La distinzione tra pubblico e privato; ormai vetusta
Ancora una volta, si sono volute confondere le acque (in tal caso proprio in senso letterale) tra pubblico e privato. Il pubblico è ciò che, nella sola forma, appartiene allo Stato o a Enti che da questo traggono la qualifica di agenti dell’interesse generale, collettivo. Lo Stato riguarda una collettività nazionale, gli altri Enti quelle “locali”: regionali, comunali, ecc. Il privato riguarda singoli individui (o gruppi di individui stretti in quelle che vengono dette società, la cui proprietà spetta per quote, azionarie o d’altro tipo, ai singoli individui). Tutto sembra chiaro, perché il diritto è sempre molto chiaro, salvo poi consentire a schiere sempre più vaste di legulei di “vivere” (lavorando, per carità, magari dieci ore al giorno) a spese delle continue controversie che esso provoca, sia quando è diritto privato sia quando è pubblico.
Abbandoniamo il diritto al suo destino. Le imprese – questi organismi cui è affidata la produzione di “beni” e “servizi” – vengono, siano pubbliche o private, gestite e controllate da gruppi di individui, i manager, che devono dirigere i processi produttivi secondo un’organizzazione e coordinamento di gruppi di lavoro, più o meno numerosi, differenziati in varie mansioni di più o meno alta qualifica, cui corrispondono retribuzioni più o meno elevate. Salvo il fatto che, sia nel pubblico che nel privato, non sempre, anzi quasi mai, le differenze nei livelli delle retribuzioni rispondono a criteri strettamente legati alla reale valutazione di quanto i diversi gradi di qualifica apportano alla produzione. Anche perché l’apporto dipende pur sempre dal coordinamento. Chi sta in alto si sentirà sempre artefice della produttività (l’apporto in questione così si chiama) dei sottostanti da lui coordinati. Questi ultimi si lamenteranno perché le differenze di retribuzione, nei vari gradini di un lavoro comunque “combinato” (in cui non possono mancare le differenti articolazioni anche disposte in verticale), sono eccessive.
L’economia tradizionale se la cava facendo ricorso al concetto di scarsità; quanto più è alto il gradino gerarchico (che si presuppone maggiormente qualificato e capace) tanto più aumenta, ed in modo esponenziale, la scarsità di offerta di quel “fattore”, e tanto più esso deve perciò essere pagato. Quando però scoppiano crisi, del tipo dell’ultima, si scopre che vi erano dirigenti di banche pagati eccessivamente, pur avendo dimostrato incapacità. Naturalmente, l’incapacità (e non sempre reale, spesso presunta per coloro che hanno meno appoggi di altri) viene alla luce solo a causa della crisi sistemica; e poiché quest’ultima appare più chiaramente, ed in prima istanza, nel sistema finanziario, è qui che vengono lamentati gli “eccessi” di retribuzione. Tuttavia, gli stessi “eccessi” esistono in realtà anche nel sistema industriale.
A parte questi difettucci, l’economista tradizionale è convinto di evidenziare che, mediamente, i dirigenti (nei loro vari livelli) – e, più in generale, i lavoratori delle varie qualifiche e produttività – sono pagati in base alla maggiore o minore scarsità d’offerta di quelle specifiche capacità, qualora il tutto avvenga in un’impresa privata dove la misura dell’efficienza è data dal profitto d’impresa, che si riflette (molto imperfettamente invero) nei dividendi azionari e negli emolumenti che possono distribuirsi i consiglieri d’amministrazione e i massimi dirigenti. In un’azienda pubblica, ahimè, non sempre vi sono sicuri criteri di efficienza. Inoltre, anche laddove esiste la possibilità di applicarli, si eludono spesso poiché più facilmente vigono scelte politiche decise da organi dell’amministrazione pubblica, dove contano amicizie, protezioni, nepotismo, servilismi di vario genere (fra cui quello di procurare voti al “protettore”), ecc. Le perdite vengono, anche per periodi di tempo lunghissimi, ripianate con denaro raccolto spremendo la “collettività” mediante imposizione, o con emissione di titoli di debito pubblico; o anche stampando moneta che tuttavia, in mancanza di una contropartita in termini di aumento della produzione – ovviamente in un congruo periodo di tempo, che tenga conto degli andamenti del ciclo – può provocare inflazione; quindi, di fatto, ancora una volta è la collettività a dover pagare l’eventuale inefficienza del pubblico e il sovraccarico di costi per personale di scarsa produttività (a tutti i livelli, qualifiche e retribuzioni del lavoro).
I difensori del pubblico risponderanno che certi beni devono essere forniti comunque da un organo di amministrazione generale degli interessi collettivi, non rispondente a criteri di profittabilità per singoli gruppi (privati) di proprietari di impresa. I dirigenti di imprese pubbliche – e più in generale i lavoratori di vari livelli – che non rispondessero a criteri di efficienza, che dilapidassero denaro pubblico, ecc., sarebbero puniti da coloro che, nella sfera politica dello Stato, sono responsabili verso i cittadini del buon andamento di quelle imprese. E se essi non adempiono al loro dovere di sorveglianza e di assunzione, ma anche di licenziamento, in base a criteri di “sana” gestione, sarebbero poi puniti nelle mitiche “elezioni democratiche”. Ragionamento quanto mai contorto e sovranamente infantile. Appurare dove c’è cattiva gestione, dove si verifica la sottrazione di profitti aziendali per finalità politiche o personali o anche semplicemente nascoste (talvolta persino per ragionevoli motivi), dove si procede all’assunzione di personale eccessivo e/o poco capace per puri motivi clientelari, ecc. è assai difficile; le scuse e gli scaricabarile sono di facile gestione.
In ogni caso, pretendere che i Governi (nazionali o locali), nominati da una maggioranza di eletti dalla collettività (nazionale o municipale, ecc.), controllino tramite i Ministeri (o assessorati) economici (o uno a ciò specificamente addetto) imprese pubbliche dedite alla produzione di beni o servizi è quanto meno ingenuo. Se ci sono situazioni particolarmente disastrate, è in qualche caso possibile “punire” i colpevoli (per incapacità o corruzione o altro). In generale, però, paga soltanto chi, per ben altri motivi e altri elementi di debolezza, è in discesa presso la sedicente opinione pubblica, ben manovrata in genere da poteri economici e politici in lotta fra loro. Certamente, si può pagare anche per una politica economica carente (è più raro comunque che per altri motivi politici), ma difficilmente per l’andamento, efficiente o meno, delle imprese pubbliche; che lo sono solo giuridicamente ma, come ogni altra impresa, devono essere guidate da più complesse motivazioni d’ordine non solo gestionale e di mera profittabilità (nemmeno nelle private vige il solo criterio del guadagno economico e finanziario).
