LA CRISI (uno schema succinto)
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1. Fino a poco più di un anno fa, malgrado i numerosi segnali, tutti gli “esperti” e le “autorita” (nazionali e internazionali) continuavano a snobbare la crisi “in arrivo” (in realtà già arrivata) e tuttora in corso. Improvvisamente, tutti si sono messi a parlarne in termini sempre più allarmati: sarà la peggiore del dopoguerra, forse sarà simile al 1929, ecc. Dal pieno liberismo si è passati ai salvataggi (in specie, ma non solo, di banche) con massicci interventi statali; si è ricominciato a parlare di New Deal, i neokeynesiani hanno rialzato la testa e hanno creduto che fosse arrivata la loro rivincita più completa. Adesso, si afferma da più parti che il peggio è passato, che la ripresa avverrà nel 2010: prima, e un po’ più decisa, negli Usa e poi, nella seconda metà dell’anno, in Europa pur se in tono minore. Nel frattempo, la Cina si mantiene su ritmi ancora elevati di incremento produttivo (forse l’8% quest’anno) anche se inferiori al passato; e lo stesso dicasi per l’India.
Abbiamo trattato spesso di questa crisi (e dintorni) nel blog e sito; e continueremo a farlo (in mezzo a molti altri temi dell’attuale situazione, sia interna che estera). Qui posso solo, per ragioni di spazio, accennare a poche questioni, estremamente schematiche e certo insoddisfacenti. Innanzitutto, va messa in luce la solita presunzione e sostanziale ignoranza degli economisti ed esperti finanziari, che hanno una visione di assai corto respiro. Non sarebbe troppo grave, se essi stessi ammettessero l’impossibilità di previsioni meno che approssimative, più difficili ancora di quelle meteorologiche. Ciò che va loro rimproverato, è l’alterigia e sicumera con cui annunciano previsioni dettagliate fino al “tot virgola qualcosa” per gli andamenti di numerose variabili economiche. Essi poi si fidano in genere di pochi indici, che procurano informazioni di massima assai generiche, e soprattutto funzionano (nemmeno benissimo) in periodi di “normalità”; figuriamoci quando c’è una crisi grave in atto.
Sia i neoliberisti che i neokeynesiani – ma il panorama non cambia se ci rifacciamo ai critici radical o anche ai “marxisti” – sono affetti da quella grave deviazione che, nella storia del pensiero, è stata definita economicismo. Tutti hanno in testa schemi, formule, tabelle, indici, ecc. relativi all’economia; e al di fuori di questo “mondo” ristretto non sanno come muoversi. Dall’altra parte, i non pochi critici di questa autentica ubriacatura economicistica cadono, con atteggiamento di “raffinata” superiorità intellettuale, nell’altro corno del dilemma: la “crisi culturale”, la “caduta dei valori”, ecc. ecc. Qui si vuol prendere sul serio la crisi economica in atto, solo accennando a poche questioni di fondo.
Intanto, da quando c’è il capitalismo, la crisi inizia sempre dal lato finanziario. Scatenarsi contro il parassitismo dei banchieri, la loro scarsa eticità, il loro affarismo truffaldino, è come prendersela con la pioggia perché bagna. Nessuno si augura una stagione completamente secca, poiché si estenderebbe il deserto. Tuttavia, se piove, non possiamo pretendere che mai diluvi e non ci siano anche, periodicamente, allagamenti; e, se non produciamo impermeabili e ombrelli, o non si esce di casa oppure ci si inzuppa ben bene. La finanza è indispensabile – soprattutto in epoche di grandi cambiamenti e trasformazioni – poiché nel capitalismo la gran parte di ciò che è prodotto è merce e si deve scambiare mediante denaro. Senza quest’ultimo non solo non ci sono scambi, ma nemmeno investimenti e innovazioni, e neppure avanzata ricerca scientifico-tecnica; soprattutto non c’è la potenza, termine entro cui ricomprendo tutta l’attività politica, nel senso più lato possibile, senza la quale non ci si sviluppa né ci si difende dalla crisi e dall’arretramento di posizioni di fronte ai competitori.
Quando però c’è necessità di un dato mezzo, chi lo possiede ne approfitterà, in specie quando i bisogni d’esso aumentano (appunto nelle epoche di trasformazione); e approfittarne significa credere ad un certo punto di poter fare denaro tramite denaro, inventare trucchi, imbrogli, creare le famose “bolle speculative”, ecc. La “distorsione” del sistema è intrinseca al funzionamento specifico d’esso. Il settore che manovra denaro tende ad autonomizzarsi rispetto al resto, ha le sue imprese, ecc; quindi chi dirige queste ultime agisce come se tutto il mondo fosse solo quello della finanza.
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Lo ripeto: inutile lamentarsi, chiedendo allora nuove regole, una nuova etica, ecc. Più semplicemente, vanno messi “a regime” gli apparati finanziari; ma ciò avverrà fino alla prossima trasformazione con nuove grandi esigenze di mezzi monetari. La “storia” si ripeterà quindi con le solite modalità (anche se i subprime e i derivati sostituiscono altre precedenti forme di “malaffare” e saranno sostituiti, la prossima volta, da qualcosa d’altro).
