagine della Rivoluzione d’ottobre nella Russia del 1917. La struttura sociale – con i suoi molteplici conflitti interni, raramente rivoluzionari – è tutta da ripensare, con una capacità innovativa che al momento ancora non si vede. Per intanto, non abbandoniamo quello che abbiamo, la capacità di reinterpretare i conflitti interdominanti (quelli tra coloro che assumono le decisioni veramente strategiche), indicando che cos’è puramente ideologico (tipo, appunto, la crisi da domanda) e che cosa invece è un inizio di scavo oltre la spessa coltre ideologica. E’ già tanto, lo si capisca infine!