2. Gli economisti, gli amministratori, ecc. cercano la scappatoia nello stilare una complessa casistica di beni e servizi che dovrebbero – per intima natura, per le caratteristiche della “cosa stessa”, insomma per la loro utilità generale, cioè per il soddisfacimento di bisogni ritenuti collettivi e non distinguibili interindividualmente – essere assegnati alla gestione pubblica; mentre altri beni potrebbero più utilmente, e con efficienza (il criterio del minimo costo o massimo prodotto), essere esitati da imprese gestite privatamente. Per i primi, sarebbe semplicemente “immorale” pensare che li si produca perseguendo il profitto, di cui godono singoli gruppi di individui; mentre per i secondi una produzione da parte di chi è interessato a guadagnarci potrebbe favorire l’economia dei mezzi impiegati, il miglioramento delle attrezzature e impianti fissi, una maggiore celerità del servizio, ecc.
Molti sono i dubbi circa questa possibilità di cercare la divisione tra pubblico e privato in una sorta di “cosa in sé” relativa a beni e servizi. Istruzione, sanità, trasporti, ecc. dovrebbero essere “in sé” di natura pubblica. Difficile capire perché le Università anglosassoni (in particolare americane) siano, non tutte è vero, ad un livello superiore di quelle scassate italiane. Però, si obietta, costano moltissimo agli utenti, che pagano tasse elevate. Alla fin fine, si ripiega sull’indicazione che almeno l’istruzione di base deve essere fornita a bassi costi dallo Stato. Tuttavia, ormai è noto a quali bassissimi livelli sia arrivata tale istruzione in tutti i paesi detti avanzati. Anche per l’istruzione sembra doversi dire ciò che è ormai dimostrato per il movimento operaio: quest’ultimo ha mostrato la sua “efficienza” (cioè una radicalità di lotta che ha ingannato i marxisti e ha fatto credere che si trattasse della “classe” affossatrice del capitalismo) quando era nella fase della prima industrializzazione, del passaggio dalla prevalenza contadina a quella operaia. Passata tale fase, la “classe” è sparita, inghiottita dal livellamento della riproduzione dei rapporti capitalistici, pur essi modificatisi rispetto alle prime fasi di sviluppo di tale modo di produzione, quando dalla borghesia mercantile siamo passati a quella industriale, ecc.
In realtà, infatti, nell’epoca in cui l’accumulazione capitalistica era ancora promossa da un grandissimo numero di “punti” (imprese), ognuna delle quali non aveva capitali giganteschi per approntare certe infrastrutture (trasporto, energia elettrica, sistema di strade, porti, ecc.), era evidente che lo Stato – organo considerato dal marxismo, abbastanza correttamente a quell’epoca, quale semplice strumento della borghesia capitalistica (proprietaria privata) – sopperiva a simile tipo di investimento. E’ a quell’epoca che si è formata l’ideologia della differenza tra privato (solo basato su interessi particolari) e pubblico (fondato su quelli generali della collettività, mentre era solo utile alla riproduzione dei rapporti del capitalismo borghese, detto della “libera concorrenza” tra imprese di dimensioni oggi considerate al massimo medie). Una ideologia non particolarmente marxista, ma che è stata assorbita pure dai marxisti delle ultime generazioni ormai degradati a corifei delle ideologie dominanti del tipo più arretrato, quelle ancora ottocentesche, oggi quindi propriamente reazionarie, quelle che un tempo si potevano definire piccolo-borghesi.
Ora non è più possibile tale definizione. La piccola borghesia era una classe residuale che pian piano scomparve sotto i colpi dell’accumulazione dei grandi capitali e della trasformazione della mera classe proprietaria in gruppi manageriali o ancor più di tipo strategico/imprenditoriale (con proprietà o meno, non era più questo il criterio principale, ma solo sussidiario). Il mantenimento e recupero delle ideologie “piccolo-borghesi” ha quindi attualmente tutt’altro significato, prettamente reazionario e di supporto alla grande modernizzazione capitalistica; fa da controcanto a quest’ultima e serve mirabilmente quei gruppi grande/capitalistici che, essendo cresciuti sulla base delle passate fasi dell’industrializzazione e opponendosi al rafforzamento dei gruppi delle nuove e più avanzate fasi, si alleano con gruppi di un diverso paese predominante, garantendo così i propri interessi al servizio però del predominio del suddetto paese (chi ha orecchi per intendere di chi stiamo parlando in Italia, intenda).
Riprenderemo questo discorso, interessante per capire come oggi i più reazionari sono quelli che ancora si fregiano della prassi (conflitto capitale/lavoro) e della teoria (marxismo) che ebbero tutt’altro significato quando appunto l’accumulazione capitalistica era quella borghese (classe dei proprietari privati). L’importante è capire che tutto è mutato quando le grandi concentrazioni dette monopolistiche – confondendo la grande dimensione delle unità capitalistiche fra loro in conflitto strategico con una semplice forma di mercato; ecco il degrado del marxismo ad economicismo, cui poi si oppone, in solidarietà antitetico-polare, l’altrettanto becera degenerazione del falso marxismo in “religiosa” filosofia dell’Uomo – diventano capaci di mettere in piedi le gigantesche infrastrutture (di servizio, trasporto, ecc.) tipiche del pubblico. I grandi aeroporti non sono più soltanto pubblici. Non lo sono più grandi società di servizio energetico (apparentemente pubbliche, ma che scelgono la forma della società per azioni per attirare anche capitali privati).
