LA GRASSA E I DOMINATI (Il meccanico del marxismo)
C’è un giudizio ingeneroso e sommario che, da troppo tempo, aleggia sul pensiero di Gianfranco La Grassa. Quello per cui la sua teoria negherebbe, in maniera eccessivamente sbrigativa e sprezzante, la possibilità ai dominati di essere protagonisti di una trasformazione sociale nel/del sistema capitalistico. Così è anche secondo Augusto Illuminati che riprende, nella postfazione al libro (che vi consiglio) di Piotr Zygulski “La Grassa: il meccanico del marxismo” (Petite Plaisance), un parere del filosofo torinese Costanzo Preve:
“Preve, – dice Illuminati – proprio grazie al suo essenzialismo, coglie però il limite principale del suo interlocutore, “il totale disprezzo per le azioni dei dominati e il solo ossessivo interesse per le azioni «strategiche» dei dominanti”, che in effetti definisce un punto di forza dell’analisi sociale ma anche una radicale estraneità ai movimenti rivoluzionari, privando i dominati di qualsiasi praticabile transmodalità e speranza di riscatto. Non vogliamo rimproverare a La Grassa un limite effettuale di schieramento e tanto meno (come Preve) una debolezza filosofica, ma proprio un difetto di analisi, per il suo escludere il conflitto di classe dalla scena primaria della storia, relegandolo alla combattiva negoziazione tradeunionistica del salario. Non gli imputiamo, alla Preve, una teoria “aleatoria” del socialismo (Althusser aveva ben diversamente declinato tale assunto in favore della rivoluzione e della forma-movimento rispetto ai partiti), ma proprio che, di fatto, il cambiamento del modo di produzione venga escluso nella forma di un rinvio sine die o di una prospettiva catastrofista”.
La negazione, come ha più volte spiegato lo stesso pensatore veneto, non scaturisce da sue preferenze personali o da risentimenti particolari di natura emotiva (e per questo non può essere ridotta ad una forma di dileggio che non rientra negli strumenti del metodo scientifico di cui La Grassa si serve) ma deriva da un’analisi oggettiva dei rapporti di dominanza nella formazione globale dei funzionari del Capitale.
Piuttosto, sono i suoi detrattori (non è certo il caso di Illuminati, un critico di La Grassa ma non un denigratore di tutta la sua teoria che, anzi, viene esplicitamente apprezzata in alcuni tratti suggestivi e originali, soprattutto relativi all’analisi “degli schieramenti geopolitici” e del “legame intercorrente fra paesi dominanti e gruppi dominanti collocati in una scala discendente di potere”) che, in barba a qualsiasi valutazione intellettualmente onesta delle avvenute mutazioni capitalistiche e dell’incapacità dell’ortodossia marxista di coglierle, cercano di illudere le masse con velleità rivoluzionarie smentite dai fatti nel corso dei decenni e, ormai, anche dei secoli.
E’ vero quello che afferma Illuminati, La Grassa “esclude … l’esistenza di una dinamica, intrinseca all’attuale formazione sociale di tipologia capitalistica, diretta alla sua trasformazione in altra nettamente differente, insomma una fase di transizione a una qualsiasi forma di socialismo o comunismo” ma lo fa scientificamente, confutando l’ipotesi marxiana che prevedeva il formarsi del General Intellect nella base materiale del modo di produzione capitalistico. Ci torniamo a breve citando direttamente dal III libro del Capitale, dove è lo stesso Marx ad illustrare con estrema chiarezza la sua previsione (mai realizzatasi).
Non prendere coscienza di questo errore marxiano è un fatto grave che impedisce al passato di passare con tutti i suoi fantasmi (e spettri), primo fra tutti il comunismo. Dunque, non è La Grassa a sconfessare il soggetto “proletario” rivoluzionario ma è la stessa Storia ad averne contraddetto le potenzialità sovversive o transmodali (indispensabili al trapasso dal capitalismo al comunismo). La teoria lagrassiana certifica questo inappellabile verdetto epocale, smonta, passo dopo passo, le conclusioni di Marx e si apre a nuove ipotesi e intuizioni, finalizzate a comprendere meglio le concrezioni sociali dette “reali” che la ben nota disciplina di cui ci siamo a lungo serviti non è più in grado di afferrare e decifrare nel loro sviluppo.
