LA GLOBALIZZAZIONE E’ FINITA. ANDATE IN GUERRA
La globalizzazione è finita. Questa lettura ideologica della nostra epoca post Guerra Fredda – teleologicamente corretta perché aderente alla visione dominatrice Atlantica, uscita vincitrice dal confronto cinquantennale col blocco sovietico – di cui il povero Marx sarebbe stato il precursore, come un economista classico comune, un Adamo Smith qualsiasi, è smentita dal ritorno in auge dei protezionismi, dei nazionalismi e delle stesse Potenze che riconcorrono in maniera antagonistica all’occupazione delle zone d’influenza nello spazio mondiale. Russia e Cina sono quelle più in evidenza in questo momento.
L’orizzonte globalista non era altro che l’abito avvolgente col quale gli Usa ed i suoi partner avevano abbracciato, nel proprio campo egemonico, quasi tutto il pianeta, farneticando di una fase di pace perpetua in cui il mercato, secondo un processo naturale, avrebbe unificato popoli e territori, con la supervisione di organismi di governance universale, a partecipazione pluristatale, almeno simulata (perché sappiamo, in realtà, di chi erano emanazione diretta i vertici di tali istituzioni).
Interdipendenza e interrelazione, per il benessere economico dell’umanità, in un clima politico rasserenante, sono state le uniche parole d’ordine ammesse nelle sessioni internazionali dei capi di stato e dei guru della società del pensiero unico negli ultimi decenni. Il conflitto, questo residuo di un’era superata, doveva essere preventivamente represso per la sicurezza di ciascuno, soprattutto, quando emergeva in quelle periferie recalcitranti del globo che non riuscivano ad adattarsi alla mono dimensione di subordinazione mercantile e bellica, ammessa dall’Occidente.
Ora, però, la pacchia è terminata. Vecchie Nazioni riemergenti e nuovi giganti economici e militari hanno infranto l’illusione manifesta americana.
Il primo risultato, conseguente al mutamento di dette circostanze, è quello del crollo finanziario globale. Con l’indebolimento delle funzioni regolatrici del polo statunitense sul mercato e di quelle accentratrici politico-militari sugli stati ad esso subordinati, saltano le norme che fin qui avevano presieduto alle relazioni tra gli attori. Cambiando i rapporti di forza tra le parti le imposizioni unilaterali da parte di uno solo o più paesi, tra loro collegati, sugli altri Stati in disallineamento diventano pressoché impossibili ed il sistema entra in crisi. Le frizioni emergenti sul lato commerciale sono appena l’antipasto di quello che, nel medio-lungo periodo, accadrà a livello di scontro politico ed anche di confronto militare.
Il mito libero scambio viene rimesso in discussione dai quei decisori nazionali che, prima ancora del free trade, hanno interesse a consolidare 1)le loro produzioni strategiche, senza lasciarsi intimidire dalle eventuali violazioni delle leggi scritte e non scritte dalla mano invisibile del capitalismo occidentale, 2) i loro apparati statali, tanto per proteggere l’azione delle loro aziende di punta all’estero che per securizzare il potere costituito da attacchi esterni e di quinte colonne interne.
Dopo la sbornia liberista degli ultimi tempi, se vogliamo davvero comprendere il nostro tempo, dobbiamo rivolgerci ad altre teorie, anche del passato. Più vicino alla nostra situazione sono, per esempio, le elaborazioni dell’economista tedesco Friedrich List (Reutlingen, 6 agosto 1789 – Kufstein, 30 novembre 1846). Ne avevo già scritto e mi ripeto volentieri. List viene solitamente ricordato per il contributo teorico in tema di “industria nascente” e per avere invocato il protezionismo in difesa degli interessi nazionali contro l’ideologia del libero scambio, all’epoca propugnata da un’Inghilterra dominante per mare e per terra. Il merito principale di List (andarsi a leggere il libro di La Grassa, Finanza e Poteri, edito dal Manifesto) è quello di avere elaborato una teoria relativa ad una specifica fase dello sviluppo capitalistico. La sua concettualizzazione fu in grado di rappresentare efficacemente la contraddizione di quel particolare periodo, e cioè l’asimmetria nella distribuzione del potere tra i Paesi già nel pieno della loro rivoluzione industriale e quelli che invece l’avevano da meno tempo avviata. List individuerà nel processo di unificazione per mezzo del commercio internazionale un’opportunità ed un pericolo. Proprio come per la globalizzazione tanto osannata oggi. Per l’economista tedesco è l’indipendenza dell’industria avanzata che garantisce ad un popolo la possibilità d’inserirsi da protagonista, respingendo le imposizioni esterne, nei meccanismi della produzione della ricchezza del commercio internazionale. Nella nostra epoca globalizzata la protezione delle prerogative nazionali è di vitale importanza nelle contrapposizioni tra stati e aree che si confrontano per l’egemonia mondiale. Traslando List nell’attualità della nostra situazione possiamo affermare che la prosperità di un paese dipende dalla sua capacità di garantirsi quell’autonomia, politica ed economica, che lo mette al livello delle altre potenze mondiali. Naturalmente, in questo contesto le alleanze tra entità statuali che condividono obiettivi simili e convergenti sono fondamentali, soprattutto in un periodo di accesa rivalità geopolitica (multipolarismo, policentrismo) sulla scacchiera mondiale. Sotto questo aspetto non si può dire che sia la Germania quella potenza predominante che schiaccia le varie potenze regionali e le diverse potenzialità europee. Per dette ragioni l’insegnamento di List, mutatis mutandis, torna attualissimo, occorre infatti: “Conservare, sviluppare e perfezionare la nazionalità: questo, perciò, è l’obbiettivo principale cui devono essere indirizzati gli sforzi di una nazione: una tendenza del genere non è errata, né egoistica, ma sensata…”. E a chi parla ancora di globalizzazione, quasi si trattasse di un processo oramai realizzato, perfetto ed equilibrato, laddove emergono vieppiù antinomie irrimediabili, sotto forma di crisi economiche e di attriti politico-militari, tuttavia coperti dalla soggezione e dalla menzogna di classi dirigenti deboli come la nostra, risponderemo con List che: “Un’unione universale originata dalla potenza politica e dalla ricchezza preponderante di una sola nazione, basata cioè sulla sottomissione e sulla dipendenza di tutte le altre, avrebbe per risultato l’annientamento di tutte le particolarità nazionali e di ogni emulazione fra i popoli. Una unificazione su queste basi sarebbe contraria agli interessi ed ai sentimenti di tutte quelle nazioni che si sentono chiamate all’indipendenza ed al raggiungimento di un alto grado di ricchezza e di importanza politica; non sarebbe che la ripetizione di quanto è già avvenuto nella storia con l’Impero romano; con la differenza che questa volta accadrebbe con l’aiuto del commercio e dell’industria, invece che delle armi; ciò non di meno, ricondurrebbe i popoli alla barbarie”.
List, (il solito) Clausevitz ed il nostro maestro La Grassa sono certamente un miglior punto di partenza di qualsiasi altro keynesiano o monetarista, che nonostante le mille previsioni disattese e le altrettante soluzioni fallimentari proposte, continua ad obliterare la scena intellettuale rendendola impermeabile alle reali innovazioni interpretative.
Ps Da quando abbiamo fondato il blog Gianfranco La Grassa ha azzeccato moltissime previsioni ma nessuno gli riconosce quello che gli spetterebbe. Probabilmente, questo è il destino di chi fa bene il suo lavoro senza ricercare mai i riflettori della ribalta.