Nella Sanità si continua a dire che certe attrezzature costose sono solo alla portata del “pubblico”, ma questo è sempre meno vero; ormai grosse società che mettono in piedi centri privati di medicina si stanno dotando delle migliori attrezzature. Resta il costo (prezzo) del servizio per il cittadino a livelli non alti di reddito, ma che rivolgendosi al “pubblico” si deve allora accontentare di un servizio di cui è evidente il degrado, i ritardi, ecc. Per quanto riguarda esami, accertamenti diagnostici, visite specialistiche, ecc. fino a certi livelli di prezzo (livelli via via più elevati ogni anno che passa), si è notato un costante incremento del ricorso ai centri privati sempre meglio dotati di attrezzature e personale medico e paramedico.
Mi dispiace, ma sempre più è evidente, salvo che in un paese di popolazione particolarmente arretrata quanto a cultura moderna come il nostro, che la distinzione pubblico/privato è ormai una questione di lana caprina; non tiene proprio più ed è bene escogitare altre distinzioni e differenziazioni.
3. Nel socialismo (parlo di quello detto poi “reale”, cioè quello dei paesi in cui noi abbiamo pensato per molto tempo che fosse in essere la “costruzione del socialismo”) non si fecero affatto distinzioni “di natura” fra i beni e servizi prodotti. Guardando ai rapporti fra classi sociali, si superò il semplice concetto dello scopo della produzione: per il profitto di gruppi particolari nel caso del privato, o per il sedicente interesse collettivo, generale, nel caso del pubblico. Ripeto che questa differenza rimane tuttora per la reazionaria sinistra odierna, tributaria a volte di un marxismo totalmente degradato, umanitario, intriso di morale cristianeggiante; nell’ambito del quale alcuni, per fregiarsi dell’aureola scientifica, recuperano uno statalismo – della spesa appunto pubblica, sempre quindi ponendosi dal punto di vista della domanda e del consumo – di impronta keynesiana. Per quanto riguarda Keynes, siano gli studiosi seri di quest’ultimo a giudicare quanto di keynesiano vi sia in certi “sinistri” odierni; per quanto riguarda Marx ci penso io ad emettere un giudizio totalmente sprezzante sui falsi, degenerati, disonesti, marxisti che lo “maltrattano”.
I veri marxisti e leninisti sapevano che la produzione è appropriazione della natura per strappare ad essa quanto necessario a vivere in forme (dei rapporti) sociali, che hanno conosciuto una plurimillenaria storia evolutiva. Chi prende le mosse dal consumo (quindi dalla domanda) è lo “scienziato” (ideologo) della sedicente economica, il cui asse centrale, pur quando tratta di quantità aggregate (macroeconomiche) secondo l’impostazione keynesiana, è rappresentato dal rapporto tra individuo e cose (scarse) necessarie a soddisfare i suoi molteplici bisogni, ordinati in una gerarchia – spesso troppo rigida, quindi sempre bisognosa di continui aggiornamenti – che li distingue in primari, secondari, ecc. Per il marxismo, ogni appropriazione della natura non può mai avvenire se non nell’ambito di forme, storicamente mutevoli, dei rapporti sociali. Per una ricerca scientifica intorno ai problemi della produzione, dunque, la premessa d’obbligo è l’individuazione di tali forme. La supposizione di un “singolo soggetto” (magari anche “collettivo”, come ad esempio un’impresa o addirittura lo Stato nella sua indistinta rappresentazione di organo della collettività nazionale) in rapporto con il mondo (delle cose da domandare perché necessarie alla sua esistenza) ha al massimo utilità per una teoria delle scelte nell’ambito di una forma sociale già storicamente data, accettata per quello che è e non indagata nella sua dinamica evolutiva, con i vari conflitti tra gruppi sociali (classi) da cui quest’ultima deriva.
Poiché, per il marxismo, sono di fondamentale rilevanza gli strumenti (i mezzi) con cui la società strappa alla natura i mezzi del suo sostentamento (in evoluzione storica), viene posta come cruciale, per l’indagine relativa alle forme sociali nel cui ambito si produce, la proprietà di questi mezzi di produzione. Le forme giuridiche, del resto sviluppate solo nel capitalismo, sarebbero soltanto la codificazione a posteriori (e sempre in ritardo) di un potere reale di controllo sui mezzi di produzione. Contano quindi le condizioni storico-sociali di questo potere reale; il mutamento d’esse implica il passaggio attraverso grandi epoche della produzione (appropriazione della natura attraverso la società), caratterizzate dunque da diverse formazioni sociali; l’una nasce dall’altra attraverso formazioni di transizione, di carattere turbolento e spesso indefinito, caratterizzate da rivoluzioni o altri fenomeni di intenso “travaglio” della società (dei rapporti tra i vari raggruppamenti sociali; rapporti e raggruppamenti che vengono entrambi trasformati fino a nuove relative stabilizzazioni).
Il problema del pubblico e del privato, per il marxismo, si deve porre quindi in relazione a questo potere reale di controllo dei mezzi produttivi; perché chi li controlla ha pure il controllo della produzione sociale e della sua destinazione. Non ha alcuna rilevanza la “cosa in sé” dei beni e servizi prodotti; anzi non si distingue tra beni e servizi, si parla di prodotto e basta. Chi controlla la produzione? Chi ha il controllo dei mezzi di produzione, qualsiasi cosa produca. Ben si sa che nelle società dette socialiste si pensò alla proprietà statale del mezzi produttivi (immaginando all’inizio uno Stato di struttura particolare, pienamente in possesso del proletariato divenuto classe dominante) quale proprietà della società; da ciò discendeva la completa disponibilità collettiva della produzione e delle sue molteplici destinazioni, compresa l’accumulazione per incrementarla. Il tutto senza più profitto individuale, bensì vantaggio collettivo.
Non sto certo a riprendere in mano il dibattito svoltosi per decenni in funzione critica di simile credenza, tanto più che oggi pensare all’esistenza dello Stato quale dittatura del proletariato, all’esistenza del socialismo in quanto proprietà collettiva e pianificazione della produzione e delle sue destinazioni (al consumo, all’investimento, il tutto sempre deciso dall’immaginaria collettività dei produttori associati), è esercizio non più compiuto se non da piccole enclaves di zombi. E’ però importante ricordare comunque l’avanzamento teorico che, pur attraverso la speranza delusa della creazione di un controllo collettivo della produzione, è stato compiuto dai fautori del socialismo in quanto formazione di una nuova società retta dalla volontà collettiva. Lo Stato non era più un’entità quasi metafisica, eretta al di sopra della società (poi lo fu, ma perché il socialismo si rivelò il contrario di quello che diceva d’essere) e che avrebbe dovuto dedicarsi ai suoi bisogni generali.