Del resto, questa è la sorte della scienza, come diceva Weber, quella di invecchiare “dopo dieci, venti, cinquant’anni. Questo … è il senso del lavoro della scienza […]A ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza.[…]Essere superati scientificamente – è bene ripeterlo – è non soltanto il destino di noi tutti, ma anche il nostro scopo.”
Anche Geymonat sostiene una cosa simile: “Ogni verità deve diventare provvisoria, deve accettare di essere sempre sottoposta a nuovi controlli, a rettifiche, a profonde rielaborazioni. In luogo del concetto di verità immutabile subentra quello di verità ‘feconda’, cioè di principio scientifico capace di dar luogo a sviluppi rapidissimi, che forse porranno in crisi la validità stessa del principio da cui erano ricavati. In altri termini : la verità scientifica si rivela intrinsecamente dialettica, incompatibile con ogni pretesa di staticità. La fedeltà ai principi non ha più senso: essa deve venir sostituita con la fedeltà allo spirito scientifico, che può condurci e spesso ci conduce al rovesciamento delle nostre più rispettabili teorie.”
Luckacs non è da meno quando sostiene che: “è implicito nell’essenza della storia di produrre permanentemente il nuovo, e questo nuovo non può essere computato in anticipo da nessuna infallibile teoria”.
Noi ci troviamo esattamente dentro questo nuovo che il marxismo non poteva anticipare dalla sua postazione storica. Il cosiddetto capitalismo sotto i nostri occhi ha sicuramente degli elementi in comune col capitalismo dei tempi di Marx, quello che lui aveva cercato di comprendere con specifiche categorie scientifiche, ma, in ogni caso, non si tratta più del medesimo sistema studiato dal Moro, così come non è più lo stesso il Paese-culla che ne ha favorito la gestazione e la riproduzione dei rapporti (sociali) di forza su vasta scala mondiale (l’Inghilterra di allora, gli Usa a partire dai primi decenni del ‘900 e fino a noi).
Molti ignorano questi elementi che, invece, sono centrali per intercettare le rotture e i cambiamenti intrasistemici succedutisi nelle diverse fasi, sui quali non siamo ancora in grado di dire qualcosa di davvero preciso. Scrive al proposito La Grassa:
“La società statunitense era capitalistica, se per capitalismo intendiamo semplicemente una economia strutturata in base all’impresa e al mercato; tuttavia, salvo che in alcuni suoi settori (ad es. quello “bostoniano”, e qualche altro), essa fu in prevalenza, e sempre più soprattutto nel novecento, non borghese. Questo carattere si diffuse poi, sostanzialmente, in tutto il sistema detto capitalistico, quindi anche in Europa. Il marxismo, ma non solo il marxismo, non riuscì a cogliere tale trasformazione – probabilmente una vera transizione ad una struttura di rapporti sociali piuttosto differente dalla precedente – nemmeno quando questa fu sostanzialmente compiuta, tutto sommato all’epoca della seconda guerra mondiale e dell’entrata del “campo capitalistico” in una nuova fase monocentrica con predominanza statunitense, la quale si estese poi, come già detto, a tutto il globo allorché il capitalismo si rimondializzò. Secondo la mia opinione, il marxismo non ebbe nemmeno il sentore di questo passaggio cruciale ad nuova forma sociale, poiché i suoi concetti teorici fondamentali erano forgiati per comprendere il capitalismo – tout court, in generale – dell’epoca in cui fu un sistema mondiale a centralità inglese; segnalo quindi nuovamente che tale teoria era tutta concentrata sull’analisi delle strutture sociali della produzione (di merci), ma mancava del complemento geopolitico e socio-spaziale”.
