LA FESTA CE L’HANNO FATTA A NOI…di A.F.

Il significato del 25 aprile in Italia non è ancora chiaro. Con questo ovviamente non voglio certo dire, come fanno i vari “aggiustatori” alla Giampaolo Pansa, che ci sia da stravolgere il quadro per consegnare ai libri della neo-storia una versione di concordia nazionale capace, più o meno, di mettere d’accordo tutti “per il bene del Paese”. Dietro queste operazioni di benevolenza spesso si nascondono finalità poco nobili o comunque opportunistiche. L’errore storico di fondo è quello di aver identificato – secondo una logica da stadio tutta italiana – nelle due diverse componenti in guerra, “fascisti” e “comunisti”, “destra” e “sinistra”, “neri” e “rossi”. La guerra ovviamente non è così. La guerra è guerra, e la strategia militare, probabilmente più di ogni altro fattore, impone che siano le ideologie ad adeguarsi alla storia, non la storia ad adeguarsi ad esse. E per quanto si voglia far passare per forza il Novecento per il “secolo delle ideologie” (anche il Quattrocento lo fu, coi suoi numerosi movimenti di rinascimento culturale, e il Seicento, con le scoperte scientifiche e le rivoluzioni nel pensiero comune… e allora? L’Ottocento, poi, non ne parliamo…), la guerra mantiene sempre quel suo aspetto del tutto peculiare che, chiaramente, costituisce una prosecuzione della dialettica politica con altri mezzi, ma che, al contempo, segue regole e schemi ben precisi, non riconducibili ad alcuna retorica ideologica o ad alcun pre-incartamento di fede, sia religiosa sia politica.

La Resistenza infatti non fu un movimento politico, ma semplicemente una formazione militare (spesso improvvisata), composta da brigate di diversa estrazione politica, non di rado addirittura l’una agli antipodi dell’altra: c’era il Partito d’Azione, che raccoglieva vasti strati del repubblicanesimo e del liberal-socialismo, c’erano ampi settori del futuro Partito Liberale, c’era l’area cattolica legata al vecchio Partito Popolare di Don Luigi Sturzo, c’erano ufficiali del Regio Esercito, passati all’antifascismo dopo l’8 Settembre, c’erano i socialisti, c’erano alcuni vecchi anarchici, e c’erano i comunisti. Questo fattore non è da sottovalutare, perché, quando la guerra finisce, la politica torna a proseguire sui binari del confronto dialettico partitico. La svolta di Salerno ha giocato un ruolo indubbiamente fondamentale, e le posizioni assunte da Togliatti durante la guerra seguivano un filo logico di calcolo freddo e razionale: Stalin comprese la pericolosa esplosività della situazione italiana e suggerì al Partito Comunista di proseguire su una linea di compromesso democratico.

Non era un atto di resa o, come taluni vogliono far credere, il risultato della “spartizione di Yalta” (che spartizione non fu, e che, qualora lo fosse, sarebbe comunque un atto ovvio, quasi sempre avvenuto alla fine di ogni guerra tra potenze vincitrici). Il Partito Comunista, infatti, triplicò le sue iscrizioni nel giro di un solo anno, passando dai 500.000 iscritti nel 1944 ad 1.700.000 iscritti nel 1945, ponendo le basi per un’evidente egemonia politica da concretizzare entro i seguenti cinque anni. La Germania era ormai palesemente alle corde, e si preparava a pagare nel modo più logico il suo folle e criminale piano di invasione dell’Europa e dell’Asia. L’Armata Rossa all’inizio del 1944 aveva ormai pienamente ripristinato il suo controllo su tutta l’Ucraina, la Bielorussia, il Mar Baltico e il Mare di Azov, mentre la Germania veniva fiaccata internamente da una serie di bombardamenti a tappeto (anche sulla popolazione civile inerme) da parte degli Alleati. Dopo lo sbarco in Normandia e dopo lo sbarco di Anzio, e alla luce della disgregazione del regime fascista nel settembre del 1943, l’esito della guerra appariva scontato: Italia e Germania erano ormai destinate alla sconfitta. Più incerto il fronte del Pacifico, con il Giappone costretto al ripiegamento in Cina e in Corea, ma ancora capace di battersi contro gli Stati Uniti.

