La falsa antropologia dei guerrafondai

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I giornalisti sono “disarmanti”, credo che questo sia il termine più corretto per commentare il passaggio che pubblico sotto da un pezzo di Domenico Quirico su La Stampa:

“Chi tra cento anni leggerà le peripezie lunghe e sanguinose della storia dei popoli alle frontiere d’Ucraina, stupefatto, si accorgerà che, nei resoconti, c’è la minuziosa contabilità dei carri armati distrutti e che devono essere rimpiazzati, dei proiettili necessari ogni giorno alle artiglierie, degli avanzi negli arsenali, fissata con la precisione di un cambusiere. Invano cercherà l’elenco delle perdite, dei fuori combattimento umani…
Ma gli uomini? Intendo quelli che muoiono ogni giorno che passa, quelli che hanno ragione, gli ucraini, e quelli che muoiono avendo torto, i russi. Ormai assuefatti al dogma bellicista nessuno la legge nel senso antropologico…Invece di rafforzare gli apparati di guerra, la morte fisica non dovrebbe essere in fondo ad ogni nostro pensiero, scrutare il nostro mondo e il nostro divenire?”

Sorvoliamo sul fatto che Quirico abbia stabilito chi abbia ragione e chi torto in questo conflitto. È la solita sentenza propagandistica del giornalismo di regime sempre schierato dalla parte giusta della storia, la sua.

Quirico fa però peggio quando si inabissa nel moralismo come se ci fossero rilevanti novità tra questa Guerra e quelle del passato. Cento anni sono già ora e, guarda caso, continuiamo a non capire nulla. Quirico soprattutto. Non è cambiato molto da un’epoca all’altra, perché sono proprio gli uomini, battaglia dopo battaglia, ad essere sempre gli stessi. Umanamente e disumanamente.
Per restare in Italia potremmo parlare dei 40 mila morti di Caporetto, durante la I Guerra mondiale, o dei rapporti dagli altri fronti circa la contabilità della carne da cannone. I nostri Generali parlavano di “spesa” in soldati, tra morti e feriti, così come di spesa si parlava per i colpi di artiglieria utilizzati. Militari, mezzi e munizioni rientrano tutti nella stessa voce: la spesa. Adesso il tema non viene trattato diversamente, benché le anime belle fingano di inorridire. I nostri media hanno volentieri la lacrima selettiva ma un’atrocità resta tale al di là del colpevole. Essi sono pronti a parlare di genocidio per i delitti commessi dai mostri (nemici) ma il tono si addolcisce presto se la morte viene data dai nostri (amici). Per i primi solo disprezzo e disonore, per i secondi gloria e amore. Non passa a nessuno per il cervello che non ci sia oggettività alcuna nei nostri giudizi? Che, come ho già riportato altrove(1) la costruzione della figura dell’aggressore è un nostro arbitrio?
Antropologicarente siamo insomma alle solite. La guerra non muta e nemmeno i giornalisti, figuriamoci gli eserciti. Gli uomini non peggiorano, sono pessimi da sempre.

(1) “Il divieto della guerra e della violenza non solo si è dimostrato inattuabile, ma ha inasprito, prolungato, avvelenato tutti i conflitti. Anche e in particolare per il diritto internazionale vale il detto «qui veut faire l’ange, fait la bete». O si concepiscono «pace » e «guerra» come concetti correlativi, oppure, con l’accanimento nei confronti dell’ «aggressore » (costruibile ad hoc), si ricade nel concetto discriminatorio di guerra e nel moderno pervertimento della« guerra giusta».
Dopo alcuni millenni di insegnamenti più che concreti ci si può senz’altro avvicinare all’idea che la guerra è ineliminabile, e che la pace è un’invenzione assai più della guerra. Appare oggi chiaro che continuare ad avanzare sulla strada della discriminazione della guerra non può che condurre a catastrofi sempre più terribili. Per il resto è cosa arcinota che la guerra è un camaleonte, ma il camaleonte è appunto un animale cui non importa nulla di essere chiamato con il suo vero nome. Al contrario, preferisce mimetizzarsi con i noti slogan pacifisti, riuscendo così a prosperare nel migliore dei modi.” GUNTER MASCHKE, 2005