La Grassa, invece, coglie questo trapasso, e verifica, ricorrendo agli strumenti della scienza, l’impossibilità del marxismo a mettere a fuoco, per limiti teorici intrinseci, le metamorfosi avvenute dentro il Capitale (anche nel suo nucleo più intimo), nonché i riflessi sociali di dette modificazioni dirimenti. Acquisita questa consapevolezza inizia a tracciare un percorso innovativo di analisi, quello del conflitto strategico, utile a decodificare un po’ meno approssimativamente i fenomeni in corso di svolgimento nei nostri contesti collettivi, verso i quali il marxismo si dimostrava oramai muto e disarmato.
Non c’è disconoscimento del pensiero di Marx nel lavoro di La Grassa ma c’è, sicuramente, un superamento del suo apparato categoriale, dettato dallo sviluppo delle medesime dinamiche storiche e (geo)politiche che ha invalidato buona parte degli esiti (trasformativi) ai quali era giunto l’intellettuale tedesco partendo dalle valutazioni del capitalismo (di matrice inglese) a lui coevo.
Di tali valutazioni marxiane c’è ancora molto da preservare ma bisogna precisare attentamente cosa tenere, per non segare il ramo che ci sostiene, e cosa recidere, per non farci oscurare la vista dalle fronde secche ed inservibili. Per questo, l’economista di Conegliano ha parlato di I disvelamento (di Marx) e di II disvelamento (di La Grassa) per evidenziare tanto una continuità che una coupure tra la scienza marxiana ed il suo approccio epistemologico.
Marx ha spiegato che l’eguaglianza formale dei soggetti, scambiantisi le merci (compreso la forza lavorativa) sul mercato, al loro valore, avviene in assenza di vincoli di coercizione. Questa parità di diritti degli attori economici sul mercato maschera però la disuguaglianza effettiva nel processo produttivo che discende dai differenziali di proprietà e, dunque, di potere (è il I disvelamento):
“Lo scambio delle merci quali equivalenti (in media) nasconde la fondamentale (sottostante) produzione, e appropriazione capitalistica, del plusvalore che è pluslavoro; ancor più decisiva è però la riproduzione del rapporto durante lo svolgimento del processo produttivo, da cui escono il capitalista, arricchito dal profitto (plusvalore), e l’operaio in quanto semplice possessore della sua forza lavoro pronta per essere rivenduta, dando così inizio ad un nuovo ciclo dello stesso processo”.
Tuttavia, questa acquisizione, che non è meramente economicistica (infatti, per Marx il Capitale è rapporto sociale e non semplice cosa) non illumina adeguatamente altri fattori decisivi della svolgimento capitalistico sui quali La Grassa fonda il II° disvelamento della sua teoria (di fase) che:
“impone di mettere senza più esitazioni al centro dell’analisi il principio della “razionalità” strategica, applicata al conflitto in quella che è la politica tout court, ovunque venga svolta: nella sfera politica vera e propria, in quella economica, in quella ideologico-culturale. Tale politica si condensa nei vari “macrocorpi” (Stato e apparati politici, imprese, ecc.) che diventano gli “attori” della battaglia nel campo del suo svolgimento, i portatori soggettivi di dinamiche conflittuali oggettive; non colte in sé ma sempre interpretate con ipotesi che nascono dalle teorie formulate all’uopo (e sempre riviste e ri-formulate di epoca in epoca). Il conflitto (strategico), “essenza” della politica, pur essendosi esteso – durante il passaggio al capitalismo, cioè alla sua prima formazione sociale, quella borghese – alla sfera economica, non fa di quest’ultima quella ormai predominante e da cui tutte le altre dipenderebbero (deterministicamente o con “azione di ritorno”, che è un semplice “meccanicismo incrociato”, una mera interazione)’.