Il Partito Comunista Italiano non avrebbe avuto dunque alcun bisogno di forzare il corso degli eventi contrapponendosi frontalmente alla monarchia sabauda, ormai in declino e irreversibilmente compromessa col precedente regime, ed avrebbe potuto attivamente partecipare alla stesura della Costituzione Repubblicana, favorendo il processo di democratizzazione borghese, la fase di sviluppo delle forze produttive, per poi preparare il terreno per una trasformazione socialista della società, seguendo un metodo che, stante la diversa storia interna, non poteva servirsi di programmi analoghi a quelli delle rivoluzioni in Russia o, tanto meno, in Cina. Ridisegnati i nuovi fronti politici postbellici, infatti, il Partito Comunista si sarebbe ritrovato dinnanzi un’opposizione ancora molto forte a livello popolare, pari a circa metà del Paese, essenzialmente composta dalla gran parte di quel ceto medio emerso dopo la prima industrializzazione del XIX secolo, e rafforzatosi durante il ventennio mussoliniano che, più o meno coscientemente, aveva contribuito a porre le prime basi del fordismo nella Penisola.

Complice anche l’incisività della cultura cattolica nel nostro Paese, questo ceto medio confluì in gran parte nell’elettorato della DC, riuscendo a fornire al partito di De Gasperi un consenso inaspettato e molto elevato. Era un voto qualunquista, un voto assolutamente non militante e tanto meno consapevole: la Democrazia Cristiana, per quanto importante fu il suo contributo all’Assemblea Costituente, si inserì all’interno del tessuto politico nazionale solamente sfruttando la naturale pulsione al conservatorismo tipica dei Paesi occidentali del primo Novecento, il suo privilegiato ed esclusivo rapporto con il Vaticano, e i suoi collegamenti internazionali con gli Stati Uniti. Nel 1947, il presidente statunitense Harry Truman convoca a Washington proprio De Gasperi, per intimare a Roma di accettare il Piano Marshall a condizione di un’esclusione del PCI da ogni ruolo di governo. La richiesta era molto impegnativa dal momento che, sia durante il governo Parri, sia nei successivi e precari governi De Gasperi, Togliatti e i suoi avevano ricoperto incarichi di prestigio. De Gasperi segue il suggerimento ed estromette il PCI da ogni incarico, preparando il terreno più critico ed infuocato per le successive elezioni dell’Aprile 1948.

Oggi sappiamo che i due partiti disponevano di autentici “fronti paralleli”, delle vere e proprie “intelligence” militanti, l’una, quella comunista, guidata da Pietro Secchia, l’altra, quella democristiana, guidata da personaggi ancora i
gnoti, ma probabilmente legati alla Cia. In ogni caso Togliatti riuscì a mantenere la calma e a richiamare all’ordine i settori più intransigenti del Partito. Le prime elezioni repubblicane del 18 aprile 1948, sancirono la vittoria della Democrazia Cristiana con il 48% circa del consenso, staccando la coalizione del Fronte Popolare (PCI+PSI) attestatasi al 31%. Eppure, il Partito Comunista restava, agli occhi di Washington, un potenziale e gravissimo pericolo. Sul piano numerico, si deve tenere conto del fatto che non soltanto la scissione della lista Unità Socialista dal PSI aveva tolto oltre il 7% dei consensi al Fronte Popolare, ma anche che circa 2.300.000 elettori si astennero. Sul piano politico, va inoltre osservato che nel contesto italiano dell’epoca il partito guidato da Palmiro Togliatti era l’unico autentico movimento organizzato e inquadrato secondo un’imponente struttura ideologica e pratica, derivata dal modello sovietico e dalla sua serrata gerarchia. Il Partito Comunista, che aveva già cominciato a mettere in discussione il Piano Marshall, era perciò potenzialmente molto forte e radicato, e dopo i primi anni di apparente concordia nella ricostruzione, avrebbe sicuramente potuto rappresentare un pericolo per la stabilità nell’indirizzo di governo del Paese, specie in vista del già preventivato piano di fondazione della Nato, sancita proprio nel 1949.