I liberisti inneggiano alle virtù di un mercato, in cui i privati (imprenditori) siano lasciati fare liberamente i loro giochi competitivi; il male è l’intervento dello Stato (il “pubblico”), che altera le regole della concorrenza e non farebbe prevalere “i migliori”. I keynesiani semplicemente rovesciano il “giochetto”; il libero mercato – lasciato a se stesso, in mano ai privati – conduce alla crisi, per contrastare la quale occorre l’intervento “pubblico” tramite la spesa dello Stato. Entrambi hanno come loro orizzonte principale la domanda; quella privata basta (per i liberisti) oppure non basta (per i keynesiani). Il New Deal – una sorta di keynesismo ante litteram, poi in effetti sistemato teoricamente dal grande economista inglese – fu preso come prova che la crisi si risolve con la spesa pubblica aggiuntiva a quella privata, incapace, di per sé, di condurre il sistema alla piena occupazione dei fattori produttivi.
Dopo il 1933, il sistema galleggiò (qualche ripresa seguita da nuovo ristagno) fino alla seconda guerra mondiale, che risolse in radice il problema. Gli stagnazionisti (di lungo periodo), economisti di derivazione keynesiana, furono smentiti dal forte sviluppo del capitalismo (“occidentale”) nel dopoguerra, uno dei periodi di maggiore crescita di questo sistema sociale. Non fu quindi l’intervento pubblico di tipo “roosveltiano” a far uscire dalla crisi, ma la guerra. I keynesiani non si arresero – e non a caso dominarono la scena accademica fino alla fine degli anni ’70 – sostenendo che l’evento bellico aveva impresso grande impulso all’economia per merito della spesa statale (domanda “pubblica”) con particolare riferimento alle armi: producendole, si accrescono i redditi (salari e profitti), favorendo (“con moltiplicazione”) anche l’aumento della domanda privata. Tuttavia, le pur meno gravi crisi (recessioni) del dopoguerra non furono ben combattute con i metodi keynesiani: gli strumenti “pubblici” utilizzati per sostenere la domanda nella fase bassa del ciclo comportavano più inflazione che non crescita della produzione; si mettevano allora in atto manovre per frenare l’inflazione che però incidevano negativamente sull’economia reale.
E’ ora di cambiare impostazione. La crisi economica (con la finanza “in anticipo” per quanto già sopra rilevato) riguarda la “superficie” del sistema sociale, è un “sintomo”; certo doloroso, che colpisce in modo particolare la popolazione. Tuttavia, è esattamente quanto accade durante i terremoti, “semplici” fenomeni di superficie, sintomo ed effetto di grandi scontri tra placche tettoniche a ben maggiore profondità; sono tali fenomeni ad essere avvertiti come sconvolgimenti, piccoli o invece catastrofici, dalla popolazione delle zone colpite. Le crisi economiche più gravi interessano l’intero globo perché il sistema capitalistico è un sistema mondiale. Qui si inserisce la sottile mistificazione ideologica dell’economicismo nelle sue diverse correnti di pensiero. La crisi sarebbe mondiale perché l’economia globale è un insieme di “vasi comunicanti”; per cui, se ci si vuol salvare, bisogna farlo tutti insieme, guai se qualcuno pensa a se stesso. Poi, com’è sempre successo, ognuno (al massimo in alleanza con qualche altro) cerca di salvare se stesso; ma ognuno si compiace di gridare allora: come mai non abbiamo fatto tesoro del passato, perché ripetiamo sempre gli stessi errori?
Certo, economicamente il sistema è come i “vasi comunicanti”. L’economia – che pure, non si deve negarlo, è di importanza cruciale, non mai prima avuta in forme di società precedenti – è però la parte superficiale della struttura sociale. Le crisi economiche (i “terremoti”) sono dunque effetti di uno scontro tra “placche tettoniche”, cioè fra i diversi paesi, o gruppi di paesi “alleati” (in forma sempre provvisoria), in reciproco conflitto più o meno acuto nelle diverse fasi dello “scorrimento” storico. Malgrado questo conflitto, il sistema complessivo è in relativo equilibrio (al massimo conosce delle recessioni) quando attraversa una fase monocentrica, in cui un paese “predominante” – il
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più avanzato nei settori dell’ultima “rivoluzione industriale” o “ondata innovativa” (distruzione creatrice in termini schumpeteriani) – gioca il ruolo di suo coordinatore generale: ruolo che il paese in questione assume proprio in quanto predominante e centro del sistema.
