LA CRISI NON E’ MATERIA DA ECONOMI(CI)STI (figuriamoci da filosofi).
E’ impossibile digerire quanto annunziano certi critici improvvisati del capitalismo i quali nella crisi, sempre ultima e irreversibile (ma quante ne abbiamo contate lungo i secoli?), individuano i sopraggiunti limiti del sistema, cosicché si ritiene, impropriamente, che persa la sua intrinseca dinamicità, esso possa sopravvivere soltanto ricorrendo alla rapina e all’imposizione coercitiva.
C’è in queste disamine una incomprensione profonda del modo di riproduzione sociale in essere. Innanzitutto, il carattere più generale della crisi capitalistica è la sovrapproduzione, infatti, non vi è scarsità o penuria di beni, come spesso accadeva in ere precedenti, ma loro eccesso rispetto alla domanda. Si tratta, senz’altro, di una crisi che determina impoverimento delle più larghe masse popolari ma pur sempre in un contesto di avanzamento produttivo in cui si susseguono scoperte tecnologiche, miglioramenti di processo e, soprattutto, realizzazione di nuovi prodotti, cui però non corrisponde l’aumento della capacità di acquisto delle masse. Molte merci restano perciò invendute, le imprese capitalistiche soffrono perdite, sono costrette a ridurre la produzione e le unità lavorative occupate; molte devono chiudere o persino fallire. Questa è la tendenza generale contrastata però dalla proliferazione di nuovi settori, ancora in fieri, destinati a decollare. E’ in corso un’altra rivoluzione che non ha mostrato ancora tutte le sue potenzialità in campi non “consuetudinari” o inespressi.
Certamente, chi perde il lavoro non consuma, facendo crollare ulteriormente la domanda di tali prodotti, a loro volta le imprese riducono quella dei beni di produzione smettendo d’investire e la crisi si allarga. Tuttavia, solo l’occhio più superficiale non vede che proprio nella crisi si manifesta il sintomo di una ristrutturazione o riconfigurazione che, in certi frangenti storici, va ben oltre i confini dello stesso sistema economico. Per esempio, la seconda rivoluzione industriale, verificatasi tra fine ottocento e inizio novecento, fu attraversata da una lunghissima stagnazione, proprio mentre si gettavano le basi di un grande balzo tecnologico e di profondi mutamenti geopolitici. Poiché la società capitalistica appare come un grande ammasso di merci è ovvio che i suoi terremoti più profondi si presentino in superficie con sconvolgimenti in questa sfera, prima a livello finanziario, poi della cosiddetta “economia reale” ed infine, nei rapporti di forza tra aggregati statali (a livello della sfera politica, dove si trova il vero nucleo della complessità sociale e dei suoi decisivi conflitti per la preminenza). A seconda delle fasi, le crisi possono annunciare minimi riaggiustamenti sugli equilibri preesistenti, ed in questo caso si parla più che altro di di recessioni, (con mutamenti che avvengono all’interno di un’area ad egemonia stabilizzata, avente un centro regolatore il quale può correggersi senza cedere potere) oppure, se nel frattempo si sono concretizzati degli accorciamenti nei differenziali di potenza tra formazioni nazionali, può essere messa in discussione tutta l’impalcatura anteriore (con perdita di capacità aggregativa del polo predominante e formazione di più poli di attrazione), ed allora, in questa eventualità, si parla di crisi sistemica. La nostra situazione attuale sembra corrispondere alla seconda ipotesi, poiché siamo passati da una stagione monocentrica, con assoluta supremazia statunitense, ad una multipolare con crescita di elementi regionali (Russia, Cina) che impediscono alla superpotenza di essere pienamente unilaterale nelle sue decisioni. La crisi contemporanea è dunque debacle da sregolazione geopolitica (accompagnata da importanti novità a livello tecnologico e produttivo, la cui portata si vedrà col tempo) che non annuncia il definitivo precipitare del capitalismo (il termine è ormai riduttivo per definire il nostro modo di riproduzione sociale, forgiato sul modello statunitense) nel finanziarismo parassitario ma l’inizio di una acerrima conflittualità tra aree e Stati per la supremazia mondiale, politica e poi economica. Cose piuttosto serie che gli sbrigativi filosofi o i superficiali economisti non possono cogliere.