La cura (Di R. Simonitto)
Anche se all’apparenza poteva sembrare un giorno come tutti gli altri quella mattina aveva un vago sentore che non fosse proprio così, anche se non avrebbe saputo dire se quello strano percepire derivasse da qualche cosa di esterno a lui oppure da dentro di lui.
Decise di non pensarci: se qualche evidenza si fosse palesata ecco, lui era pronto ad afferrarla. Si sistemò meglio il plaid sulle gambe e, senza accorgersi, scivolò nel sonno coadiuvato dalla tiepida aria di fine aprile e riparato, in quell’angolo di terrazzino, dagli smaniosi refoli di vento.
Ma anche il colpo di tosse che bruscamente lo risvegliò, non era il solito: aveva l’impressione che fosse portatore di un qualche messaggio, come quando si ha la strana percezione che qualcuno busserà alla tua porta e poi, inopinatamente, ciò accade.
Si tirò su di brusco e si guardò attorno. Nulla di diverso, i suoi compagni di avventura (se così si poteva chiamare quella stramaledetta esperienza di reclusione forzata…, sì, esperienza, come aveva sentito dire da echi di dibattito arrivati fin lì, e da parte di chi, ovviamente, non era lì e che cosa ne sapevano loro dell’esperienza… se la patisci soltanto… non ne fai nulla…, ma non era quello il momento di recriminare…).
Si diede uno sguardo attorno, cercando di perlustrare visivamente non solo quelle angolazioni che, dandole per assodate quotidianamente, ci aspettiamo di trovarle sempre lì e invece. se ci soffermassimo un po’ faremmo inedite scoperte. Tutto immobile, tutto quieto: il silenzio gravava sovrano, anche i cani vi si erano adeguati. Sorrise tra sè e sé: povere bestiole costrette anche loro a subire qualche cosa di inconcepibile che si era abbattuto improvvisamente lasciando tutti nello sgomento. E lo sgomento, si sa, attutisce lo spirito di ribellione: non si può nemmeno abbaiare, tutt’al più, guaiolare.
Proveniente dal bordo del terrazzino, una lama dorata lo colpì d’improvviso: un fiore di tarassaco, abbarbicato in modo periglioso sopra l’abisso, con il suo capolino d’oro sembrava cantare una canzone. Bah, più che muovergli un senso di tenerezza non successe altro.
Dall’emergere di questi turbamenti, comunque, del tempo era passato, forse si approssimava l’ora della colazione (lì erano molto puntuali): forse era soltanto un poco agitato per la situazione insolita in cui era venuto a trovarsi e non c’è nulla di peggio che sentirsi impotenti davanti a qualche cosa che ci sovrasta.
Buttò lo sguardo sulla montagna che si stagliava davanti a lui e non la vide mai così minacciosa. Ne prese paura al punto che si rannicchiò sulla sdraio tirandosi il plaid quasi fino agli occhi.
La montagna. L’aveva sempre titolata dentro di sé con la maiuscola, come l’espressione di un condensato di significazioni, da quelle più fantastiche a quelle più realistiche, ma che comunque manteneva sempre un alone di mistero misto a sfrontatezza e questo la rendeva seducente e pericolosa.
La montagna. Le sue vette e le sue viscere insidiose. Mai come, nel vedere la prima volta una montagna, aveva avuto l’esperienza plastica della coesistenza dell’Uno e del Molteplice: bastava girarci attorno e lei non sembrava già più la stessa, vista da altre prospettive non la riconoscevi quasi più!
Ma che cosa voleva dirgli, se di un possibile discorso si trattava, quella montagna che si ergeva lì davanti a lui come una minaccia incombente? Che il mondo stava cambiando e lui non se ne era accorto? O che forse era GIA’ cambiato ma lì, su in alto, in quel territorio protetto dove lui si trovava, non era arrivato sentore alcuno?
Ricominciò a tossire e la cosa non gli piacque: che significato poteva avere tutto ciò? un peggioramento? che erano segni premonitori negativi e che la cura che stava facendo era insufficiente, insufficiente l’isolamento a cui era costretto per cui veniva privato anche degli ultimi residui di vita? O, invece si trattava di quello sguardo minaccioso che si profilava di contro a lui come un monito… Al singulto della tosse si unì il singulto del riso! Si sentì stupido!