Lo Stato doveva semmai assicurare il trapasso del controllo reale dei mezzi (strumenti) per ottenere la produzione da gruppi particolari, dediti al proprio guadagno, all’intera collettività. Questo trapasso era però soltanto aiutato, facilitato dall’azione dello Stato; che sarebbe stato una dittatura della maggioranza della società sulla minoranza dei gruppi tesi all’appropriazione privata, ormai espropriati dei mezzi produttivi e quindi impossibilitati a perseguire un simile scopo. Non doveva però trattarsi di una costruzione artificiale ottenuta per pura costrizione, che diventa allora quella promossa, per proprio vantaggio, dai gruppi di potere che controllano l’apparato dello Stato tramite il controllo dell’apparato del partito; il processo si sarebbe svolto mediante la formazione di una maggioranza della società costituita realmente da lavoratori associati. Lavoratori del braccio e della mente, possessori delle potenze mentali della produzione cooperanti con gli esecutori, “l’ingegnere e il manovale” quasi fusi insieme nel gruppo collettivo che produce in stretta cooperazione.
Si valuti questo passo di Marx (dal “Il carattere di feticcio della merce, ecc.” nel I capitolo de Il Capitale):
“Immaginiamoci infine, per cambiare, un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendano coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale. Qui si ripetono tutte le determinazioni del lavoro di Robinson, però socialmente invece che individualmente. Tutti i prodotti di Robinson erano sua produzione esclusivamente personale, e quindi oggetti d’uso, immediatamente per lui. Il prodotto complessivo dell’associazione è prodotto sociale”.
In definitiva, secondo Marx, con mezzi di produzione collettivi e non più in mano a gruppi privati – e senza badare alla natura degli elementi che compongono la produzione sociale – si riproporrebbero per la società nel suo complesso le categorie dell’economica dominante: la società produrrebbe i mezzi di consumo e quelli di produzione (in parte per ricostituire quelli consumati e in parte per ulteriore accumulazione) ad essa necessari, utilizzando quanto viene prodotto per riprodurre la sua vita associata in modo consapevole e seguendo criteri di efficienza, cioè secondo il principio del minimo costo o del massimo prodotto.
Nessuna distinzione tra ciò che per sua natura dovrebbe essere affidato a questa entità astratta, e separata dalla società, chiamata Stato e ciò che potrebbe essere lasciato al guadagno di gruppi privati di cittadini, che usano dei mezzi di produzione per il proprio specifico arricchimento. Lo Stato sarebbe soltanto servito in quanto, e fino a che rimanesse, promotore della fusione del lavoro delle varie specie e mansioni in un lavoratore complessivo formato da una collettività cooperante, che avrebbe usato gli strumenti per produrre senza alcuna prospettiva di appropriarsene al fine di impiegare lavoro salariato (forza lavoro in qualità di merce).
4. Nessun dubbio che il socialismo, nelle forme pensate per un secolo da rivoluzionari e riformatori sociali, sia fallito. Non è stata in effetti individuata la strada in grado di condurre alla reale proprietà (potere di disporre) dei mezzi per appropriarsi la natura (quella che chiamiamo produzione) da parte di lavoratori associati (mente e braccio cooperanti non più nello stesso individuo artigiano, ma collettivamente negli opifici di trasformazione di materie prime in prodotti). E’ però errato e fasullo adoperarsi per una cervellotica divisione delle cose (beni e servizi) da produrre – divisione effettuabile a causa della loro specifica natura, soltanto presunta – tra quelle che si possono lasciare alla cura di gruppi tesi al proprio arricchimento particolare e quelle che devono essere invece affidate alla “solerte cura” di quell’entità separata dalla società detta Stato, concepito in modo metafisico come un Soggetto unitario posto al di sopra della collettività e piegato su di essa in qualità di paterno, o cristiano, benefattore.
E’ del tutto evidente che in società in fase di secolare tendenziale arricchimento complessivo – pur tra altalenanti fasi del ciclo; mai considerato nemmeno esso nella sua natura sociale, ma solo con gli schemini economici di volgari tecnici della sfera produttiva e finanziaria – viene costantemente sfumando la distinzione tra una natura necessariamente pubblica ed una di possibile privatizzazione della produzione delle varie cose, di cui la società va alimentandosi nella sua evoluzione storica. Lo statalismo, cioè l’intendimento di produrre beni e servizi tramite la forma pubblica, resterà alla fine appannaggio di gruppi che combattono le battaglie di temporaneo aggiustamento nelle fasi di crisi e di difficoltà crescenti per vasti gruppi di cittadini. Tali battaglie sono però spesso apertamente reazionarie in quanto necessarie a certi gruppi subdominanti per mascherare la loro subalternità a quelli predominanti stranieri, ingannando quote rilevanti della popolazione con i discorsi di beneficenza per i deboli e diseredati. Lo statalismo è poi in molti casi utile a formare gruppi sociali di sostegno per tali subdominanti; gruppi formati non tanto dai “cittadini” fruitori della spesa pubblica (in particolare di quella effettuata dallo Stato detto sociale, di solito utile e necessaria) quanto invece da quelli impiegati per erogarla, che vengono assunti con metodi del tutto avulsi dalla valutazione sia dell’efficienza in questa “produzione di servizi pubblici” sia della sua effettiva utilità.
Il “pubblico” diventa allora un ostacolo allo sviluppo produttivo (innovativo) a vantaggio dei subdominanti (asserviti a dei predominanti “esterni”), i quali sono difesi, nel loro parassitismo, dalla costituzione di strati sociali situati in una sfera separata ed estranea a quella produzione che viene effettuata secondo metodi e criteri di efficienza. Si è già considerato che persino Marx accennò a simili criteri quando scrisse di quel “Robinson collettivo” che sarebbe dovuta diventare la società socialista e poi comunista, la società dei produttori associati in insiemi di lavoro, controllori dei mezzi produttivi in reciproca cooperazione. Se il socialismo si è rivelato impossibile, almeno tramite i metodi storicamente posti in opera, non è però il caso di tornare indietro, a concezioni certamente più realistiche e realizzabili, ma in un contesto reazionario che obbliga i produttori a mantenere schiere di parassiti. Affinché non sorgano equivoci, non si individua il parassitismo in base alle solite considerazioni balorde sulla natura dei beni e servizi prodotti. Ci si riferisce semplicemente ad una produzione che ignora qualsiasi principio di produttività ed efficienza e a cui vengono adibite quote eccessive della popolazione per motivi che non riguardano l’utilità e necessità di quanto viene prodotto per via “pubblica”.