Si pensi alla fase monocentrica dominata dall’Inghilterra (fino a circa metà ottocento) o a quella esistente nel mondo “occidentale” (compreso il Giappone) dopo la seconda guerra mondiale, dominata dagli Usa. Lascio qui impregiudicato che cosa rappresentò il cosiddetto campo “socialista” nell’epoca storica del mondo bipolare. Dopo il 1989-91, però, il monocentrismo (statunitense) sembrò estendersi all’intero globo fin verso i primi anni duemila, mentre oggi siamo nuovamente in avanzata verso il multipolarismo quale probabile transizione ad un più compiuto policentrismo, simile (ma con caratteri certo molto differenti) a quell’epoca, detta dell’imperialismo, che va all’incirca dagli ultimi decenni dell’ottocento alla prima guerra mondiale, con un’importante coda fino alla seconda (malgrado la presenza dell’Urss). Cerchiamo di mantenere una memoria storica: in quella fase “imperialistica”, nel corso dell’aperto scontro tra potenze, si compì una grande trasformazione della società capitalistica.
Ancora una volta, essa venne economicisticamente considerata quale passaggio dalla concorrenza al monopolio, instradando l’analisi teorica lungo una via “improduttiva”. Si trattò invece soprattutto di una complessa riconfigurazione geopolitica globale con sviluppo ineguale delle diverse formazioni capitalistiche e transizione dall’ormai avvenuto declino della supremazia centrale inglese all’ascesa di quella statunitense. La seconda rivoluzione industriale accompagnò questa fase, mentre a lungo, nella sfera finanziaria, fu ancora prevalente la Borsa Valori di Londra. La grande trasformazione in oggetto fu caratterizzata dalla lunga stagnazione del 1873-96, che in un certo senso ne segnò l’inizio.
4. Intanto, quindi, segnaliamo che la crisi non è necessariamente un periodo di involuzione; alla decrescita degli indici economici – in genere prima quelli finanziari e poi quelli reali – si accompagna talvolta un effettivo sviluppo della società, nel senso della trasformazione rapida e sconvolgente dei suoi rapporti; e non semplicemente per quanto riguarda le strutture interne della società capitalistica, bensì anche (e soprattutto) per ciò che concerne le relazioni internazionali, i rapporti di forza tra i diversi paesi capitalistici. Le crisi più gravi – poiché sono quei fenomeni di superficie (i “terremoti”) di cui già detto – possono essere, fondamentalmente, di due generi: quelle tipo 1907 e 1929, che coadiuvarono (non provocarono) gli scontri tra potenze e da cui si uscì, infine, con le grandi guerre del 1914 e del 1939; oppure la crisi prolungata di sostanziale stagnazione (in cui si verificano brevi crescite degli indici economici, seguite poi da cadute dello stesso tipo), che di solito accompagna – appunto come manifestazione “di superficie” – una fase di transizione (policentrica) da una data configurazione geopolitica e sociale ad un’altra.
Difficile stabilire adesso, senza esitazioni, la tipologia (principale) della crisi attuale. Tuttavia, mi sembra che il quadro internazionale sia sostanzialmente definito: a) da un’ancora netta superiorità bellica degli Usa (e dico bellica in senso assai ampio, non riferendomi al solo aspetto strettamente militare); b) da una sostanziale prevalenza dello stesso paese per quanto riguarda i settori della più recente ondata di distruzione creatrice (che del resto favorisce anche la preminenza indicata nel precedente punto); c) da un avvio di multipolarismo che dovrebbe condurre in direzione del policentrismo con il successivo, non però prossimo, regolamento di conti tra potenze (gli Usa e quelle in rafforzamento “a est”), che non necessariamente deve essere pensato nei termini delle grandi guerre novecentesche (si tratterà probabilmente di fenomeni assai diversi, ma pur sempre di carattere nettamente conflittuale).
La previsione più credibile sembra dunque essere quella di una fase abbastanza lunga di relativa stagnazione, che non esclude brevi impennate, nel quadro però di una debole crescita (soprattutto in “occidente”) degli indici economici nel lungo periodo (mi riferisco più a questi che a quanto accadrà nei prossimi due-tre anni). Si verificherà probabilmente una nuova profonda trasformazione a livello sia della società – che continuiamo a definire capitalistica – sia della configurazione geopoli-
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tica globale, nell’ambito di forti, e pericolose, turbolenze, solo coperte dalle dichiarazioni “epocali”, in realtà puramente verbali, di questo o quel “grande capo” di questa o quella potenza; o delle varie “autorità” internazionali o dei governi che (stra)parlano di cooperazione, dello “stare insieme”, del non commettere gli errori del passato, di darsi nuove regole etiche, e altre “banalità” simili.
Ovviamente, queste non sono profezie, bensì previsioni destinate a rivelarsi con “ottima” probabilità errate (non penso però totalmente). Tuttavia, credo si debba procedere così in campo scientifico, dove non si pretende di fare i “guru”. Si usa il ben noto e semplice “sbagliando s’impara”; si formulano cioè ipotesi e, sulla base degli scarti tra queste e gli andamenti “reali”, si procede a periodici, piccoli o grandi, aggiustamenti. Mi scuso, concludendo, per lo schematismo usato in questa sede.
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