Il Piano Marshall, infatti, costituiva un’arma dal doppio peso a favore degli Stati Uniti: da un lato, gli americani avrebbero legato finanziariamente il destino dell’Europa occidentale alle direttive di Washington, dall’altro avrebbero imposto un trattato di servitù militare ai Paesi coinvolti, a partire dai più contestualmente deboli, poiché sconfitti, ossia la Germania, il Giappone e l’Italia. A differenza della Germania, già prossima alla divisione interna nelle due parti, occidentale (sotto il protettorato della Nato) e orientale (sotto l’egida dell’Unione Sovietica, ma non come sua diretta emanazione, tanto che Mosca riconobbe la DDR solo nel 1957, cioè nove anni dopo la sua fondazione), e del Giappone, annichilito dal criminale bombardamento atomico contro l’inerme popolazione a Hiroshima e a Nagasaki, l’Italia era in una posizione sicuramente meno affidabile. La spaccatura interna, delineatasi già prima della fine della guerra, aveva prodotto un clima politico interno molto instabile. A differenza di una tradizionale guerra di liberazione nazionale, come quella condotta dall’Unione Sovietica nella Grande Guerra Patriottica o come quella condotta dalle milizie Viet-Cong nella Guerra del Vietnam, la campagna d’Italia fu il risultato di uno scontro dai mille risvolti politici, poiché non tra due Paesi, ma tra i distaccamenti di una potenza imperialista in guerra (la Germania), i residui della potenza imperialista ad essa alleata (la RSI), alcune improvvisate milizie politiche di opposizione al fascismo e all’alleanza con la Germania, diverse migliaia di fuorusciti dal precedente regime politico, e il Patto delle potenze imperialiste alleate (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e alleati oceanici). Non vi fu un chiaro scontro di resistenza tra un esercito nazionale di difesa ed un esercito straniero di offesa. Nessuna analogia può riscontrarsi nemmeno con la Cina, dove la crisi interna del 1927 tra il Kuomindang di Chang Kai-shek e il Partito Comunista Cinese di Mao Zedong, non compromise l’unità nazionale e la costruzione del Fronte Unito anti-giapponese sancita nel 1937, consentendo al nucleo dirigente del Partito Comunista e all’Esercito di Liberazione del Popolo di far leva sulla divisione interna tra l’ala destra (quella di Chang) e l’ala sinistra (il Comitato Rivoluzionario) del Kuomindang, e sull’appoggio della Lega Democratica.

In fin dei conti, la Seconda Guerra Mondiale fu una guerra imperialista a tutti gli effetti, nata come definitiva soluzione dei pesantissimi conti lasciati in sospeso dalla Prima Guerra Mondiale. La Germania, dopo l’umiliazione del 1919 e il Piano Dawes del 1924, uscì ancor più devastata, nella misura in cui un legittimo istinto di rivendicazione e riscatto nazionale tedesco, fu degenerato da Hitler in uno sciovinismo ed in una aggressione folle, in un disegno irrazionale, in un’invasione criminale e pavida, soprattutto nei confronti dell’Unione Sovietica, tradita alle spalle nel 1941, e dei popoli slavi in genere, ritenuti razzialmente inferiori nell’ambito del delirante disegno hitleriano. Ma anche l’Italia che era entrata in guerra era quella di Mussolini, e, sul piano strategico e militare, aveva perso. Tuttavia, molti italiani, nel dopoguerra, si sentivano ancora o “pieni vincitori”, vantando liberazioni auto-indotte, o “ingiustamente sconfitti” (riconducendo la guerra a fantomatici complotti tra i vincitori “ideologici” della guerra), immaginando retroattivi scenari di gloria (a sinistra e al centro) o di decadenza (a destra, soprattutto tra ex fascisti e monarchici). Eppure l’Italia presa in eredità dal fascismo era quella della monarchia, quella degli Agnelli, quella di Giolitti e della criminale conquista della Libia del 1911, quella di Bava Beccaris che nel 1898 sparava cannonate sulle manifestazioni operaie e sindacali, quella dei salotti buoni dell’alta società lombarda e piemontese a pochi chilometri dal degrado e dallo sfruttamento seguito alle prime industrializzazioni del Nord, o quella delle repressioni sanguinarie dei contadini nel Meridione.