E’ un bel passo in avanti che va approfondito e che invece viene respinto, con supponenza ideologica, dalle cariatidi del marxismo (le quali semplicemente ignorano l’evidenza) ma anche da chi, come il compianto Preve, era riuscito a percepire la transizione, aveva dato una definizione provvisoria per inquadrarla (quella del capitalismo senza borghesia e senza proletariato) ma non era poi riuscito a portare alle estreme conseguenze il suo ragionamento. Preve, in sostanza, non seppe o non volle rinunciare a quello che la storia aveva già sanzionato: la deposizione dei dominati dal trono rivoluzionario sul quale erano stati posti dalla teoria marxiana, purtroppo successivamente invalidata. Nonostante l’iniziale balzo in avanti, dovuto a quella prima intuizione, il filosofo piemontese ha poi preferito fare cento passi a ritroso per non inimicarsi gli ambienti fumosi di un certo tipo contestazione fintamente antisistemica. Alla fine, Preve è rimasto attardato sia rispetto a La Grassa che a Marx. Quest’ultimo aveva individuato la contraddizione fondamentale (Capitale/Lavoro) innescante la dinamica oggettiva nell’ambito della quale si andava formando il presunto soggetto rivoluzionario proletario (nelle viscere stesse del capitalismo).
La Grassa, prendendo cognizione della falsificazione di tale dinamica, l’ha sostituita con quella del conflitto strategico (attivato dal flusso squilibrante della realtà) innervante il complesso societario in tutte le sue sfere e determinante il continuo scontro tra insiemi in competizione (di individui, di drappelli, di formazioni geopolitiche ecc. ecc; raggruppamenti nei quali risultano inclusi anche i dominati, però con un ruolo non più transmodale rispetto alla società capitalistica e con alterne fortune circa la soddisfazione delle loro legittime istanze, dipendenti dal livello dei rapporti di forza nelle diverse congiunture) per la predominanza, in ogni campo antropico.
E Preve? Ha idealizzato tutto e non ha concluso più nulla di buono. E’ tornato ad Hegel, ha psicoanalizzato Marx (“Filosoficamente, io considero Marx non un materialista … ma … un idealista al cento per cento, costretto a rimuovere psicanaliticamente il proprio idealismo”), fino a definirlo un idealista inconsapevole, e si è messo ad agitare le bisacce dei mendicanti, inneggiando ad ideologie comunitaristiche, decrescistiche e umanitaristico-emancipative che avrebbero fatto accapponare la pelle non solo al grande di Treviri ma, anche, al più grande capo rivoluzionario dei dominati di tutti i tempi, Lenin, il quale una volta giunse ad affermare che bisognava “picchiare sulle teste, picchiare senza pietà, anche se sul piano ideale siamo contrari a ogni violenza”. Altro che umanitarismo e altri discorsi a vuoto sull’ente naturale generico, sull’Uomo buono per natura ma incattivito dall’alienazione capitalistica.
Questi travisamenti dimostrano che Preve aveva torto su tutta la linea e, particolarmente, nell’accusa lanciata a La Grassa di aver fatto svanire i dominati mentre lui si limitava ad invocarli e a farli materializzare in un mondo immaginario dove giocavano “a balle” Latouche e De Benoist. La Grassa non ha fatto sparire un bel nulla ma ha semplicemente (di)mostrato che, venendo meno il marxiano General Intellect, i proletari perdevano il loro statuto di soggetto rivoluzionario, tanto nel capitalismo dei tempi Marx che nei capitalismi attuali.
