LA FINE DEL SISTEMA INDUSTRIALE ITALIANO di G. Duchini
Siamo abbastanza lontani dai livelli di un Pil che cresceva a ritmi elevati (quelli pre crisi 2008 al 6,4% rispetto all’attuale 1,8%); quindi si deduce che se il ritmo di crescita si assestasse a questo incremento ci vorrebbero 5 anni per recuperare quel gap accumulato circa dieci anni fa. Insomma un po’ di ripresa c’è ma restiamo gli ultimi in Europa per crescita del Pil.
Se da un punto di vista tecnico i conti italiani sono già stati bocciati, dal punto di vista politico l’Italia può ancora permettersi di sforare il vincolo di bilancio secondo gli organi competenti di Bruxelles anche se la crescita del Belpaese risulta “la più debole” in Europa. Nelle previsioni autunnali dell’esecutivo europeo c’è una correzione al rialzo del Pil (1,8%) per poi scendere drammaticamente all’1,3 nel 2018 e dell’1% nel 2019.
Ma bisogna partire da più lontano, da un dato più significativo su cui riflettere. La fine di uno sviluppo industriale che negli anni ’70 e ’80 diventa inarrestabile declino, “deindustrializzazione forzata”, coincidenza storica con l’uccisione di Aldo Moro (1978) e contro una politica che coltivava ben altri intenti e finalità industriali per l’Italia. Con la morte di Moro, che fu uno degli artefici principali di un disegno storico segnato principalmente da una visione di più ampio respiro per l’Italia, si spegne il sogno industriale italiano e si concretizza un destino nefasto di completa sottomissione coloniale dell’Italia all’America, in atto tutt’ora.
Con il colpo finale e decisivo di “ mani pulite” si uccise l’IRI e si destituì tutto il settore industriale e bancario messo in piedi faticosamente durante il fascismo, lasciando convivere qualche sparuto residuo di grande industria, ormai in fase di completo smantellamento (vedi Finmeccanica), con la sopravvivenza di una piccola- media industria rivolta soprattutto all’esportazione, e lontano mille miglia dalle più consistenti occupazioni industriali che fanno grandi i paesi.
Nel frattempo, In Italia in modo silente iniziò, già negli anni 80, un incipiente disoccupazione indotta dall’automazione di realtà industriali d’Oltre Atlantico e di una terziarizzazione che premiò i centri nevralgici di una economia (dominata dagli Usa), che dette inizio a un capitalismo low cost, cioè alla formazione di impieghi poco specializzati, precari e scarsamente retribuiti.
Ma procediamo per ordine. E’ il 2005 (anno prima della Crisi) secondo l’Economist (giornale inglese) l’Italia (insieme alla Germania) è il solo paese ad avere una occupazione industriale che raggiunge il 20% sul totale complessivo degli occupati. Un dato davvero singolare non tanto per la Germania, che notoriamente esercita il suo compito con notevole forza attrattiva all’esportazione, quanto per la struttura produttiva italiana basata sull’export: una realtà industriale fatta di piccole-medie imprese che nel corso degli anni trovò una incisività concorrenziale per tutta la compagine settoriale manifatturiera. Si disse, in modo indulgente, che il sistema italiano, benché diverso da quello tedesco, era a suo modo efficiente, ma risultava imparagonabile con quello tedesco, pur fatto di una realtà fatta di piccole e medie imprese con una professionalità sviluppata ma non all’altezza della potenza tedesca.
Se nel 2004-2008 le medie imprese italiane aumentano il loro fatturato del 32%, nel 2009 arriva il crollo, 15% di vendite e -17% per l’esportazione. Da allora la produzione riprende quota ma non in modo uniforme: meccanica soprattutto, poi chimica-farmaceutica e metallurgia, mentre i più penalizzati risultano costruzioni ed abbigliamento. E il tanto decantato sviluppo italiano, centrato sull’export, ha bisogno di alcune precisazioni e chiarimenti; è una sorta di “ capitalismo intermedio” con imprese di medio fatturato dotate di competenze ed attività presenti sul territorio in un sistema piramidale dove ” la media impresa fa da traino a un tessuto fatto di realtà più piccole e diversificate, che vengono convogliate nel processo produttivo dell’azienda principale”. E’ un capitalismo di piccola e media entità a vocazione internazionale concentrato nell’Italia Settentrionale e particolarmente in Lombardia.
Come si può dedurre, il settore meccanico in Italia è diventato una realtà industriale oltre ad un volano di competenze e di conoscenza pur attestandosi ad un limite insuperabile nell’ impossibilità di crescere e di misurarsi nel tempo come un grande settore industriale come lo è stato per la Germania con una particolarità che lo differenzia e lo caratterizza come unicum.
La Germania ha saputo imprimere una sua concentrazione industriale con una divaricazione all’export e con un certo modo di operare sul mercato estero come riflesso del mercato interno: mano a mano che si andava riducendo il mercato interno, causa principale della deflazione, cresceva l’esportazione pur in presenza di una scarsa crescita di una domanda interna: questa caratteristica tutta tedesca non si riscontra qui da noi in Italia.
La produzione industriale italiana appare a distanze siderali rispetto a quella del 2008 (-18%) con una rivelante caduta dell’occupazione nel manifatturiero italiano di 800 mila unità e con una conseguente distruzione dell’apparato industriale italiano. Di converso l’incremento della produttività è stato recuperato grazie ad un allungamento dell’orario di lavoro in una assenza di recupero di competitività perché nel frattempo il costo per unità di prodotto è aumentato del 15%, svantaggiando così le imprese italiane rispetto alle concorrenti tedesche, francesi e spagnole.
GIANNI DUCHINI novembre ‘17