Mi consento di civettare ancora con Marx (Teorie sul plusvalore, vol. II):
“Ciò che egli [Ricardo] dimentica di mettere in evidenza, è il costante accrescimento delle classi medie che si trovano nel mezzo, fra gli operai da una parte e i capitalisti e i proprietari fondiari dall’altra, in gran parte mantenute direttamente dal reddito, e che gravano come un peso sulla sottostante base lavoratrice e accrescono la sicurezza e la potenza sociale dei diecimila soprastanti”.
Oggi non sarebbe possibile scrivere negli stessi termini, perché chi conosce Marx è ben conscio che egli sta trattando del modo di produzione capitalistico inglese a metà ‘800 – da lui presunto quale nocciolo strutturale interno del capitalismo, in espansione e allargamento a tutto il mondo – con le sue leggi dinamiche generali che avrebbero dovuto comportare la formazione delle due classi antagonistiche fondamentali sul piano complessivo mondiale; con l’internazionalismo degli operai “senza Patria” e solo fedeli ai loro interessi di classe rivoluzionaria anticipante il futuro comunismo, ecc. ecc. (tutte analisi da me condotte decine e decine di volte).
Dov’è il “nocciolo razionale” del passo citato, tenuto conto fra l’altro che in pochissimi altri brani Marx adombra la crescita delle “classi medie”? Queste ultime sono divenute, con lo sviluppo impetuoso del capitalismo (o capitalismi), estremamente numerose e complessamente strutturate (stratificate e segmentate); e la loro crescita non è stata solo alimentata dal reddito prodotto dalla classe operaia. Esse insomma non hanno esclusiva funzione di consumo di ciò che è stato prodotto da altri; in molti casi, sono invece utili, perfino essenziali, per produrre. E dobbiamo ripeterci: non sono utili o inutili semplicemente in base alla natura dei beni e servizi che esse pongono in essere. Il problema è situato altrove. Le classi medie svolgono sovente, direi quasi sempre, funzioni sociali utili; solo che – per ragioni storiche che vanno studiate caso per caso; in Italia, ad esempio, dovrebbe essere meglio focalizzato il sedicente “compromesso storico” degli anni ’70, i cui effetti nefasti si prolungano fino ai giorni nostri – hanno conosciuto un’espansione abnorme (socialmente abnorme) proprio in determinati settori del “pubblico”. Esse sarebbero integralmente utili se potessero essere ridotte di una quota consistente. E’ l’eccesso a provocare il parassitismo, non il valore d’uso dei loro prodotti, che sono semplicemente sovrabbondanti rispetto alle necessità; e quando vi è sovrabbondanza di certi prodotti – anzi, in senso proprio, dei loro produttori – ciò rappresenta un intralcio per la produzione e uno spreco di risorse che sarebbe stato più utile impiegare altrimenti.
E’ un puro errore, del tutto inutile e irritante, trattare l’eccesso come si trattasse di fannullaggine dei lavoratori che producono quei beni e servizi. E’ difficile – e si presta a soperchierie dello stesso genere di quelle usate per assumere – scegliere chi licenziare perché non farebbe nulla. Si cerca in tal modo semplicemente il divide et impera; ci si può trovare invece di fronte ad una reazione scomposta di paura che coinvolge moltissimi, perché nessuno si sente più sicuro. Ovviamente, nei settori in sovrannumero si formano bande di “guastatori”, quelle che chiamerei “scimmie urlanti”. Esse riguardano quote importanti di questi lavoratori, situati soprattutto nello spettacolo, nel giornalismo (ormai un settore di sopravvissuti perché finanziati statalmente), nell’editoria, nell’intellettualità da salotto strettamente legata (e pagata) dai “poteri forti”. Vi sono poi gli apparati sindacali ormai “di Stato”, gli Istituti previdenziali e della Sanità con una pletora di impiegati che si accaparrano la gran parte di ciò che costano gli apparati in questione. E, dulcis in fundo, lo stuolo degli impiegati dell’Amministrazione pubblica: statale, regionale, provinciale, comunale; anche se oggi si dichiara l’intenzione di sfoltirle.
5. Naturalmente, ci sono le imprese pubbliche, spesso in settori (energetico, aerospaziale, elettronico, informatico, ecc.) da considerarsi strategici. Tendenzialmente, è molto diffusa l’opinione che in queste le assunzioni verrebbero realizzate con criteri troppo influenzabili in senso “politico” (che significa clientelare e magari fatte per portare voti); mentre in quelle private, vigendo il criterio dell’efficienza e profittabilità, le assunzioni andrebbero nella direzione del merito e della capacità lavorativa ai vari livelli. La differenza è in realtà minima, enfatizzata più che altro da una scelta molto ideologica tra liberismo e statalismo, dove il primo è considerato sinonimo di efficienza.
Gli alti vertici delle imprese, pubbliche o private che siano, non hanno quasi mai diretta influenza sull’efficienza dell’impresa se si guarda al criterio del minimax, e quindi soprattutto alle tecnologie e all’organizzazione interna, fattori affidati al management, almeno nelle unità produttive di grandi dimensioni. I vertici hanno funzioni strategiche, quindi politiche. Le grandi imprese private, se non strettamente famigliari (che di fatto non esistono quasi più), hanno interesse a scegliere chi portare alla più alta direzione seguendo due criteri: capacità d’ampie visioni e collegamenti con la sfera politica; con proporzioni d’uso dei due criteri largamente variabili a seconda delle contingenze. Rilevante è considerare se si è in presenza di imprese di nuove ondate innovative, che devono lanciarsi in mercati nuovi, il che significa anche in nuove aree di influenza, per cui hanno bisogno di un reale sostegno da parte della politica estera; oppure di imprese ormai “mature”, dei vecchi settori, che cercano spesso maggiori foraggiamenti dalle “casse pubbliche”.