Andiamo direttamente alla fonte. Ecco quanto scrive Marx nel III libro del Capitale:
“Trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari. Anche quando i dividendi che essi ricevono comprendono l’interesse ed il guadagno d’imprenditore, ossia il profitto totale (poiché lo stipendio del dirigente è o dovrebbe essere semplice salario di un certo tipo di lavoro qualificato, il cui prezzo sul mercato del lavoro è regolato come quello di qualsiasi altro lavoro), questo profitto totale è intascato unicamente a titolo d’interesse, ossia un semplice indennizzo della proprietà del capitale, proprietà che ora è, nel reale processo di riproduzione, così separata dalla funzione del capitale come, nella persona del dirigente, questa funzione è separata dalla proprietà del capitale. In queste condizioni il profitto (e non più soltanto quella parte del profitto, l’interesse, che trae la sua giustificazione dal profitto di chi prende a prestito) si presenta come semplice appropriazione di plusvalore altrui, risultante dalla trasformazione dei mezzi di produzione in capitale, ossia dalla loro estraniazione rispetto ai produttori effettivi, dal loro contrapporsi come proprietà altrui a tutti gli individui realmente attivi nella produzione, dal dirigente fino all’ultimo giornaliero. Nelle società per azioni la funzione è separata dalla proprietà del capitale e per conseguenza anche il lavoro è completamente separato dalla proprietà dei mezzi di produzione e dal plusvalore. Questo risultato del massimo sviluppo della produzione capitalistica è un momento necessario di transizione per la ri-trasformazione del capitale in proprietà dei produttori, non più però come proprietà privata di singoli produttori, ma come proprietà di essi in quanto associati, come proprietà sociale immediata. E inoltre è momento di transizione per la trasformazione di tutte le funzioni che nel processo di riproduzione sono ancora connesse con la proprietà del capitale, in semplici funzioni dei produttori associati, in funzioni sociali….
Questo significa la soppressione del modo di produzione capitalistico, nell’ambito dello stesso modo di produzione capitalistico, quindi è una contraddizione che si distrugge da se stessa, che prima facie si presenta come semplice momento di transizione verso una nuova forma di produzione. Essa si presenta poi come tale anche all’apparenza. In certe sfere stabilisce il monopolio e richiede quindi l’intervento dello Stato. Ricostituisce una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti nella forma di escogitatori di progetti, di fondatori e di direttori che sono tali semplicemente di nome; tutto un sistema di frodi e di imbrogli che ha per oggetto la fondazione di società, l’emissione e il commercio di azioni. È produzione privata senza il controllo della proprietà privata….
L’espropriazione si estende qui dai produttori diretti agli stessi capitalisti piccoli e medi. Tale espropriazione costituisce il punto di partenza del modo di produzione capitalistico, e allo stesso tempo il suo scopo, che è, in quella analisi, quello di espropriare i singoli individui dei mezzi di produzione, che con lo sviluppo della produzione sociale cessano di essere mezzi della produzione privata e prodotti della produzione privata, e che possono essere ancora soltanto mezzi di produzione nelle mani dei produttori associati, quindi loro proprietà sociale, così come sono loro prodotto sociale. Ma nel sistema capitalistico questa espropriazione riveste l’aspetto opposto, si presenta come appropriazione della proprietà sociale da parte di pochi individui, e il credito attribuisce a questi pochi sempre più il carattere di puri e semplici cavalieri di ventura. Poiché la proprietà esiste qui sotto forma di azioni, il suo movimento ed il suo trasferimento non sono che il puro e semplice risultato del giuoco di borsa dove i piccoli pesci sono divorati dagli squali e le pecore dai lupi di borsa. Nel sistema azionario è già presente il contrasto con la vecchia forma nella quale i mezzi di produzione sociale appaiono come proprietà individuale; ma la trasformazione in azioni rimane ancora chiusa entro le barriere capitalistiche; in luogo di annullare il contrasto fra il carattere sociale ed il carattere privato della ricchezza, essa non fa che darle una nuova forma.
