La fine dell’Italia, di GLG
Ho delle perplessità, tenuto conto di ciò che si trova in questi social. Tuttavia lo metto e penso si possa ascoltare. Una cosa la ricordo bene; e questa non è qui citata, ma è vera poiché rammento bene gli anni della discussione e poi entrata nell’euro. Inizialmente, persone più sensate parlavano di un cambio a non più di 1400 lire per euro. La Germania non era contenta e si pensò di trovare un accordo, grosso modo, sulle 1600 lire. Niente da fare con i teutonici. Allora proprio Prodi accettò le quasi 2000 lire. E fu una autentica rovina per chi era a retribuzione fissa, che subì un colpo tremendo al potere d’acquisto di quest’ultima. Almeno un 30% di diminuzione; e di colpo, il 1° gennaio 2002. Si salvarono, ma in parte, i negozianti, i professionisti a parcella e via dicendo. Non però del tutto. E ricordiamo pure che Prodi, da presidente dell’IRI liquidò alcune decine di imprese pubbliche e tentò quella svendita della SME a De Benedetti, che fu sventata dall’energico intervento di Craxi (poi liquidato durante la sporca operazione “mani pulite”).
E allora abbiate la pazienza di leggere anche queste pagine (in Wikipedia), che chiariscono il ruolo di questi diccì di “sinistra”, in stretta combutta con i postpiciisti dopo appunto essere stati salvati da “mani pulite”, che distrusse la DC non di “sinistra” e il PSI, creando invece un gruppo di sguatteri degli USA; quegli sguatteri che impedirono ogni possibile azione di salvataggio di Moro, nella cui borsa erano decine di documenti al 90% mai trovati; e nella parte non trovata c’erano probabilmente molte prove di contatti tra PCI e Usa (Kissinger) che avrebbero di molto guastato il viaggio di Napolitano negli USA, non a caso effettuato un paio di settimane dopo il rapimento Moro. Comunque leggete:
<< Nel 1982 il governo affidò la presidenza dell’IRI a Romano Prodi. La nomina di un economista (seppur sempre politicamente di area democristiana, come il predecessore Pietro Sette) alla guida dell’IRI costituiva in effetti un segno di discontinuità rispetto al passato. La ristrutturazione dell’IRI durante la presidenza Prodi portò a:
• la cessione di 29 aziende del gruppo, tra le quali la più grande fu l’Alfa Romeo, privatizzata nel 1986;
• la diminuzione dei dipendenti, grazie alle cessioni e a numerosi prepensionamenti, soprattutto nella siderurgia e nei cantieri navali;
• la liquidazione di Finsider, Italsider e Italstat;
• lo scambio di alcune aziende tra STET e Finmeccanica;
• la tentata vendita della SME al gruppo CIR di Carlo De Benedetti, operazione che venne fortemente ostacolata dal governo di Bettino Craxi. Fu organizzata una cordata di imprese, comprendente anche Silvio Berlusconi, che avanzarono un’offerta alternativa per bloccare la vendita. L’offerta non venne poi onorata per carenze finanziarie, ma intanto la vendita della SME sfumò. Prodi fu accusato di aver stabilito un prezzo troppo basso (vedi vicenda SME).
Il risultato fu che nel 1987, per la prima volta da più di un decennio, l’IRI riportò il bilancio in utile, e di questo Prodi fece sempre un vanto, anche se a proposito di ciò Enrico Cuccia affermò:
«(Prodi) nel 1988 ha solo imputato a riserve le perdite sulla siderurgia, perdendo come negli anni precedenti.»
(S.Bocconi, I ricordi di Cuccia. E quella sfiducia sugli italiani, Corriere della Sera, 12 novembre 2007)
È comunque indubbio che in quegli anni l’IRI aveva per lo meno cessato di crescere e di allargare il proprio campo di attività, come invece aveva fatto nel decennio precedente, e per la prima volta i governi cominciarono a parlare di “privatizzazioni”.
L’accordo Andreatta-Van Miert[modifica | modifica wikitesto]
Per le sorti dell’IRI fu decisiva l’accelerazione del processo di unificazione europea, che prevedeva l’unione doganale nel 1992 ed il successivo passaggio alla moneta unica sotto i vincoli del Trattato di Maastricht.[poco chiaro] Per garantire il principio della libera concorrenza, la Commissione Europea negli anni ottanta aveva incominciato a contestare alcune pratiche messe in atto dai governi italiani, come la garanzia dello Stato sui debiti delle aziende siderurgiche e la pratica di affidare i lavori pubblici all’interno del gruppo IRI senza indire gara d’appalto europea. Le ricapitalizzazioni delle aziende pubbliche e la garanzia dello Stato sui loro debiti furono da allora considerati aiuti di stato, in contrasto con i principi su cui si basava la Comunità Europea; l’Italia si trovò quindi nella necessità di riformare, secondo criteri di gestione più vicini a quelli delle aziende private, il suo settore pubblico, incentrato su IRI, ENI ed EFIM. Nel luglio 1992 l’IRI e gli altri enti pubblici furono convertiti in Società per azioni. Nel luglio dell’anno successivo il commissario europeo alla Concorrenza Karel Van Miert contestò all’Italia la concessione di fondi pubblici all’EFIM, che non era più in grado di ripagare i propri debiti.
