LA “NOUVELLE VAGUE” DELLA DECRESCITA di M. Tozzato

Luigi Cavallaro, economista che, se non sbaglio, fa riferimento principalmente a Marx e Keynes ha scritto su il manifesto del 16 settembre 2007 un interessante articolo intitolato La nouvelle vague della decrescita.

Cavallaro inizia così l’articolo:

 

Da quando il tracollo dell’esperimento sovietico è sembrato riportare le lancette della storia all’epoca del «trionfo della borghesia», per dirla col titolo del celeberrimo libro di Eric J. Hobsbawm, una nuova idea ha cominciato a farsi strada tra gli orfani irreconciliati dell’idea «crollista». L’idea, molto in sintesi, è che il capitalismo, assai più gravemente che da un antagonismo di classe nel frattempo annacquatosi, sarebbe minato da un rapporto contraddittorio addirittura con la «natura»: la sua propensione alla «crescita illimitata», infatti, prima o poi dovrebbe indurlo a sbattere il muso contro la finitezza del pianeta Terra e delle sue risorse.

È stata la legge dell’entropia a offrire il pilastro teorico su cui edificare una narrazione ancor più fosca del declino irreversibile del modo di produzione (nuovamente) dominante. La presa di coscienza del fatto che tutti i tipi di energia sono destinati prima o poi a trasformarsi in calore non più utilizzabile e che il sistema solare tutto tende verso una «morte termodinamica» ha indotto, infatti, i «neocrollisti» a formulare critiche «radicali» all’idea che il processo economico potesse essere descritto in termini circolari e a esigerne con forza una rappresentazione in termini unidirezionali, rispettosa della «freccia del tempo».

La termodinamica, in tal modo, è diventata la «fisica del valore economico» e la legge dell’entropia «la radice della scarsità economica», come scrisse l’economista e statistico di origine rumena Nicholas Georgescu-Roegen.

 

I prodotti del lavoro sono il risultato certamente della trasformazione tecnica di oggetti naturali (e sociali) comunque già precedentemente divenuti oggetto di lavoro ( materia prima) e/o mezzi di lavoro però il processo di produzione è di carattere  fondamentalmente sociale: anche i valori d’uso considerati in se stessi non sono mere cose ma oggetti che stanno in rapporto di utilità al fine del soddisfacimento di bisogni umani.

  

Continua ancora Cavallaro:

 

Le forme di vita delle piccole comunità di cacciatori-raccoglitori e, in genere, delle società precapitalistiche sono state descritte come altrettanti Eden, in cui gli individui vivevano in armonia con l’ambiente circostante, appropriandosene giusto quel tanto che serviva a sfamarsi e a riprodursi. Il fatto che l’arrivo dell’Homo sapiens sapiens in un qualche nuovo territorio fosse immancabilmente seguito da un’ondata di estinzioni di animali di grossa taglia, che molte comunità contadine praticassero un’agricoltura basata sul metodo «taglia e brucia», che eventi atmosferici banali potessero condannare intere comunità alla fame e che le condizioni di lavoro e di vita fossero terrificanti è stato semplicemente dimenticato. Così come è stata dimenticata una lettera in cui Engels commentava severamente con Marx le pretese di un tal Podolinskij di «esprimere rapporti economici in misure di fisica».

 

A questo punto l’economista prende in considerazione l’ultimo lavoro di  Serge Latouche – lo studioso francese che può esserne considerato il principale rappresentante – intitolato La scommessa della decrescita (Feltrinelli, pp. 215, euro 16) «un vero e proprio manifesto teorico della Società della decrescita». La decrescita è per Latouche:

 

«uno slogan politico con implicazioni teoriche, è un "termine esplosivo" che cerca di interrompere la cantilena dei "drogati" del produttivismo». Più che di decrescita, precisa anzi lo studioso, bisognerebbe parlare di «a-crescita», perché «si tratta di abbandonare la fede e la religione della crescita, del progresso e dello sviluppo».

Si propone inoltre il recupero di una dimensione di vita

 

«conviviale», secondo l’accezione che ne propose negli anni ’70 Ivan Illich: si tratta infatti di sollecitare la «capacità da parte di una collettività umana di sviluppare un interscambio armonioso tra gli individui e i gruppi che la compongono e della capacità di accogliere ciò che è estraneo a questa collettività».