Non è che i problemi siano differenti per quanto riguarda l’impresa pubblica. I criteri sono più o meno gli stessi a seconda che esse appartengano a settori maturi o invece a quelli nuovi, strategici. Cruciale è pure la possibilità di penetrare nei mercati altri (e di difendere il proprio); un problema, questo, che trattato dal punto di vista della mera economicità condurrebbe all’impasse, poiché la messa in opera delle manovre politiche è cruciale per la sedicente competitività globale. I gretti liberisti pensano (o fingono di pensare, perché non credo siano così limitati) che le imprese agiscano in regime di libero mercato (la “mano invisibile”), in cui conterebbe la pura efficienza economica (costi e prezzi). Gli statalisti s’intestardiscono sui meri sussidi diretti o indiretti poiché hanno l’idea fissa della domanda da risollevare, mentre è invece decisivo conquistare (e/o proteggere) date zone; il che non richiede necessariamente operazioni militari, ma sempre comunque capacità e abilità nell’affrontare scontri in cui si rischia qualcosa in più del perdere semplicemente una quota di mercato. E del resto oggi comincia a diventare rilevante anche l’opzione militare; e un paese come il nostro non la sceglie autonomamente, ma sempre su ordine della potenza predominante.
Da qualsiasi punto si consideri la questione del pubblico o privato, si constata ormai soltanto l’arretratezza culturale di questi tempi, il degrado intellettuale seguito al fallimento dell’impostazione seriamente socialista (quella che prevedeva anche il gradino successivo del comunismo). Lì si poneva il problema di superare il reale controllo (potere di disporre) dei mezzi necessari alla produzione (appropriazione della natura per la vita associata) da parte di gruppi privati (non in semplici termini giuridici quindi) che, nel capitalismo, se ne servono per obbligare i (comunque liberi) possessori di forza lavoro a venderla quale merce, appropriandosi del “di più” che la capacità lavorativa umana è in grado di produrre al di sopra della propria “sussistenza” (storico-sociale, non di mera sopravvivenza). Il problema di questo controllo reale collettivo non è stato minimamente risolto; per il semplice fatto che non vi era alcuna possibilità di formazione del lavoratore collettivo cooperativo (“dall’ingegnere all’ultimo manovale”) secondo quanto invece prevedeva Marx in base all’analisi del modo della produzione capitalistica, così com’esso gli appariva a metà ‘800 nel paese da lui considerato il paradigma della modalità in questione.
Man mano che la società capitalistica – laddove si è formata con caratteristiche via via differenti, dando vita a varie formazioni sociali particolari nello spazio mondiale; e con il passaggio dal capitalismo borghese a quello dei funzionari del capitale – si è andata sviluppando con continuità e rapidità, sia pure secondo la curva sinusoidale dei cicli economici, la ricchezza e la capacità d’accumulazione delle grandi unità produttive sono cresciute enormemente. In pratica, non vi è quasi più alcun settore, in cui sia richiesta una forte dotazione in costose attrezzature – non sempre di dimensioni colossali, anzi la tendenza dominante è forse oggi contraria – dove non possa agire la forma giuridica privata dell’impresa, che in sostanza significa il suo controllo da parte di gruppi particolari in cerca di profittabilità per gli investimenti effettuati.
Resta la difesa irrinunciabile delle conquiste dello Stato detto sociale, soprattutto in tema di sanità, di mantenimento di un settore pensionistico, di assistenza sociale in genere (ad es. per gli anziani, i disagiati e poveri, e altre finalità varie). Sempre meno si nota il vantaggio del sedicente pubblico per i trasporti, per i problemi dell’energia (produzione e distribuzione), per la stessa ricerca scientifica e tecnica e, in molti casi, perfino per l’istruzione specialistica qualificata; lasciando solo da parte quella sedicente di base. Quest’ultima è però ridotta ad un simulacro d’istruzione, mentre sembra invece fondamentale per creare un ceto medio semicolto, ignorante e succube di un ceto intellettuale degradato e perfettamente venduto al grande capitale “privato”: a quello più arretrato, quello che difende le sue posizioni legate a passate fasi dell’industrializzazione e che è quindi la fonte sia della corruzione politica e dell’assorbimento di risorse in forma di sussidi di vario genere sia dell’asservimento di un paese a quelli(o) predominanti(e).
Senza poi considerare che i servizi essenziali dello Stato sociale sono stati troppo spesso la scusa per l’assunzione in essi di pletore di lavoratori che non sono fannulloni, semplicemente non sanno che fare, spesso contribuiscono pure all’impossibilità di organizzare un servizio non solo meno costoso ma decisamente migliore per gli utenti dello stesso. Inutile qualificare come reazionario chi preme per la privatizzazione di certi servizi sociali. Coloro che protestano, che giocano a difendere il “pubblico”, non sono minimamente intenzionati a migliorare i servizi dello Stato sociale, proteggono soltanto il sistema delle assunzioni fatte mediante criteri lontanissimi dalla capacità e qualificazione, assunzioni puramente clientelari, basate sul principio: “un tanto a me, un tanto a te, un tanto a lui”. Tali strati sociali, spesso dequalificati, sono proprio la base di massa della trasmissione di ideologie reazionarie, contrarie allo sviluppo, alla meritocrazia (fondamento di una sempre maggiore capacità produttiva e di innovazione), favorevoli invece al più totale livellamento annientatore di ogni spinta competitiva, che svolge anche funzioni positive e non semplicemente quelle miranti al profitto. Mai Marx e il marxismo non decerebrato hanno demonizzato la competizione e il merito.
Non è, ad esempio, accettabile vedere una massa di insegnanti terrorizzati dal progresso tecnico, che esorcizzano alla guisa di antichi sciamani. Non è accettabile che si diffonda l’ideologia della decrescita, della coltivazione nel giardino di casa, della spesa a km. zero, e altre futilità varie. E’ inutile negarlo: il “pubblico” è diventato il ricettacolo di strati sociali “pregalileiani”, è fonte di reddito per dequalificati, per gente che grava sulla spesa pubblica; spesso direttamente e altrettanto frequentemente in modo indiretto. Si pensi allo stuolo di intellettuali “umanistici”, prescientifici, pagati dai gruppi capitalistici arretrati (e legati allo straniero di cui si è già detto sopra) con i sussidi statali da essi succhiati dalle casse dello Stato – alimentate dall’imposizione sui ceti medi e popolari che producono – grazie all’interessamento dei politicanti corrotti eletti proprio dagli strati sociali più parassitari.
