La merda di Latouche

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Il “pollo” ha fatto di nuovo l’uovo. Ovviamente, poiché in natura questo è impossibile, guardando meglio l’oggetto, cioè il prodotto esitato dal pennuto addottorato,  quell’uovo non è un uovo ma una deiezione di sembianza ovulare e di pura sostanza fecale. Chiameremo questa uscita fuorviante l’ultima evacuazione propagandistica abbondante del “wate”,  ovvero Serge Latouche che per i suoi dolori di pancia intellettuali convoca Marx ad avvalorare i suoi contorcimenti enterici.  Insomma, l’intellettuale l’ha fatta di nuovo grossa e fuori dal suo consueto vasino.

Lo spazio dello stabbio ideologico, che è altra cosa dal campo della scienza, si riempie di tutti i feticci disponibili sul mercato delle idee di risulta, che non sono concetti ma contenitori stracolmi di pregiudizi, per poi espellere rapide soluzioni, sotto specie di proposte rivoluzionarie regressive, come la decrescita, le quali attirano tutti gli esseri sragionanti affetti da dissenteria ribellistica.

Chi si nutre di queste elaborazioni estemporanee si alimenta sostanzialmente di merda, può ornarla come vuole, edulcorarne il sapore con vari condimenti filosofici ed ecologisti, ma il piatto principale non cambia.

La decrescita, che prospetta una frugalità sociale complessiva come antidoto all’esasperazione consumistica, è già in sé una forma di parsimonia, ma di pensieri e categorie. Latouche combatte la società dell’accumulazione capitalistica con chiacchiere pauperistiche e illusioni ossimoriche (l’abbondanza frugale) , cioè non la combatte affatto perché non la colpisce al cuore delle sue contraddizioni, che non attengono alla sua illimitatezza produttiva ma alla sua violenza politica.

Credo che Latouche, grazie alle conferenze ben retribuite, dove parla e straparla, se la passerà senz’altro meglio di noi. Lo vedo alzarsi piuttosto tardi (le star possono), prendere un caffè equo e solidale, ingurgitare un biscottino biologico, ripulirsi le labbra con un tovagliolino di carta riciclata e, poi, lo immagino ad imprimere i suoi sforzi mattutini, anziché sulla carta igienica come la gente normale, su pagine che saranno stampate dalla Jaca Book con titoli improponibili come il seguente: “Incontri di un obiettore di crescita”. Per questo leggerli è come buttare il tempo nel water.

In uno dei suoi ultimi interventi, l’economista francese, ha rispolverato l’ormai famigerata lettera a Vera Zasulič di Marx, del 1881, cavallo di battaglia di tutti gli utopisti rincitrulliti che cercano le luci della ribalta e il riconoscimento della comunità universitaria, quella pagante i giri dei conferenzieri predicanti la frugalità agli altri, purché non riguardi il loro portafogli.  Secondo Latouche, in quella missiva, Marx gli dava ragione dimostrando di essere un decrescista ante litteram. Costui, infatti, “evocava la possibilità di un passaggio diretto dalla comunità contadina tradizionale russa, il mir, al socialismo, saltando la tappa capitalista.” Come ha scritto Gianfranco La Grassa sulla questione, Marx, al tempo di quella epistola, era ormai un uomo disilluso, che si era reso conto “dell’allontanarsi, per lui sorprendente, della prospettiva comunista. Si concede così l’autentica sciocchezza, malgrado il suo genio, di prendere sul serio la comunità contadina feudale russa, come se si potesse saltare lo sviluppo capitalistico con quell’enorme socializzazione della produzione da esso indotta, che gli aveva fatto credere al comunismo quale processo già in gestazione nelle viscere del modo di produzione capitalistico.”. Latouche (e non solo lui), si è avventato, come uno avvoltoio che non butta via niente, su questa piccola debolezza marxiana, quella appunto commessa da una persona stanca e disincantata che, tuttavia, poteva anche permettersi un minimo cedimento psicologico dopo decenni passati a studiare e a raccogliere “una quantità enorme di dati sullo sviluppo capitalistico, il tutto sfociato nella sua massima opera”, Das Kapital.

Siccome, Latouche oltre che rapace è anche iena, dopo essere salito su questo errore marginale del barbuto di Treviri, ne approfitta per riesumare, da autentico necroforo del marxismo che si richiama al suo fondatore solo per seppellirne definitivamente la memoria, “la straordinaria varietà di vie e di voci del primo socialismo (frettolosamente liquidato con l’etichetta di socialismo romantico o utopistico)”. Certamente, perché se costui non recupera, in qualche maniera, queste forme primordiali di socialismo reazionario come potrebbe mai legittimare l’ultima manifestazione dello stesso, quella da lui brevettata, denominata appunto decrescita?

Poi arriva anche la ciliegina sulla torta, con Latouche  che assicura che “si potrebbe presentare paradossalmente la decrescita come un progetto radicalmente marxista”. Ma davvero? Eppure, a me la sua decrescita sembra una riedizione malriuscita del vecchio socialismo feudale, di cui Marx parla nel Manifesto, ignobile “mescolanza di lamentazioni e pasquinate, di echi del passato e vagiti dell’avvenire”, lotta letteraria per una più rapida decadenza politica ed economica, che al posto dell’ascetismo cristiano mette il misticismo comunitario irrealistico e cencioso.

Infine, il prete Latouche ci indica la strada della resipiscenza: “Per uscire da una crisi che è inestricabilmente ecologica e sociale, bisogna uscire dalla logica dell’accumulazione infinita del capitale e dalla subordinazione di tutte le decisioni essenziali alla logica del profitto. È per questo che la sinistra, se non vuole rinnegare se stessa, dovrà abbracciare senza riserve le tesi della decrescita”.  La sinistra, già rinnegata, non rinneghi se stessa ma abbracci pure la palla al piede della decrescita così la vedremo finalmente inabissarsi insieme a tutte le sue allucinazioni post-moderne, dall’ambientalismo, al differenzialismo di genere, alle altre psicosi politically correct dei nostri tempi.