Le fabbriche cooperative degli stessi operai sono, entro la vecchia forma, il primo segno di rottura della vecchia forma, sebbene dappertutto riflettano e debbano riflettere, nella loro organizzazione effettiva, tutti i difetti del sistema vigente. Ma l’antagonismo tra capitale e lavoro è abolito all’interno di esse, anche se dapprima soltanto nel senso che gli operai, come associazione, sono capitalisti di se stessi, cioè impiegano i mezzi di produzione per la valorizzazione del proprio lavoro. Queste fabbriche cooperative dimostrano come, a un certo grado di sviluppo delle forze produttive materiali e delle forme di produzione sociale ad esse corrispondenti, si forma e si sviluppa naturalmente da un modo di produzione un nuovo modo di produzione.Senza il sistema di fabbrica, che nasce dal modo di produzione capitalistico, e così pure senza il sistema creditizio, che nasce dallo stesso modo di produzione, non si potrebbe sviluppare la fabbrica cooperativa. Il sistema creditizio, come forma la base principale per la graduale trasformazione delle imprese private capitalistiche in società per azioni capitalistiche, così offre il mezzo per la graduale estensione delle imprese cooperative su scala più o meno nazionale. Le imprese azionarie capitalistiche sono da considerarsi, al pari delle fabbriche cooperative, come forme di passaggio dal modo di produzione capitalistico a quello associato, con la unica differenza che nelle prime l’antagonismo è stato eliminato in modo negativo, nelle seconde in modo positivo.
Abbiamo finora considerato lo sviluppo del sistema creditizio — e la potenziale eliminazione ivi contenuta della proprietà di capitale — in relazione principalmente con il capitale industriale. Nei capitoli seguenti considereremo il credito in relazione al capitale produttivo d’interesse come tale, tanto l’effetto che il credito ha su quest’ultimo, quanto la forma che assume in questo caso; e a questo proposito vi sono in generale da fare ancora alcune considerazioni specifiche di carattere economico.
Ma prima ancora:
Se il credito appare come la leva principale della sovrapproduzione e della sovraspeculazione nel commercio, ciò avviene soltanto perché il processo di produzione, che per sua natura è elastico, viene qui spinto al suo estremo limite e vi viene spinto proprio perché una gran parte del capitale sociale viene impiegato da quelli che non ne sono proprietari, i quali quindi agiscono in tutt’altra maniera dai proprietari, i quali, quando operano personalmente, hanno paura di superare i limiti del proprio capitale privato. Da ciò risulta chiaro soltanto che la valorizzazione del capitale, fondata sul carattere antagonistico della produzione capitalistica, permette l’effettivo, libero sviluppo soltanto fino a un certo punto, quindi costituisce di fatto una catena e un limite immanente della produzione, che viene costantemente spezzato dal sistema creditizio. Il sistema creditizio affretta quindi lo sviluppo delle forze produttive e la formazione del mercato mondiale, che il sistema capitalistico di produzione ha il compito storico di costituire, fino a un certo grado, come fondamento materiale della nuova forma di produzione. Il credito affretta al tempo stesso le eruzioni violente di questa contraddizione, ossia le crisi e quindi gli elementi di disfacimento del vecchio sistema di produzione.
Ecco i due caratteri immanenti al credito: da un lato esso sviluppa la molla della produzione capitalistica, cioè l’arricchimento mediante lo sfruttamento del lavoro altrui, fino a farla diventare il più colossale sistema di giuoco e d’imbroglio, limitando sempre più il numero di quei pochi che sfruttano la ricchezza sociale; dall’altro lato esso costituisce la forma di transizione verso un nuovo sistema di produzione. È questo duplice carattere che fa di ognuno dei principali araldi del credito, da Law fino a Isaac Pereire, uno strano miscuglio tra il ciarlatano e il profeta…
Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa”.