6. Quanto qui sostenuto non dipende minimamente da un culto illuministico della Ragione e del Progresso; l’ho del resto già affermato mille volte. Nemmeno sono però portato a cianciare e berciare a vanvera contro il progresso scientifico o lo sviluppo. In questo scritto si è semplicemente voluto porre in luce che comunque non ha più gran senso, né in base alle considerazioni dei liberisti né ascoltando gli statalisti, la distinzione netta e irriducibile tra privato e pubblico. Il cosiddetto privato, legato all’attività di gruppi particolari, non è riconducibile al solo fine del profitto perseguito da capitalisti proprietari disinteressati alla produzione e ossessionati dal guadagno. Marx aveva del resto già chiarito che il capitalista non è un “Arpagone”. Del resto, il profitto oltre che fine è anche mezzo; non certo per scopi nobili, alti, altruistici, non vengo certo a raccontare queste panzane ideologiche. Nemmeno è però semplice sfruttamento, non è pura sete di guadagno e di arraffare le ricchezze; è anche fonte di investimenti produttivi e di innovazioni.
E’ comunque bene ricordare che il pubblico è troppo spesso contrabbandato quale interesse generale della collettività, un’ideologia tesa a coprire gli interessi di gruppi politici legati a gruppi imprenditoriali privati, del genere parassitario già indicato. Questi ultimi – vigendo la “democrazia” dell’imbonimento e obnubilamento di masse di elettori manovrati e rimbambiti dalla menzogna del bene collettivo – non trovano di meglio che pontificare sullo Stato quale strumento adeguato a realizzarlo, chiedendo di poter incrementare a dismisura le sue funzioni dichiarate sociali; poi ridotte in definitiva a flussi di spesa per scadenti servizi prestati da caterve di impiegati assunti senza criteri di qualifica e di merito, però buoni elettori dei parassiti di ogni risma.
Dobbiamo infine andare ben oltre questa pantomima recitata da schieramenti comicamente definiti “la destra” (che difenderebbe il “privato”) e “la sinistra” (che dovrebbe essere per il “pubblico”). In realtà, simile divisione era già inservibile da tempo per la presenza di alcune frazioni di “destra” decisamente stataliste (con difesa senza distinzioni degli impiegati delle amministrazioni pubbliche) e di una parte ormai maggioritaria della “sinistra” che più liberista non si può, dato che è stata l’artefice della privatizzazione delle industrie pubbliche italiane. In realtà, sarebbe indispensabile affrontare seriamente la questione dello Stato. Tutti i dominanti (liberisti e statalisti che siano) diffondono l’ideologia del suo essere un organo con funzioni di interesse generale, svolte a favore di una collettività di cittadini. Il marxismo considerò lo Stato uno strumento della classe capitalistica nel suo insieme, strumento che faceva gli interessi generali di quella classe (allora la borghesia). Fin dall’inizio, tale concezione fu troppo semplicistica; tuttavia l’errore era tutto sommato non gravissimo fino a metà ‘800.
Oggi, non possiamo considerare la proprietà (sia pure come potere di disporre) dei mezzi produttivi il fulcro attorno al quale ruotano i decisivi rapporti (sociali, ma di produzione) tra le classi antagonistiche; la cui lotta, presunta irriducibile fino alla soppressione di quella proprietaria privata, avrebbe condotto verso una diversa forma dei rapporti sociali. Oggi, la classe presunta antagonistica e rivoluzionaria per sua essenza (in sé), con o senza partito che avrebbe dovuto rappresentarne la coscienza (il per sé), è stata ricondotta nell’ambito della riproduzione dei rapporti capitalistici, riducendosi di numero e di peso (se considerata in senso stretto quale insieme delle mansioni esecutive in fabbrica), mentre sono fioriti (e ramificati) ben diversi strati e segmenti sociali, per valutare i quali è decisivo individuare la funzione da essi svolta nella produzione di ricchezza. Funzione utile o invece parassitaria, dove va ribadito che l’utilità o il parassitismo non dipendono dalla natura delle cose prodotte, ma da come vengono prodotte, secondo quale organizzazione produttiva (efficiente o pletorica), con quali finalità nei confronti della produzione sociale complessiva, ecc.
L’elemento fondante la società (non solo capitalistica, ma di questa comunque stiamo parlando) non deve più essere considerato la proprietà o meno dei mezzi di produzione. E’ necessario fissare invece l’attenzione sulle complesse strategie del conflitto; dove tale nuova attenzione non è rivolta soltanto allo studio delle battaglie di tipo bellico, con le loro mosse specifiche, le loro specifiche forze e strumenti impiegati, ecc., ma anche all’analisi della formazione di nuovi strati e segmenti della società, di cui è rilevante l’eventuale coinvolgimento nello scontro politico-ideologico, che comporta la costituzione dei diversi blocchi sociali. Un simile spostamento del fuoco attorno a cui ricostruire una diversa teoria della(e) formazione(i) sociale(i) ha decisivi effetti.
Intanto spiega, parzialmente per carità, come mai non si è trovato il bandolo della matassa per “costruire il socialismo” o quanto meno per condurre a buon fine la “lotta delle classi”, che avrebbe dovuto caratterizzare – secondo l’impostazione pratica della Rivoluzione Culturale cinese poi teorizzata in occidente dalla scuola althusseriana – l’intera lunga fase di transizione tra capitalismo e comunismo (questa fase sarebbe stato il socialismo); una lotta senza sbocchi storicamente necessitati. Il problema cruciale non è quello – chiaramente irrisolvibile in presenza di un conflitto non duale, né sempre antagonistico, di tipo invece multilaterale – di giungere in modo definitivo al potere reale di disporre dei mezzi produttivi da parte della collettività dei produttori, sempre divisi in strati e segmenti sociali in conflitto fra loro.