Questa era l’Italia che, nella retorica della Democrazia Cristiana, andava “ricostruita”, dopo la “barbarie fascista”. Era l’Italia tirata per il collo da un gigantesco piano di erogazione creditizia pensato dagli Stati Uniti per mettere sotto scacco tutta l’Europa occidentale, per risolvere definitivamente la crisi del ’29 attraverso l’apertura di nuovi mercati internazionali e per dichiarare guerra all’Unione Sovietica. In sostanza, era l’Italia pronta a fare il suo ingresso nella Nato, l’organizzazione imperialista più criminale, vile e subdola che la storia moderna ricordi, e che ancora oggi punta il coltello alla gola di numerosi popoli. L’attentato a Togliatti non avrebbe altra spiegazione che questa: il criminale episodio del 14 luglio 1948, serviva a tagliare la testa al Partito Comunista, e il vero volto della solita Italia (né “fascista” né “liberale”, ma semplicemente “vigliacca e imperialista”) veniva “ricostruito” col sangue lasciato in terra dai moti popolari seguiti al vile gesto, ufficialmente attribuito a un isolato cane sciolto “qualunquista” di destra, in realtà ordito chissà da chi e chissà da dove.

La retorica dell’antifascismo e della liberazione avrebbe però col tempo cementato ciò che non poteva né doveva essere cementato, sarebbe cioè assurta a pratica liturgica, annuale, per ribadire quell&rsqu
o;ipocrita unità nazionale nel nome di una fantomatica libertà e di un’altrettanto fantomatica democrazia, oggi riproposte concettualmente con forza dalle mille “giornate della memoria” a senso unico, soprattutto per sviare l’attenzione dal concreto passaggio storico del nostro Paese da una condizione di potenza imperialista europea di secondo piano a potenza subalterna del fronte imperialista atlantico. E, volendo essere un po’ retorici, possiamo a ragione affermare che il sangue di chi nella guerra aveva combattuto per un’Italia diversa, finalmente nuova, socialista ed autonoma nelle sue scelte e nelle sue capacità, è stato vilipeso, è stato tradito. L’Italia dal 1947 è di nuovo un Paese a sovranità quasi azzerata, un Paese pavido e timoroso verso l’arroganza anglo-americana, ma vigliacco quanto basta per scagliarsi contro tutti quegli “Stati” non allineati, che Washington ha l’ardire di definire “canaglie”, seguendo un vocabolario tutto suo dove le parole “democrazia”, “libertà”, “giustizia”, “guerra” e “pace” hanno un significato peculiare, totalmente stravolto, sconvolto, spesso capovolto, per schermare in chiave “umanitaria”, attraverso l’egemonia mass-mediatica, una realtà altrettanto cinica e spietata. Le oltre 110 basi ed installazioni militari statunitensi sul nostro territorio costituiscono uno scempio ed un servaggio, un’anomalia che nessun onesto osservatore potrebbe esimersi dal ricondurre alla contraddizione principale della nostra epoca ultra-imperialistica.

Ironia della sorte, proprio in prossimità di questo 25 Aprile, l’Italia ha ancora una volta dato prova della sua vergogna, diventando nuovamente la barzelletta del mondo intero. Stavolta è stato Gheddafi a farne le spese, e l’intero popolo libico a pagarne, ancora una volta, le amare conseguenze. Un nuovo schiaffo imperialista, stavolta persino alle spalle. Non si usa più il frasario del colonialismo di fine Ottocento/inizio Novecento, oggi le chiamano “missioni di pace” e i bombardamenti dall’alto sono diventati “intelligenti” e “mirati”. Tuttavia, le costanti storiche fondamentali sono le stesse: i morti restano a centinaia, le risorse e gli obiettivi economici e strategici sono al primo posto nell’agenda predatoria dei governi occidentali e l’odio verso tutto quanto si trovi ad Est di Trieste o di Danzica resta invariato. Vi è passata la voglia di fare festa?