 

Come molti ecologisti, Latouche afferma perentoriamente che «una crescita infinita è incompatibile con un pianeta finito». Non è però chiaro se stia parlando della crescita dei valori d’uso o della crescita del loro valore di scambio espresso in moneta. E’ solo per i primi, infatti, che valgono le leggi fisiche; il secondo può aumentare in maniera indefinita. Non c’è alcuna impossibilità «fisica» capace di impedire che il valore di scambio di un paio di scarpe cresca di dieci, cento o mille volte, ci può essere al massimo una difficoltà fisica di accrescere di cento o mille volte la produzione mondiale di valori d’uso che abbiano «natura» di scarpe. Solo se si ritiene che il prezzo delle merci rifletta la loro «scarsità» – una credenza tipicamente neoclassica, che s’impose ai tempi della rifondazione della teoria economica da parte di Jevons, Menger e Walras – si può rinvenire nella «crescita del Pil» una misura dello «sforzo» imposto dalla società all’ambiente. Ma che il prezzo delle merci sia una funzione delle reciproche scarsità relative è un’affermazione teoricamente infondata, come hanno dimostrato Garegnani e Sraffa ormai quasi cinquant’anni fa.

 

Questi ultimi passaggi richiederebbero una riflessione approfondita, e sicuramente non sono molto competente in materia, però mi pare che non sia del tutto inesatto dire che i prezzi delle merci siano anche determinati dalle reciproche scarsità relative. Ed è comunque vero che la crescita del valore del Pil non misura e non viene misurata dal dispendio di energie fisico-sociali nel processo di produzione tecnico-organizzativo.

 

Ma facciamo finta che la confusione non ci sia e che, quando parla di «decrescita», Latouche intenda riferirsi solo ad una decrescita della produzione di valori d’uso. Come arrivarci? «Il cambiamento reale di prospettiva può essere realizzato attraverso il programma radicale, sistematico, ambizioso delle "otto R": rivalutare, ridefinire, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare», e la leva che lo studioso francese si propone di agire è la tassazione. Aumentando di «dieci volte» i costi di trasporto e incrementando la tassazione sulle macchine, «le aziende che seguono la logica capitalistica sarebbero ampiamente scoraggiate. In un primo tempo, un gran numero di attività non sarebbe più "redditizia" e il sistema resterebbe bloccato».

A quel punto, sarebbe senz’altro possibile «togliere sempre maggior quantità di terra all’agricoltura intensiva», semplicemente – aggiungiamo noi – perché le aziende agricole capitalistiche avrebbero decretato fallimento, e si potrebbe senz’altro «darla all’agricoltura contadina, biologica, rispettosa degli ecosistemi». E questa dinamica, che farebbe sì che «ogni produzione che può essere realizzata su scala locale e al fine di soddisfare bisogni locali» venga «realizzata localmente», contribuirebbe «anche a risolvere il problema della disoccupazione»: già, perché la decuplicazione della tassazione e il consequenziale blocco delle imprese capitalistiche avrebbero anche questa spiacevole conseguenza – qualche centinaio di milioni di disoccupati.

Sarebbe comunque una questione momentanea: presto le persone tornerebbero «ad apprezzare il territorio circostante» e «a temere di allontanarsi da casa loro», e comincerebbero «a riparare, a comprare prodotti di seconda mano, senza provare il sentimento di svalorizzazione di sé». E’ il «paradiso» immaginato da Latouche: una società in cui «le vettovaglie sono molto meno numerose, ma ciascuno ne ha quante bastano e regna un clima di gioia inebriante suscitata da una condivisa frugalità».

 

Ispirandosi a Ivan Illich, rileva Cavallaro, per Latouche diventa presupposto indispensabile per la riuscita del programma delle «otto R»

 

un’«autotrasformazione» non violenta della «società», che non faccia uso di leggi, decreti o polizia e che sia nondimeno capace di «suscitare un numero sufficiente di comportamenti virtuosi».

 

Non è chiaro se Latouche immagini un processo in cui sempre più persone comprano i suoi libri, si convincono della bontà delle sue idee, si danno appuntamento in piazza o in altro luogo «conviviale» e cominciano a concertarsi su come attuare il programma delle «otto R», ma non ci sembra di intravedere altro modo per produrre il presupposto indispensabile al suo obiettivo. E se la «pedagogia delle catastrofi» rivendicata nell’ultimo capitolo del suo libro genera proposte politiche del genere, sovviene per la «decrescita» un distico caro a Marx: «là dove mancano i concetti / s’insinua al momento giusto una parola».

 

In effetti ci pare di poter concludere con l’autore dell’articolo che la cosiddetta decrescita viene, da quello che dovrebbe essere il suo principale e autorevole rappresentante, presentata come una costruzione edificante ed onirica, particolarmente lontana dalla realtà e dai conflitti reali, anche riguardanti le problematiche ambientale, che sono effettivamente sul tappeto.

 

Mauro Tozzato                        02.10.2007