Ci sarebbe semmai da pensare a come si possa arrivare ad una sufficiente regolazione del conflitto in questione, tramutandolo in una competitività con funzioni positive di stimolo per lo sviluppo del complesso sociale, pur diviso in tanti raggruppamenti, poiché è vano pensare alla fine degli specialismi e qualifiche particolari, di natura profondamente diversa gli uni dagli altri e i cui portatori non si sentono “naturalmente” solidali fra loro. E tale composizione relativamente pacifica del conflitto – non troppo, onde non spegnere gli “spiriti animali” che consentono non tanto la crescita, ma l’innovazione, la creatività, l’invenzione di prodotti non meno che di migliori organizzazioni sociali – non sarebbe comunque soltanto effetto di progettualità, volontà e decisione costruttrici, non potrebbe essere stabilita per decreto (“dalla legge”); deve essere invece il portato “oggettivo” (una sorta di “vettore di composizione delle forze”) di complesse scelte strategiche che implicano contrasti tra progettualità e decisioni diverse. Tutto da ri-pensare.
Tuttavia il passaggio alla competizione tra strategie diverse, quale fulcro della dinamica dei sempre più complicati rapporti tra gruppi sociali in continua ramificazione e differenziazione (in orizzontale come in verticale), comporta modificazioni sostanziali circa la concezione di ciò che chiamiamo Stato. La prima conseguenza è che esso va trattato nella sua articolazione in apparati, rappresentanti il precipitato cosale, materiale, visibile, di flussi di energia conflittuale che non seguono andamenti antagonistico-duali: capitalisti/operai (in pratica sinonimo di borghesi/proletari), proprietari feudali/servi della gleba, proprietari di schiavi/schiavi, e via dicendo, secondo quanto sostenuto da Marx nel Manifesto del partito comunista.
Qui mi fermo, perché siamo terribilmente in arretrato nello studio dello Stato secondo questa concezione appena esposta così all’ingrosso. Si continua in realtà sempre con il liberale Kelsen, da una parte, e con il più realistico (e “sanguigno”) Schmitt, dall’altra. Vi è ovviamente qualche terzo incomodo, di cui il più grosso resta pur sempre il marxismo con il suo però troppo semplice concetto di Stato quale “strumento” (la “macchina statale”) per il dominio di una classe; concetto reso più complesso da Gramsci (che almeno parlò della costituzione dei blocchi sociali) e poi, ancor più, da Althusser con i suoi apparati ideologici di Stato. Ritengo tuttavia si debbano fare passi in avanti ulteriori e ben più decisivi. Mentre invece i “barbari” intellettuali odierni, salvo i pochi “out”, sono regrediti ancora una volta alle diatribe tra liberismo e statalismo, tra “privato” (e quindi sostegno alla privatizzazione di ogni elemento delle precedenti statalizzazioni o municipalizzazioni, ecc.) e “pubblico” (attacco alle privatizzazioni con l’unico reale scopo di difendere, per motivi elettoralistici, la massa impiegatizia che affolla i settori mantenuti da una spesa statale abnorme, causa della torchiatura ormai asfissiante dei ceti produttivi).
Da questa trappola dobbiamo uscire. Sarà molto complicato avviarsi lungo il nuovo cammino. Si tratta però di un compito ormai urgente e di primaria rilevanza. Non ci si può limitare all’analisi dello Stato quale organo conchiuso in sé, con le sue funzioni specifiche, rilevate anche storicamente; quest’analisi ha la sua importanza, ma solo preliminarmente. Così pure non è certo inessenziale la disamina e classificazione dei diversi apparati componenti lo Stato. Decisivo è però il suo ruolo e le funzioni svolte dai suoi apparati in quanto condensazione, precipitazione istituzionale, dei conflitti e delle loro strategie; e non più soltanto secondo un modello sociale semplificato a due classi antagonistiche fondamentali – con tutto il resto quale contorno e semplice complicazione, attenuazione, possibile deviazione, dello scontro frontale – bensì seguendo un’impostazione attenta alla molteplicità dei gruppi in frizione o in alleanza, con possibili mutamenti più o meno rapidi delle loro diverse posizioni.
Importantissimo è poi articolare la lotta tra i gruppi all’interno di una formazione particolare (di cui lo Stato sembra fare solo da “rappresentante”) e quello tra i vari Stati e quindi tra diverse formazioni, tenendo conto di come si dispongono in queste ultime i gruppi che si scontrano o si alleano; non più soltanto nell’arena nazionale quindi, bensì in più o meno vaste aree mondiali. Insomma, è indispensabile disancorare la concezione dello Stato da teorie ormai logore e muffite. Tuttavia difficile è formulare una più adeguata teoria dello stesso, se non ne viene sviluppata una nuova e ben più pregnante circa le diverse formazioni sociali moderne, che tutte le impostazioni in campo continuano a disporre nella “grande classe” del capitalismo, pur esso ormai un concetto-ripostiglio; come lo è quello dei ceti medi. E state ben attenti al fatto che vi è una correlazione stretta tra: a) l’ammassamento confuso degli strati e segmenti della formazione sociale moderna nell’unico concetto di ceti medi; b) l’altrettanto pasticciata e fumosa considerazione dello Stato come un Soggetto unitario, compatto, dotato di volontà e decisione proprie; c) la generica categoria di capitalismo, in esso affastellando formazioni sociali diverse. Ogni confusa e approssimativa concezione è conseguenza delle altre.
Si è talmente andati indietro nell’analisi di questo generico capitalismo che se ne fa semplicemente una società del mercato globale (e quindi della finanza poiché il denaro, nelle sue svariate figurazioni, non è altro che l’alter ego della merce), della competizione in esso, della valorizzazione (profittabilità) dei capitali investiti, ecc.; coinvolgendo in simili sconfortanti banalità perfino Marx, che aveva almeno compiuto un bel passo avanti (a dimostrazione che ormai i sedicenti marxisti fanno parte, da almeno due-tre decenni, del fronte reazionario). Avanti contro tutto questo vecchiume rancido e velenoso! Per almeno capire come si sia andati indietro rispetto a Marx, mentre è necessario procedere al di là del suo sistema teorico, mi permetto di consigliare la lettura di almeno un paio dei miei ultimi libri: Oltre l’orizzonte (Besa) e Navigazione a vista (Mimesis). E’ solo un modesto inizio, ma almeno non è il “cammino dei gamberi”, che è la moda del presente.