LA FINE DEL MONDO AD UNA DIMENSIONE
La guerra fredda è finita. Viva la guerra fredda, urlano in Occidente. Una definizione consumata, imperniata su fatti superati, non può però spiegare il nuovo quadro geopolitico ed economico al quale manca, per ricalcare la precedente situazione, l’ingrediente principale del vecchio bipolarismo Usa-URSS fondato su basi ideologiche, organizzative ed anche simboliche. I Soviet hanno fallito, il sogno proletario si è infranto e con esso la sua vasta orbita gravitazionale intercontinentale. Dunque, c’è qualcosa di meno rispetto al passato ma qualcosa in più in termini di aspettative future e di possibilità di ribilanciamento delle relazioni diplomatiche legate alle trasformazioni storiche in corso. Che sono ormai necessarie perché quando è un solo Paese a comandare, il pianeta diventa un posto alquanto insicuro e sottoposto ad intollerabili arbitrii. Il mondo ad una dimensione la pensava come gli pareva e piaceva mentre il resto taceva o era costretto a farlo. Le cose sono cambiate.
Ora non si tratta più di due modelli differenti di civiltà, discendenti da modi di produzione-riproduzione inconciliabili (dai quali scaturiscono sempre specifici rapporti sociali), irrimediabilmente alternativi l’uno all’altro, ma della maniera di manifestarsi e di affermarsi della potenza egemonico-geografica di tali formazioni particolari nel medesimo alveo capitalistico e della accumulazione-proiezione della loro forza sullo scenario internazionale. E’ chiaro che chi occupa posizioni privilegiate non veda di buon occhio questa insidia rivolta al suo primato e la respinga con tutti i metodi.
E’ vero, ci sono differenze abissali tra regimi capitalistici, che sono accompagnati da narrazioni di più ampia o ristretta partecipazione popolare alla consolidazione sistemica, comprendendo anche tutte le maniere per dissimularla (laddove le decisioni cardinali competono, ovunque, ad un nucleo ristretto di comando), ma i capisaldi finanziari in evidenza sono comuni quasi a tutti gli attori, perché al momento non esiste nulla di più performativo in giro.
Impresa, denaro, concorrenza per il profitto e per la superiorità commerciale, finanziaria, tecnologica ecc. ecc., costituiscono gli elementi speculari a tutti gli ambiti (persino a quelli non secolarizzati), nel c.d. mercato globale, mentre divergono i processi di generazione, gerarchizzazione e distribuzione delle classi e delle funzioni ad esse attribuite lungo la “piramide” sociale, le forme di lotta per l’acquisizione delle risorse politiche ed economiche, nonché il modus operandi con cui si struttura l’azione dei gruppi umani che costruiscono blocchi sociali competitivi nella cornice statale di riferimento e per il conflitto o l’assimilazione (con altri drappelli dominanti) oltre i propri confini. Da ciò sprigiona la declinazione pluralistica dei capitalismi che sono simmetrici a livello superficiale (l’epidermide economica) ma distinti nella dimensione politica e culturale (ed anche militare).
I capitalismi emergenti o riemergenti vengono accusati da quelli con i piedi ben saldi (di matrice americana), usciti vittoriosi dalla precedente epoca, di dirigismo statale negli affari, di invasività burocratica nell’iniziativa privata, di conculcamento dell’indipendenza di ampi strati della classe media, di ricorso continuo agli apparati coercitivi per reprimere il dissenso della società civile, di chiusura mentale alla diversità minoritaria. In realtà, le “neodemocrazie” attaccate dalla propaganda dominante (coincidente con quella occidentale) ricorrono a questi mezzi per puntellare una posizione ancora piuttosto debole, sotto tutti i punti di vista, che non può essere lasciata fluttuare nel regno delle libere scelte, dove sarebbero sopraffatte e attaccabili dalle democrazie stabili. C’è un gap da recuperare che non si accorcia di sicuro affidandosi agli stereotipi dei propri nemici o dei falsi amici i quali nei lustri e nei decenni hanno imparato a neutralizzare e metabolizzare qualsiasi discrepanza collettiva. Questi ricorrono proprio ai miraggi dei loro modelli culturali, con i quali sanno trattare, per rallentare il recupero o il ripristino della potenza di detti regimi e riportarli così ancora più indietro o addirittura per farli precipitare nel caos. L’Ucraina di questi giorni e l’isolamento della Russia da parte della comunità internazionale dovrebbero insegnarci qualcosa. Gli esempi in questo senso oramai non si contano.
Ma è altrettanto evidente che senza questi argini “protezionistici” (così chiamo anche le leggi antirelativistiche ed identitarie di Putin verso i problemi creati ad arte dalle minoranze manipolabili dall’esterno, vedi gli omosessuali, e a sostegno dei valori tradizionali nei quali si riconosce il grosso della popolazione), che non si riferiscono solo agli apparati produttivi ed economici ma innanzitutto a quelli politici, culturali e militari, nessun riequilibrio multipolare può venire a compimento. Eppure ciò diventa viepiù necessario (per quanto si tratterà ancora di un’ulteriore fase transeunte che dovrebbe sfociare in un successivo policentrismo ed, andando più in là, in un altro tri/bipolarismo o unipolarismo) quanto più aumentano le sofferenze portate dalla crisi e dalle guerre di chi non intende rinunciare ai propri appannaggi, divenuti antistorici dato l’evolvere degli eventi, nel tempo e nello spazio, nonché nella quantità e nella qualità.
Hai voglia a camuffare la realtà. Questa non è una guerra fredda e la risposta occidentale non è orientata a restituire al globo pace e armonia in nome del reciproco progresso di tutti i popoli e di tutte le nazioni avverso ai fantasmi del passato. Questo è un grande gioco geopolitico in cui si perde e si vince (per intanto in senso parziale), si conquista il diritto a resistere, ad esistere e a governare in casa propria. Molti commentatori americani fanno notare che la Russia di oggi non è una vera minaccia come lo era l’URSS, perché alla prima manca una grande idea con la quale conquistare gli altri. Il comunismo lo era, il putinismo no. I proletari di tutti i paesi non si uniranno per Gazprom. Il nazionalismo russo non sarebbe esportabile all’estero come la visione universale dell’uguaglianza socialista con cui l’Unione sovietica nel XX secolo si conquistò simpatie in ogni angolo dell’orbe terracqueo. Forse è vero ma occorre considerare un altro punto. Non lo è nemmeno l’eccezionalismo americano ammantato di pretesti democratici smascherati dalle continue aggressioni verso snodi (stati) recalcitranti al suo potere mondiale e ai suoi progetti. Inoltre, affianco a quello statunitense stanno nascendo altri “esclusivismi”con i loro portati di principi che non si identificano, tout court, con i messaggi imperanti dell’atlantismo, limitando i suoi condizionamenti. A sostegno di questa mutazione generale dei rapporti di forza mondiali altre ideologie si svilupperanno per contestare il primato delle convinzioni euro-atlantiche. Il ciclo delle iperboli retoriche e delle ipocrisie umanitaristiche si è già schiantato sui muri siriani e ucraini. Meglio prenderne atto e adattare i canali di confronto alla presente contemporaneità per ridurre al minimo i danni (comunque inevitabili).