Ma non eravamo mica tornati al Medio Evo, l’espiazione dei peccati in particolare modo quello della Superbia, o quello di cedere alla seduzione di forze demoniache, a Satana, che contamina e distrugge tutto…
No, così non ne veniva fuori.
Osservò il movimento del sole per capire, dall’ombra che proiettava, quanto tempo aveva ancora prima di sentire il suono della campanella per il pasto condiviso con gli altri ospiti.
Notò che il Sole era allo Zenit ma la montagna non ne era illuminata, anzi, rimaneva in un’ombra resa ancora più nera dallo sfavillare della luce in cielo. Ma si ricordò che una cosa analoga accadeva anche al mattino: dal suo punto di osservazione il sorgere del sole non illuminava la montagna bensì le faceva proiettare la sua ombra davanti a lei. Non diversamente accadeva alla sera, in quel particolare periodo dell’anno: la luce del tramonto cadeva obliqua e lasciava più scuri che chiari. In altre parole si rese conto che quella montagna non veniva mai illuminata! Che significato questo poteva avere? Chi e che cosa rappresentava l’incanto di quella montagna? La sua irrapresentabilità?
Il suono della campanella ruppe il silenzio e il percorso dei suoi pensieri.
L’oppressione al petto si faceva sentire un po’ più forte anche se lui non voleva assecondare quella sensazione dandole magari un risalto eccessivo.
I suoi compagni di “avventura”, diligentemente avevano preso il loro posto e, forse per scaramanzia o sedare la loro paura, parlavano a voce alta da un lato all’altro della stanza, raccontandosi delle storie gustose, accennando a qualche canzoncina sottolineata dal coro delle posate battute sui bicchieri, mentre gli inservienti non intervenivano lasciando che questa rappresentazione si esaurisse da sé.
Non potè non venirgli in mente il tragico racconto di E.A. Poe, “La morte rossa”: là, in quella stanza isolata dal mondo malato, quei convitati pensavano, in quanto privilegiati, di essere scampati da quella ecatombe che si stava compiendo là fuori , giù sotto. Ma invano!
Anche oggi, con una liturgia macabra, là sotto si stava celebrando un’altra guerra, con armi più sofisticate, ma l’esito era sempre quello: acquisire il potere. E chi lo avrebbe preso, questo potere? Gli inetti, gli sciocchi che confondono l’individualità con l’individualismo? Rabbrividì. Avrebbe voluto uscire ma bisognava rispettare le regole stabilite dall’Istituto.
Avrebbe dovuto essere contento che ci fosse qualcuno sopra di lui che vegliasse non soltanto su lui, sul suo benessere ma anche su quello degli altri. Perché non lo era?
Che cosa voleva di più? Dall’ampia vetrata di quel refettorio monacale, poteva vedere la montagna che si profilava davanti a lui come un monito.
Ma di che cosa? Di non perdere altro tempo, forse?
Cercò di alzarsi, ma, in modo maldestro e per debolezza, perse l’orientamento e solo fortunosamente non cadde a terra!
Avrebbe voluto trasmettere i suoi affanni alle persone che, attorno a lui, cercavano di sopravvivere a quella reclusione forzata, certi che, una volta usciti, tutto sarebbe tornato come prima.
Ma la montagna sembrava dire di no, nulla poteva tornare come prima perché questo era soltanto l’antipasto!
Bisognava agire, fare qualche cosa! Se non altro segnalare l’equivoco in cui tutti stavano cadendo credendo cioè che quella e solo quella, la pandemia, fosse l’emergenza che bisognava contrastare! No. Quello era soltanto il fenomeno, come gli stava dicendo la montagna: non sono io ciò che vedi ma c’è dell’altro.
In quello consisteva la cura: nell’andare oltre l’apparire.
Il respiro gli stava mancando e gli faceva annebbiare la vista. Chiese all’inserviente di poter uscire nel suo terrazzino e lì gli sembrò di ritrovare un po’ di ristoro.
Il fiorellino di tarassaco lo guardò e gli sorrise (o almeno così gli parve).
Come resistere a quell’invito...
Si chinò verso di lui e, mentre stava per accarezzarlo, gli mancò l’equilibrio, sfondò la vetrata protettiva e precipitò nell’abisso.
Conegliano, 07.04.2020
Rita Simonitto