Per evitare una grave crisi d’insolvenza, Van Miert concluse, alla fine del 1993, con l’allora ministro degli Esteri Beniamino Andreatta un accordo[15], che consentiva allo Stato italiano di pagare i debiti dell’EFIM, ma a condizione dell’impegno incondizionato a stabilizzare i debiti di IRI, ENI ed ENEL e poi a ridurli progressivamente ad un livello comparabile con quello delle aziende private entro il 1996. Per ridurre in modo così sostanzioso i debiti degli ex-enti pubblici, l’Italia non poteva che privatizzare gran parte delle aziende partecipate dall’IRI.
Le privatizzazioni[modifica | modifica wikitesto]
L’accordo Andreatta-Van Miert impresse una forte accelerazione alle privatizzazioni, iniziate già nel 1993 con la vendita del Credito Italiano. Nonostante alcuni pareri contrari, il ministero del Tesoro scelse di non privatizzare l’IRI S.p.A., ma di smembrarla e di vendere le sue aziende operative; tale linea politica fu inaugurata sotto il primo governo di Giuliano Amato e non fu mai messa realmente in discussione dai governi successivi. Raggiunti nel 1997 i livelli di indebitamento fissati dall’accordo Andreatta-Van Miert[senza fonte], le dismissioni dell’IRI proseguirono comunque e l’Istituto aveva perso qualsiasi funzione, se non quella di vendere le sue attività e di avviarsi verso la liquidazione.
Tra il 1992 ed il 2000 l’IRI vendette partecipazioni e rami d’azienda, che determinarono un incasso per il ministero del Tesoro, suo unico azionista, di 56 051 miliardi di lire, cui vanno aggiunti i debiti trasferiti.[16] Hanno suscitato critiche le cessioni ai privati, tra le altre, di aziende in posizione pressoché monopolistica, come Telecom Italia [si tratta della svendita effettuata nel 1999 dal governo D’Alema, già aggressore della Serbia al seguito di Clinton, ai “Capitani coraggiosi” Gnutti e Colaninno di Brescia; svendita per la quale il direttore generale del Tesoro, dott. Mario Draghi, non si presentò ad esercitare la “golden share”, ancora di salvataggio delle imprese di Stato appunto in svendita. Bernabé, ad. di Telecom minacciò rivelazioni che avrebbero sputtanato il governo D’Alema, ma in 48 ore si acquietò e negli anni successivi fece un’ottima carriera, tornando dopo molto tempo a perfino ri-dirigere la Telecom ormai non più pubblica e nemmeno italiana; nota mia] ed Autostrade S.p.A.; cessioni che hanno garantito agli acquirenti posizioni di rendita.
L’analisi della Corte dei Conti sulla stagione delle privatizzazioni[modifica | modifica wikitesto]
Con un documento pubblicato il 10 febbraio 2010[17], ormai ultimata la stagione delle privatizzazioni che aveva preso il via quasi 20 anni prima, la Corte dei Conti ha reso pubblico uno studio nel quale elabora la propria analisi sull’efficacia dei provvedimenti adottati. Il giudizio, che rimane neutrale, segnala, sì, un recupero di redditività da parte delle aziende passate sotto il controllo privato; un recupero che, tuttavia, non è dovuto alla ricerca di maggiore efficienza, quanto piuttosto all’incremento delle tariffe di energia, autostrade, banche, ecc., ben al di sopra dei livelli di altri paesi Europei. A questo aumento, inoltre, non avrebbe fatto seguito alcun progetto di investimento, volto a migliorare i servizi offerti.[18] Più secco è invece il giudizio sulle procedure di privatizzazione, che:
«evidenzia una serie di importanti criticità, le quali vanno dall’elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio, alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del quadro della ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractors ed organismi di consulenza, al non sempre immediato impiego dei proventi nella riduzione del debito[19]»
La liquidazione[modifica | modifica wikitesto]
Le poche aziende (Finmeccanica, Fincantieri, Fintecna, Alitalia e RAI) rimaste in mano all’IRI furono trasferite sotto il diretto controllo del Tesoro. Nonostante alcune proposte di mantenerlo in vita, trasformandolo in una non meglio precisata “agenzia per lo sviluppo”, il 27 giugno 2000 l’IRI fu messo in liquidazione e nel 2002 fu incorporato in Fintecna, scomparendo definitivamente. Prima di essere incorporato dalla sua controllata ha però pagato un assegno al Ministero del Tesoro di oltre 5000 miliardi di lire, naturalmente dopo aver saldato ogni suo debito.