In questo lungo passaggio Marx sostiene che, man mano che va espandendosi la centralizzazione capitalistica e si forma il monopolio – ed è qui che scaturisce il suo errore, dice La Grassa – i capitalisti vengono di espulsi dalla produzione, vengono allontanati dalla direzione e diventano, in una fase in cui emergono prepotentemente le società per azioni, puri azionisti di tali società dove ricoprono incarichi di tipo parassitario:
“L’unica cosa che fanno è staccar cedole, prendere i dividendi, diventano quasi dei parassiti, diventano dei simil-signori (i signori avevano la rendita dalla terra e loro hanno la rendita dalle azioni). Quello che prendono non è neanche più un profitto ma quasi una rendita, perché sono stati buttati fuori dalla produzione. Mentre, dall’altra parte, soprattutto i capitalisti battuti nella concorrenza ed espulsi dal processo produttivo, diventano dei salariati e devono vendere la loro capacità lavorativa, ma è una capacità lavorativa direttiva. A questo punto, anche la direzione di produzione diventa salariata e quindi si forma un corpo di produttori associati. Quello che io ho chiamato il lavoratore collettivo cooperativo, insomma, è il corpo di lavoratori associati” (La Grassa). Per Marx, a questo punto, c’è già il socialismo nel grembo della società capitalistica perché la produzione è sottoposta al corpo collettivo dei lavoratori associati, il General Intellect, mentre i proprietari sono divenuti assenteisti rispetto ai processi produttivi. Il socialismo è proprio la proprietà (ed il controllo) dei mezzi di produzione da parte del General Intellect. Secondo Marx, date le circostanze storiche e sociali, il trapasso da un modo di (ri)produzione all’altro, dal capitalismo al socialismo, accadrà, in un lasso di tempo relativamente breve. Il Capitalismo aveva gli anni contati…Nella base economica della società il rapporto dominante è già cambiato, comandano finalmente i lavoratori cooperanti (dal dirigente all’ultimo manovale), ma occorreva che anche il potere politico, la sovrastruttura, ancora in mano ai capitalisti speculatori, si scuotesse per rispecchiare la modificazione avvenuta a valle della produzione. Che la presa del potere politico avvenisse con la violenza rivoluzionaria o meno, i capitalisti non avrebbero comunque avuto scampo. L’evoluzione della società li aveva resi marginali e poi del tutto inutili, un ostacolo di poco conto, sulla via della transizione dell’umanità dalla preistoria alla storia.
Tutto ciò però non è accaduto. La Grassa distingue meglio di chiunque altro la situazione reale:
“La riproduzione del rapporto capitalistico non ha portato al mero parassitismo dell’agente capitalistico (divenuto solo finanziario), ma alla decisività della sua funzione strategica nel conflitto. Il marxismo tradizionale ha pensato all’esistenza di un’unica contraddizione antagonistica, principale: quella tra proprietà capitalistica dei mezzi di produzione e lavoro salariato.
Questa la contraddizione rivoluzionaria, quella che spinge – mediante il processo (sociale) della centralizzazione capitalistica – alla trasformazione del capitalismo in comunismo.
Le altre contraddizioni sono secondarie, non antagonistiche, possono al massimo coadiuvare la precedente, ma non hanno effetti rivoluzionari: e vengono “riassorbite” e dunque spariscono quando quella principale ha compiuto il suo lavoro. Puramente e semplicemente, la contraddizione capitale/lavoro non è né
principale né antagonistica, se non sul piano della distribuzione, non certo su quello della produzione (e riproduzione del rapporto).
Man mano che il capitalismo ha sviluppato le sue precipue caratteristiche, sempre più le diverse, e sedicenti, classi operaie hanno mostrato la loro natura tradunionistica, sindacale, che Lenin aveva attribuito a quella inglese (perché fu la prima a svilupparsi pienamente), escogitando la distinzione dell’in sé e del per sé (il partito come organizzazione cosciente d’avanguardia), che si è rivelata un puro escamotage, un altro compromesso per non rimettere in discussione l’intero impianto concettuale marxiano (fra l’altro ormai frainteso poiché tale classe, per il fondatore della teoria, era l’operaio combinato, non certo il solo insieme dei lavoratori di fabbrica).
E’ ora di affermare con estrema nettezza che non sussiste questa pretesa contraddizione principale, quella (in verticale) tra capitale (proprietà) e lavoro (salariato). Non è decisiva, trasformativa, quest’ultima; e non lo è nemmeno la pura e semplice contraddizione economica, legata alla competizione intercapitalistica, in quanto concorrenza tra imprese. Riconsideriamo per un momento, la concezione marxiana. Lo sviluppo capitalistico su scala mondiale, avvenuto a sbalzi per grandi fasi storiche, non ha per nulla comportato la formazione del rapporto tra gruppo di rentier e lavoratore collettivo, prodromo e condizione di possibilità (per Marx, anzi, di necessità) del passaggio al comunismo;ha invece creato, mediante conflitti tra gruppi di agenti strategici capitalistici, una serie di nazioni potenze in lotta per la supremazia globale. Dalle crepe apertesi in questa lotta sono passate le rivoluzioni “comuniste” – rifluite e sconfitte dappertutto dopo la prima guerra mondiale salvo che in Russia; ma poi riprese con il secondo conflitto mondiale – convinte di poter creare un “qualcosa” che invece, dopo un lungo percorso storico secolare, si è rivelato essere del tutto diverso dal supposto e agognato.
Fra l’altro, e questo è problema decisivo, le diverse nazioni-potenze non sembrano affatto delle mere specificazioni di un unico ed omologato modo di produzione capitalistico in espansione mondiale come previsto da Marx. Le forme generali dell’impresa e del mercato non possono nascondere tonalità, coloriture, assai diverse, su cui esistono al massimo molti studi con annotazioni empiriche, ma nessuna trattazione teorica appena un po’ più generale; e ciò è estremamente grave, soprattutto per una corretta prassi politica. Il conflitto “di classe” – scaduto, in ogni paese divenuto Il conflitto “di classe” – scaduto, in ogni paese divenuto compiutamente capitalistico, a mera lotta per la distribuzione del reddito e per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro di vari raggruppamenti sociali (che solo la pigrizia mentale dei “marxisti” si è ostinata a ritenere ancora classi)– è stato via via sopravanzato da quello esistente tra queste nazioni-potenze. Il tipo di conflitto in atto non è quello “di classe” tra capitale e lavoro (come già detto, il presunto conflitto principale e antagonistico, anticipatore della rivoluzione proletaria e dell’avvio della transizione al comunismo); ma nemmeno è semplice competizione interimprenditoriale, di tipologia prevalentemente economica. Il conflitto è strategico – e gli agenti capitalistici dominanti svolgono proprio questa funzione – e dunque è eminentemente politico, in qualsiasi sfera della società si esplichi. In ogni caso, l’agente dominante – quello situato ad uno dei poli del rapporto che la dinamica capitalistica sempre riproduce – non è affatto un puro “succhiatore di plusvalore”, non è mai soltanto un agente della sfera economica. La dinamica in questione è ben più complessa di quella immaginata dal marxismo, e da Marx stesso, e non comporta mero parassitismo, decadenza e disfacimento del capitalismo, preparazione delle condizioni oggettive e del soggetto che lo faranno transitare al comunismo”.
Detto questo, e appurato che nelle viscere del Capitale non si creano i prodromi del socialismo, come aveva vaticinato Marx, si è capaci di individuare un’altra dinamica oggettiva riportante al medesimo risultato, senza scadere nell’escatologia religiosa e negli articoli di fede? Dire che esistono i dominati e sperare nelle loro lotte non significa niente se poi mancano gli elementi oggettivi in grado di innescare il rapporto sociale sostitutivo di quello capitalistico e di “muovere” i soggetti collettivi nella giusta direzione. Al momento, sappiamo solo che il comunismo è diventato impossibile perché la prospettiva marxiana è crollata sotto il peso degli avvenimenti e che i dominati (o proletari, o sfruttati, comunque vogliate chiamarli) non sono più i depositari di un’esclusiva energia rivoluzionaria adatta a rovesciare il capitalismo (accelerando le sue stesse contraddizioni).
Per tutte queste motivazioni ritengo che, tra le innumerevoli critiche che si possano muovere a La Grassa, quella di essersi dimenticato dei dominati, è forse la più superficiale di tutte, va fuori bersaglio e non offre molti spunti di riflessione per l’avanzamento della discussione teorica di cui abbiamo bisogno in questo complicato periodo di “attraversamento”.